Concerto brandeburghese n. 6 in si bemolle maggiore, BWV 1051

Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. ...
  2. Adagio ma non tanto (mi bemolle maggiore)
  3. Allegro

Organico: 2 viole da braccio, 2 viole da gamba, violoncello, violone, clavicembalo
Composizione: 1718
Edizione: Peters, Lispia, 1850
Dedica: margravio Christian Ludwig von Brandenburg

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Appare difficile immaginare per un ascoltatore di oggi che il testo più rappresentativo e compiuto della barocca "arte del concerto" - i sei Concerti brandeburghesi di J. S. Bach - siano stati per oltre un secolo completamente ignorati dal mondo musicale. Privati del privilegio della stampa (la prima edizione è del 1850, in piena Bach-Renaissance) i Concerti furono certamente eseguiti nella piccola corte del principe Leopold von Anhalt-Köthen presso cui Bach prestò servizio in qualità di maestro dei concerti e della musica da camera fra il 1717 e il 1723 ma non in quella berlinese del margravio Christian Ludwig di Brandeburgo, dedicatario e mecenate dell'opera. Così una pressoché nulla influenza sui contemporanei di Bach e sugli immediati successori è in stridente contrasto con la trionfale accoglienza tributata dai musicisti e musicofili del Novecento.

Capolavoro sommamente speculativo e riassuntivo delle diverse forme del concerto policorale, del concerto grosso e del concerto solistico, i Concerti brandeburghesi non perdono di vista, e anzi esaltano, l'aspetto ludico e ricreativo della musica, con il loro tripudio di timbri e di invenzioni melodiche e ritmiche.

L'ambiente di Köthen era favorevole alla pratica della musica strumentale. Il principe, di stretta osservanza calvinista e quindi poco incline alla musica sacra, «non solo amava ma conosceva anche la musica», secondo quanto scrisse Bach all'amico Erdmann nel 1730. L'orchestra di corte, formata da una quindicina di ottimi strumentisti, si prestava ottimamente alle esigenze del Konzertmeister ed era motivo di vanto per il principe.

Ultimo della serie, ma primo in ordine di composizione (1718), il sesto Concerto è, come il terzo, un Concerto per soli archi. La novità è che, mancando i violini, gli strumenti di suono medio e grave (due viole da braccio, due viole da gamba, violoncello, violone e cembalo) creano una sonorità inconfondibilmente scura e brunita. Lo spazio dato alla funzione solistica e concertante delle viole - strumenti di ripieno nella prima metà del Settecento - è anche un elemento nuovo e importante.

Formalmente il Concerto è, fra i sei, quello più vicino alla struttura del concerto grosso, con il concertino - vale a dire il gruppo di solisti che si contrappone al Tutti - formato generalmente dalle due viole e dal violoncello. La fantasia di Bach non si accontenta comunque di definire un gruppo stabile di solisti ma di volta in volta lo allarga o lo restringe con grande libertà.

In tutto simile al contesto sonoro della Sonata a tre è l'Adagio ma non troppo centrale, in cui il tema austero ed espressivo viene sottoposto ad una fitta rete di imitazioni fra le due viole soliste.

A concludere il Concerto Bach pone un Allegro sul ritmo rilassato e gioioso di 12/8 la cui ripetizione nei ritornelli del Tutti è spezzata e variata da una serie di episodi virtuosistici e imitativi.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Una tradizione forse non infondata vuole che i sei Concerti offerti nel 1724 da Bach a Christian Ludwig, Margravio del Brandeburgo, siano stati archiviati dai bibliotecari di corte senza essere stati eseguiti neppure una volta. Fin troppo facilmente oggi riconosciamo in questo gesto non tanto la miopia del committente, che aveva fama di grande intenditore, quanto piuttosto il riflesso dei rapporti di potere che allora collocavano il musicista nel rango di un servitore, riservando ai suoi prodotti un'accoglienza alterna e spesso distratta. Per un altro aspetto, tuttavia, lo zelo dei bibliotecari di Köthen corrisponde in modo efficace all'essenza di quei concerti, è un simbolo del loro senso storico, anche se irride la loro qualità musicale. Queste pagine di Bach, infatti, sembrano riassumere un'epoca proprio nel momento in cui la archiviano, minacciando con la loro esuberanza i limiti delle forme musicali esistenti.

Ciò non vuol dire che i Concerti Brandeburghesi siano qualcosa come la "vetta", la "conclusione" o anche solo un "repertorio" della musica strumentale barocca: essi tendono piuttosto a ricondurre gli elementi di quella musica nell'unità di una configurazione ideale, in un sistema aperto, sono il supporto materiale di una memoria che non divide in modo meccanico l'antico dal moderno, ma agisce in modo più complesso, secondo un insieme di tecniche intimamente legate all'esperienza del sacro che attraversa tutta l'opera di Bach. Mentre sembra registrare nel dettaglio l'orizzonte musicale in cui vive, egli mette in crisi la visione lineare del movimento storico, confonde volutamente i tempi, mescola le cronologie, pone gli uni accanto agli altri elementi di epoche e provenienze differenti. Il risultato è appunto quello di un "archivio" che consegna al presente la possibilità di riattivare continuamente il proprio rapporto con l'origine, di riconoscersi in una discendenza che ripete in forme sempre diverse il destino esemplificato dalla vicenda del Cristo: a questa connessione si riportano infatti la coscienza della finitezza, il senso della mortalità e il bisogno di redenzione che sono posti da Bach alla radice stessa della sua nozione di bellezza. Persino una certa esteriorità di queste pagine, concepite come musica da intrattenimento, appare funzionale a un richiamo etico che invita a considerare in modo diverso il rapporto con il passato.

