Concerto brandeburghese n. 3 in sol maggiore, BWV 1048


Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. Allegro
    Riutilizzato nella Sinfonia della Cantata BWV 174
  2. Adagio
  3. Allegro
    Utilizza la Pastorale BWV 590
Organico: 3 violini, 3 viole, 3 violoncelli, violone, clavicembalo
Composizione: 1718
Edizione: Peters, Lipsia, 1850
Dedica: margravio Christian Ludwig von Brandenburg

Guida all'ascolto 1

La sera del 28 Luglio 1750 si chiude a Lipsia, la lunga giornata terrena di Johann Sebastian Bach.

Forkel, suo primo biografo, ci racconta che dopo anni di intenso studio della musica la vista di Bach andò peggiorando finché su consiglio di un amico, «che aveva fiducia in un medico londinese, Bach si sottopose, coraggiosamente, a due interventi chirurgici che però fallirono. Non solo perdette del tutto la vista, ma anche la sua costituzione, fino allora così vigorosa, fu irrimediabilmente scossa, forse a causa di farmaci dannosi. La sua salute continuò a peggiorare per più di sei mesi, finché, la sera del 28 Luglio 1750, Bach, all'età di sessantasei anni, si addormentò per sempre. Un mattino, dieci giorni prima di morire, poté nuovamente vedere e sopportare la luce, ma poche ore dopo fu colpito da un attacco apoplettico, e nonostante le cure prodigategli dai medici, il suo organismo ormai stremato non poté più resistere all'acuto stato febbrile».

Con la morte di Bach scompare l'ottimo organista della chiesa di San Tommaso a Lipsia, gli eredi ne disperdono i manoscritti musicali, la vita musicale prende nuove strade e solo rari organisti continuano ad utilizzare qualche corale durante i servizi della liturgia luterana. Meno di cinquant'anni dopo la sua scomparsa, la tecnica esecutiva necessaria per leggere ed eseguire i suoi lavori sembra definitivamente scomparsa.

La data fatidica della rinascita bachiana è il 5 Novembre 1793 quando a Berlino un piccolo gruppo di suoi antichi discepoli, fonda la SingAkademie (Accademia di canto) nella quale gli originali 27 cantori iniziano faticosamente a studiare ed a proporre al pubblico la musica vocale di Bach.

Negli anni seguenti entra nella compagine il giovane Felix Mendelssohn-Bartoldy che l'11 Marzo 1829 esegue a Berlino con enorme successo, la Passione secondo Matteo. Il recupero della figura e del lavoro di Johann Sebastian Bach è cosa fatta.

Nato a Eisenach il 21 Marzo 1685 in una famiglia dedita alla musica da almeno quattro generazioni, e rimasto orfano di padre e di madre a dieci anni, Bach inizia la sua vita di musicista come fanciullo cantore a Lüneburg studiando appassionatamente i testi musicali della fornita biblioteca locale.

Nel 1703 entra come violinista alla corte di Weimar ed avvia la sua carriera di musicista che si snoda nell'arco della sua vita con prestigiosi incarichi prevalentemente organistici nelle chiese luterane tedesche. Bach era considerato il migliore collaudatore di organi della sua epoca.

Segnato da una profonda religiosità e dalla passione per l'approfondimento della musica che coltiva con passione certosina, rappresenta la sintesi delle forme strumentali che gli organisti del Seicento avevano elaborato e l'apertura alle nuove voci musicali che gli pervengono da altri paesi. Comprende ed assimila la grazia dei clavicembalisti francesi ma soprattutto studia gli italiani con particolare riferimento a Vivaldi del quale trascrive numerosi concerti.

Tutte queste esperienze confluiscono poi nella costruzione della monumentale mole della musica ad uso della liturgia luterana.

La vita di Bach fu quella di un onesto e laborioso organista tedesco del nord. Ebbe due mogli e una ventina di figli, dei quali dieci sopravvissutigli, tutti musicisti e, tre almeno, tali da occupare un posto cospicuo nella storia. Una fede religiosa improntata a robusta e sana energia, una concezione di vita lietamente operosa e feconda, erano le caratteristiche della casa. «La vita familiare del tempo dei Bach non conosceva morbidezze di sentimento, ne lacrime, ne baci» (Ernst Borkowsky). Alle sei del mattino tutti i numerosi Bach grandi e piccini saltavano puntualmente giù dal letto e radunati intorno al clavicembalo nella stanza da lavoro cantavano un inno di grazie al Signore. «C'era una devozione virile, una fede esatta e senza riserve, semplicità di cuore, fiducia nella forza della preghiera. Mai l'incertezza del dubbio, ma sempre sicurezza di vita, esatto adempimento di dovere, allegra operosità. Nessuna debolezza nella vita e nel lavoro quotidiano» (Borkowsky). Massimo Mila nota ancora che «la sua Immensa produzione musicale fu messa assieme con un lavoro assiduo, metodico e tranquillo, eseguito con scrupolosa cura di artigiano ed inteso, senza alcuna posa, come servizio di Dio. Senza posa, che se Bach fosse stato calzolaio, avrebbe fatto a maggior gloria di Dio un numero sterminato di scarpe, tutte accuratamente lavorate e finite».

Dal 1717 Bach si trova alla corte di Cöthen con l'incarico di maestro di cappella, ed ha l'occasione di soddisfare l'invito di Christian Ludwig, margravio del Brandeburgo, di scrivere dei pezzi per la sua orchestra.

I Six concerts avec plusieurs instruments, inviati il 24 marzo 1721 da Johann Sebastian Bach, e battezzati nel 1873 dal grande biografo del compositore, Philipp Spitta, Concerti brandeburghesi, costituiscono un affascinante laboratorio delle possibilità di scrittura per gruppo strumentale, indagate attraverso una straordinaria varietà di soluzioni compositive. In realtà piuttosto che ad una serie di concerti scritti per un'occasione specifica ci troviamo di fronte alla bella copia autografa di opere già (in parte?) composte in precedenza. In vista della raccolta i concerti vennero ordinati secondo un piano di perfetta simmetria (per due volte ricorre la serie di due concerti grossi e uno di gruppo, quasi fossero due libri, scrive Alberto Basso), per proseguire la loro vicenda oltre il 1721, quando, ormai a Lipsia, Bach avrebbe impiegato singoli movimenti all'interno di nuove cantate.

Nei Brandeburghesi il compositore coniuga la lezione assimilata dai modelli italiani (Vivaldi Corelli Albinoni e Alessandro Marcello) col contrappunto rigoroso e con alcune strutture della musica vocale, imprimendo una sigla personalissima a questo genere d'avanguardia nel panorama musicale dell'epoca. Da vero maestro dell'integrazione, in grado di compendiare in un ideale enciclopedico i tratti di un'intera civiltà Bach utilizza di volta in volta con somma libertà le forme principali dei suoi tempi: il concerto grosso, in cui un concertino di pochi strumenti si contrappone all'intera orchestra d'archi, denominata appunto concerto grosso; il concerto solistico tripartito, con la sua alternanza razionale di episodi solistici e ritornelli orchestrali; il concerto di gruppo, nel quale non emergono protagonismi di singoli attori; la sonata da camera, a tre e a quattro. Sul versante della strumentazione occupa la scena musicale un caleidoscopio di colori che conosce pochi eguali nel tardobarocco europeo: un gusto per la preziosità timbrica - nella scelta degli strumenti e nella loro combinazione - che troverà in seguito espressione nelle grandi pagine vocali lipsiensi (le passioni, le cantate, l'Oratorio dì Natale). Istanze stilistiche divergenti vengono dunque conciliate all'insegna di una «stravaganza» che permette a questo gruppo unico di opere, rappresentative di un'intera stagione creativa del loro autore, di svettare in un frangente storico cruciale: a conclusione di quel secondo decennio del Settecento in cui il concerto italiano si era affermato attraverso l'editoria musicale internazionale.

Nel Concerto n. 3 in sol maggiore BWV1048, destinato ai soli archi, Bach divide al suo interno violini, viole e violoncelli in tre gruppi, ottenendo un totale di nove parti, cui va aggiunta una decima realizzata dal basso continuo. Con tale risorsa a disposizione, il compositore procede allo sfruttamento sistematico delle sfumature timbriche di questa unica sezione orchestrale, in una scrittura serrata di natura polifonica.

Alla forma del concerto grosso subentra quella del concerto di gruppo, chiaramente esemplificata dall' AIIegro moderato introduttivo, in cui le diverse sezioni si scambiano, in un dialogo arioso, un materiale tematico fondato su una cellula anapestica (nota 1) che domina incontrastata l'intera pagina, nel cui dinamismo irrefrenabile emerge a tratti l'effimero protagonismo dei violini.

Il brano si apre con una frase di introduzione basata sul citato ritmo anapestico, seguita da un episodio contrastante in cui la cellula viene scambiata in modo imitativo tra i tre gruppi di strumenti ad arco e da una frase di collegamento con l'episodio successivo. Il secondo episodio contrastante è dominato dai violini I e II ed è concluso dalla frase di collegamento. Un terzo episodio sempre contrastante è aperto da un tema in imitazione tra le viole e termina con la sua frase di raccordo al passaggio successivo. Il quarto episodio contrastante è in forma di doppia fuga. Il soggetto è sviluppato dal violino I ed imitato dai violini II e III. Segue poi una parte conclusiva che riassume i passaggi del primo tempo.

Un problema interpretativo pressoché insolubile è posto dalla semplice cadenza frigia (due soli accordi) che costituisce l'Adagio centrale. Bach sembrerebbe portare a estreme, paradossali conseguenze quella tendenza italiana (riscontrabile, ad esempio, in talune opere di Corelli e Albinoni) di svuotare il tempo intermedio a vantaggio di quelli estremi. Il rebus esecutivo viene di norma risolto con l'introduzione di una cadenza oppure inserendo all'interno del concerto un movimento da un'altra opera del compositore (nella presente esecuzione ho preferito lasciare i due soli accordi così come scritti da Bach).

Con l'Allegro finale una frenesia cinetica s'impossessa dell'intera compagine, più compatta poiché i violoncelli suonano all'unisono e coinvolta in un inarrestabile congegno motorio di natura contrappuntistica. La forma di danza binaria di quest'ultimo tempo, sottilmente articolata al suo interno, è inconsueta nei concerti bachiani. Nella prima parte l'orchestra presenta un tema che viene trattato per imitazione dai tre gruppi degli archi (violini, viole e violoncelli). Dopo la ripetizione della prima parte, nel secondo episodio il tema passa ai violoncelli ed al basso continuo che provvedono a svilupparlo. L'intera orchestra ripresenta il tema in tonalità minore e lo sviluppa poi in un intreccio tra i tre gruppi di archi. In chiusura l'orchestra torna ad esporre il temanuovamente nella sua tonalità maggiore. A questo punto viene ripetuta la seconda parte nella sua interezza.

Terenzio Sacchi Lodispoto

Esempio cellula anapestica

Introduzione del Concerto n. 3 basato sulla cellula anapestica

(1) Anapesto: Quarto modo ritmico della teoria musicale del secolo XIII, proveniente dalla metrica della poesia greca e latina, è formato da due note brevi seguite da una nota lunga.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

È risaputo che la raccolta dei Six Concerts avec plusieurs instruments (questo il titolo originale, mentre quello di "Concerti brandeburghesi", cosiddetti perché dedicati nel 1721 al margravio Christian Ludwig del Brandeburgo, è entrato nell'uso comune solamente negli ultimi decenni dell'Ottocento) si presenta come un ciclo in sé compiuto: pur nella varietà di una forma specifica, dell'organico strumentale di volta in volta impiegato e del diverso stile che le caratterizza, tali opere danno vita ad una sorta di piccola enciclopedia dimostrativa delle possibilità aperte al genere del concerto, affiancando così le prove sostenute dai maestri italiani prima e da quelli francesi poi. La connotazione francofila emerge dal titolo stesso della raccolta e dalla presenza di non pochi elementi (l'impiego di strumenti di "gusto" francese e talvolta - come avviene nel Primo Concerto - di forme di danza), mentre quella italiana risulta essenzialmente dall'articolazione tripartita della maggioranza di quei concerti e dall'alternanza in questi di passi affidati ai soli (o al solo) e ai tutti.

Non mancano, tuttavia, gli atteggiamenti che, tanto per il rigore costruttivo quanto per il ricorso a modelli arcaici, sono più facilmente riconducibili allo stile tedesco. Tali sono sicuramente il Terzo e il Sesto Concerto, due opere che sembrerebbero concludere i due libri - ciascuno dei quali costituito da tre concerti - che idealmente formano la raccolta. In entrambi i casi si tratta di concerti "di gruppo" (qualcosa di diverso tanto dal concerto grosso quanto dal concerto solistico), affidati esclusivamente a strumenti ad arco e concepiti in chiave prevalentemente polifonica. Tre violini, tre viole e tre violoncelli, oltre al violone (e al cembalo) per la realizzazione del basso continuo, nel caso del Terzo Concerto, mentre il Sesto Concerto vede impiegate due viole da braccio, due viole da gamba, violoncello e basso continuo (realizzato da violone e cembalo), escludendo del tutto i violini.

La scrittura del Terzo Concerto è compatta, attenta a mantenere elevata la temperatura del contrappunto e a realizzare un continuum, una serie di passaggi in ostinato. Gli strumenti agiscono su un piano di assoluta parità, senza mai privilegiare una parte rispetto ad un'altra; siamo in presenza in altre parole, di un blocco unitario e di una compattezza strumentale singolarissima. Non meno singolare, inoltre, è il taglio formale del concerto: due movimenti, il secondo dei quali bipartito, come nell'arcaica sonata da chiesa o da camera, divisi da una cadenza frigia costituita da due accordi (Adagio) che qualche interprete e revisore bachiano ha voluto intendere come le estremità di una pagina lasciata alla discrezione degli esecutori e scelta all'interno di un repertorio "consolidato".

Questo, che è forse il più "travolgente" dei Brandeburghesi, offre spunti di straordinaria versatilità ritmica e contrappuntistica. Il discorso, che a tratti risulta spezzato nel corso del primo movimento, per effetto d'un riflesso fra tutti e soli, ma sempre intendendo ciascuno dei tre gruppi strumentali a ranghi riuniti, è invece estremamente compatto nell'ultimo tempo che riduce le dimensioni dell'apparato strumentale, mantenendo le tre parti di violino e le tre parti di viola, ma riunendo in una sola i tre violoncelli, insieme con i due strumenti del continuo (violone e cembalo); il processo musicale è ininterrotto, inarrestabile quasi, mosso come è da un'inesauribile carica energetica.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Una tradizione forse non infondata vuole che i sei Concerti offerti nel 1724 da Bach a Christian Ludwig, Margravio del Brandeburgo, siano stati archiviati dai bibliotecari di corte senza essere stati eseguiti neppure una volta. Fin troppo facilmente oggi riconosciamo in questo gesto non tanto la miopia del committente, che aveva fama di grande intenditore, quanto piuttosto il riflesso dei rapporti di potere che allora collocavano il musicista nel rango di un servitore, riservando ai suoi prodotti un'accoglienza alterna e spesso distratta. Per un altro aspetto, tuttavia, lo zelo dei bibliotecari di Köthen corrisponde in modo efficace all'essenza di quei concerti, è un simbolo del loro senso storico, anche se irride la loro qualità musicale. Queste pagine di Bach, infatti, sembrano riassumere un'epoca proprio nel momento in cui la archiviano, minacciando con la loro esuberanza i limiti delle forme musicali esistenti.

Ciò non vuol dire che i Concerti Brandeburghesi siano qualcosa come la "vetta", la "conclusione" o anche solo un "repertorio" della musica strumentale barocca: essi tendono piuttosto a ricondurre gli elementi di quella musica nell'unità di una configurazione ideale, in un sistema aperto, sono il supporto materiale di una memoria che non divide in modo meccanico l'antico dal moderno, ma agisce in modo più complesso, secondo un insieme di tecniche intimamente legate all'esperienza del sacro che attraversa tutta l'opera di Bach. Mentre sembra registrare nel dettaglio l'orizzonte musicale in cui vive, egli mette in crisi la visione lineare del movimento storico, confonde volutamente i tempi, mescola le cronologie, pone gli uni accanto agli altri elementi di epoche e provenienze differenti. Il risultato è appunto quello di un "archivio" che consegna al presente la possibilità di riattivare continuamente il proprio rapporto con l'origine, di riconoscersi in una discendenza che ripete in forme sempre diverse il destino esemplificato dalla vicenda del Cristo: a questa connessione si riportano infatti la coscienza della finitezza, il senso della mortalità e il bisogno di redenzione che sono posti da Bach alla radice stessa della sua nozione di bellezza. Persino una certa esteriorità di queste pagine, concepite come musica da intrattenimento, appare funzionale a un richiamo etico che invita a considerare in modo diverso il rapporto con il passato.

Il richiamo di Bach, tuttavia, rimase di fatto inascoltato, e senza seguito rimasero anche le invenzioni e le numerose innovazioni stilistiche da lui adottate nei Brandeburghesi. La circolazione di questi lavori fu infatti tardiva e quando furono riscoperti, così come quando nel corso dell'Ottocento il biografo Friedrich Spitta diede loro per la prima volta il titolo con il quale oggi sono conosciuti, essi non potevano più esercitare una reale influenza sulla pratica musicale dei nuovi compositori. L'archiviazione dei bibliotecari di Köthen ha in tal senso un valore opposto a quello che abbiamo attribuito alla musica di Bach: equivale a una rimozione che insieme alle partiture dei Brandeburghesi occulta un modello di interpretazione storica.

L'originalità della proposta di Bach non è tuttavia sfuggita ai critici e agli interpreti, specialmente a quelli che in epoca recente hanno cercato di evidenziare il carattere unitario e sistematico dei Brandeburghesi. Nikolaus Harnoncourt ha descritto ad esempio il paradosso in base al quale proprio la diversità delle forme e la singolarità delle soluzioni musicali sarebbero alla radice del senso di unità che promana da queste pagine. «Ogni concerto è scritto per una destinazione strumentale differente», nota Harnoncourt, «e la diversità delle forme è estrema almeno quanto quelle che riguardano la strumentazione e lo stile». Nei Concerti Brandeburghesi troviamo in effetti gli uni accanto agli altri i modi tipici dello stile francese, quelli cantabili del concerto italiano, la condotta severa del contrappunto, l'impasto moderno della sinfonia e la sequenza arcaica della suite, la tecnica delle cantate sacre e quella delle sonate da camera. Persino l'unità di riferimento più immediata, la forma del concerto grosso, diventa nelle mani di Bach un involucro capace di rinnovarsi continuamente e di accogliere una quantità innumerevole di inserzioni spurie. Harnoncourt definisce tutto questo come un «catalogo» della musica barocca e, al tempo stesso, di tutto ciò di cui Bach era capace come musicista. Questo spirito di compilazione, cui non sono estranei neppure gli interessi pedagogici sempre coltivati da Bach, indica in modo molto chiaro quale fosse per lui la funzione realmente rilevante della Hofmusik, della musica di corte. Quando non è improntata al raccoglimento del genere sacro, quando non nasce dalla meditazione privata o non deriva direttamente da esigenze speculative, la musica diventa per Bach un'occasione per descrivere la propria collocazione storica e per risvegliare, nel presente, il senso della pietas nei confronti delle tracce del passato, senza lasciarsi travolgere dall'ansia del superamento, quasi che nei Concerti Brandeburghesi egli abbia voluto riprodurre il gesto istitutore e conservatore, rivoluzionario e tradizionale che è proprio, in fondo, di ogni concetto dell'archivio.

La concezione dei Brandeburghesi è dovuta anche alla stratificazione del loro lavoro di scrittura. Bach non li compose espressamente per la raccolta da offrire a Christian Ludwig, ma li elaborò probabilmente in tempi anche lontani, nel corso del quindicennio che copre il periodo del suo impiego alla corte di Weimar e il suo trasferimento a Köthen. Le differenti versioni autografe che ci sono pervenute e l'importanza delle modifiche di volta in volta apportate dall'autore mostrano come lo stato definitivo dei Concerti Brandeburghesi sia il risultato di un lavoro di montaggio rigoroso e inventivo, ma per lo più non preordinato. Così l'intervento delle parti solistiche viene ampliato o ridotto in rapporto all'aggiunta di una parte nuova, mentre un movimento già utilizzato in altri contesti, per esempio in una cantata, viene ora collegato all'organismo del concerto attraverso l'inserzione di un raccordo che ne riorganizza la sostanza musicale. La varietà non è dunque un principio programmatico della composizione di questi concerti, ma è un effetto naturale del lavoro pratico, è il riflesso di un atteggiamento intellettuale che si confonde con l'esercizio stesso del magistero musicale bachiano.

* * *

Come se fosse diviso in due triadi, il ciclo dei Concerti Brandeburghesi prevede al terzo e al sesto posto due lavori per molti aspetti analoghi, scritti per un insieme di soli archi e concepiti in uno stile polifonico che si distacca decisamente dalle maniere concertanti. Dall'ascolto del Terzo Concerto si ricava l'idea di una formazione unitaria molto forte, compatta, di una massa sonora continuamente in movimento articolata in due movimenti curiosamente legati da una breve cadenza di transizione che ha destato lo stupore degli storici e l'imbarazzo degli interpreti. Oggi l'uso di inserire accanto a questa cadenza il movimento lento di altre composizioni bachiane è decaduto e la nudità, la semplice funzione di passaggio di un momento di tono improvvisativo sembra solo un breve respiro prima del serrato contrappunto finale.

Stefano Catucci

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Il periodo che Bach trascorse a Köthen (1717-1723) fu il più felice di tutta la sua vita artistica. A trentadue anni Bach aveva già raggiunto l'ambita posizione di «Kapellmeister» di corte con un eccellente trattamento economico. In più godeva della stima e dell'amicizia del giovane principe Leopoldo, appassionato di musica e buon dilettante come compositore e come suonatore di violino, di viola da gamba e di clavicembalo. Il principe portò l'organico della sua orchestra a 18 membri e riuscì persino a convincere cinque ottimi strumentisti di lasciare Berlino per trasferirsi a Köthen. L'atmosfera calda e cordiale che circondava il musicista, e la possibilità di disporre di quell'orchestra di prim'ordine determinarono la nascita di alcuni capolavori della musica strumentale barocca. La produzione di musica prevalentemente profana che caratterizza questo periodo si spiega col fatto che la Corte di Köthen aderiva alla Chiesa Riformata la cui liturgia poco spazio riservava alla musica. Tra le opere che videro la luce a Köthen spiccano i «Sei Concerti Brandeburghesi» di cui Bach nel 1721 fece omaggio al Margravio di Brandeburgo Cristiano Lodovico.

Dal testo della dedica in francese apprendiamo che il Margravio aveva ascoltato Bach un paio di anni prima (l'incontro avvenne a Berlino nel 1718) e gli aveva chiesto alcuni pezzi di sua composizione. Bach si riferisce a questo incontro per inviare a Cristiano Lodovico sei concerti «que j'ai accommodés à plusieurs instruments». Sappiamo oggi, contrariamente a quello che si credeva, che Bach non scrisse appositamente per il Margravio i sei concerti, ma li scelse da una raccolta preesistente e probabilmente più ampia. Infatti, come risulta dalle ricerche del grande musicologo Heinrich Bessler, la cronologia della loro composizione non corrisponde all'ordine della successione. L'ultimo concerto è in realtà composto per primo, quindi seguono i concerti n. 3, n. 1, n. 2 e n. 4. L'ultimo composto è il quinto.

Sulla fortuna dei «Sei Concerti Brandeburghesi» ai tempi di Bach non abbiamo molte notizie. Comunque un fatto è certo: mentre la pubblicazione a mezzo di stampa favorì ampiamente la diffusione dei concerti grossi ad esempio di Corelli e di Vivaldi, che tanta influenza ebbero sui compositori contemporanei, questo non avvenne per i concerti Brandeburghesi stampati solo nel 1850 in occasione delle celebrazioni del primo centenario della morte di Bach.

Come sempre accade per i vari generi musicali trattati dal grande compositore di Eisenach, anche per la forma del concerto grosso la concezione bachiana è duplice. Ne conserva la struttura formale derivata dai modelli vivaldiani ma nello stesso tempo la arricchisce contrappuntisticamente e strumentalmente. La personalità accentratrice e assimilatrice di Bach fa sì che nel suo concerto grosso sopravvivono e si fondono in un tutto unico svariati elementi che provengono dalla suite, dalla sonata a tre e dal concerto con strumento solista. Aspetti innovatori dei Concerti Brandeburghesi si riscontrano nella quasi totale autonomia delle parti e nell'impiego nelle sezioni solistiche di uno o più strumenti a fiato. Ne derivano una varietà di prospettive polifoniche fino ad allora sconosciuta e un colore strumentale particolare che distingue fortemente un concerto dall'altro.

Già nel titolo scelto da Bach — «Six concerts avec plusieurs instruments» — si avverte questa nuova tendenza che contrasta con le usanze del tempo, secondo le quali le raccolte di concerti pubblicate dagli altri compositori prevedevano sempre lo stesso organico. Non era inoltre forse estraneo a Bach il desiderio di dimostrare al Margravio la sua valentia nel trattare gli strumenti al fine di stringere rapporti più stretti con la corte di Berlino. Il «terzo concerto» è quello che più si uniforma allo schema tradizionale. Scritto per soli archi si articola in due movimenti collegati da una semplice cadenza frigia composta da due lunghi accordi che sostituiscono l'Adagio. Non è azzardato pensare che in questo punto lo strumento del basso, il clavicembalo, si esibisse in una virtuosistica cadenza. Le parti del concertino sono distribuite fra i violini, le viole e i violoncelli che con la loro diversità di registro conferiscono al brano una varietà timbrica di grande rilievo. Il ritmo è scandito con quell'impetuosa e geometrica veemenza che contraddistingue i movimenti rapidi dell'età barocca.

Antonio Mazzoni


(2)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 13 novembre 1996
(3)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Testro Olimpico, 12 ottobre 1995
(4)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Testro Comunale, 10 maggio 1974


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Ultimo aggiornamento 27 novembre 2019