Il richiamo di Bach, tuttavia, rimase di fatto inascoltato, e senza seguito rimasero anche le invenzioni e le numerose innovazioni stilistiche da lui adottate nei Brandeburghesi. La circolazione di questi lavori fu infatti tardiva e quando furono riscoperti, così come quando nel corso dell'Ottocento il biografo Friedrich Spitta diede loro per la prima volta il titolo con il quale oggi sono conosciuti, essi non potevano più esercitare una reale influenza sulla pratica musicale dei nuovi compositori. L'archiviazione dei bibliotecari di Köthen ha in tal senso un valore opposto a quello che abbiamo attribuito alla musica di Bach: equivale a una rimozione che insieme alle partiture dei Brandeburghesi occulta un modello di interpretazione storica.

L'originalità della proposta di Bach non è tuttavia sfuggita ai critici e agli interpreti, specialmente a quelli che in epoca recente hanno cercato di evidenziare il carattere unitario e sistematico dei Brandeburghesi. Nikolaus Harnoncourt ha descritto ad esempio il paradosso in base al quale proprio la diversità delle forme e la singolarità delle soluzioni musicali sarebbero alla radice del senso di unità che promana da queste pagine. «Ogni concerto è scritto per una destinazione strumentale differente», nota Harnoncourt, «e la diversità delle forme è estrema almeno quanto quelle che riguardano la strumentazione e lo stile». Nei Concerti Brandeburghesi troviamo in effetti gli uni accanto agli altri i modi tipici dello stile francese, quelli cantabili del concerto italiano, la condotta severa del contrappunto, l'impasto moderno della sinfonia e la sequenza arcaica della suite, la tecnica delle cantate sacre e quella delle sonate da camera. Persino l'unità di riferimento più immediata, la forma del concerto grosso, diventa nelle mani di Bach un involucro capace di rinnovarsi continuamente e di accogliere una quantità innumerevole di inserzioni spurie. Harnoncourt definisce tutto questo come un «catalogo» della musica barocca e, al tempo stesso, di tutto ciò di cui Bach era capace come musicista. Questo spirito di compilazione, cui non sono estranei neppure gli interessi pedagogici sempre coltivati da Bach, indica in modo molto chiaro quale fosse per lui la funzione realmente rilevante della Hofmusik, della musica di corte. Quando non è improntata al raccoglimento del genere sacro, quando non nasce dalla meditazione privata o non deriva direttamente da esigenze speculative, la musica diventa per Bach un'occasione per descrivere la propria collocazione storica e per risvegliare, nel presente, il senso della pietas nei confronti delle tracce del passato, senza lasciarsi travolgere dall'ansia del superamento, quasi che nei Concerti Brandeburghesi egli abbia voluto riprodurre il gesto istitutore e conservatore, rivoluzionario e tradizionale che è proprio, in fondo, di ogni concetto dell'archivio.

La concezione dei Brandeburghesi è dovuta anche alla stratificazione del loro lavoro di scrittura. Bach non li compose espressamente per la raccolta da offrire a Christian Ludwig, ma li elaborò probabilmente in tempi anche lontani, nel corso del quindicennio che copre il periodo del suo impiego alla corte di Weimar e il suo trasferimento a Köthen. Le differenti versioni autografe che ci sono pervenute e l'importanza delle modifiche di volta in volta apportate dall'autore mostrano come lo stato definitivo dei Concerti Brandeburghesi sia il risultato di un lavoro di montaggio rigoroso e inventivo, ma per lo più non preordinato. Così l'intervento delle parti solistiche viene ampliato o ridotto in rapporto all'aggiunta di una parte nuova, mentre un movimento già utilizzato in altri contesti, per esempio in una cantata, viene ora collegato all'organismo del concerto attraverso l'inserzione di un raccordo che ne riorganizza la sostanza musicale. La varietà non è dunque un principio programmatico della composizione di questi concerti, ma è un effetto naturale del lavoro pratico, è il riflesso di un atteggiamento intellettuale che si confonde con l'esercizio stesso del magistero musicale bachiano.

* * *

Se molti elementi fanno ritenere che il Quinto sia cronologicamente l'ultimo concerto scritto da Bach fra quelli inclusi nella raccolta, indizi non minori indicano nel Sesto la pagina più antica, senza dubbio risalente al periodo di Weimar. Si ritorna qui allo stile di insieme, nel quale la scrittura di ogni strumento ha carattere solistico ma non c'è più un gruppo o un singolo strumento che emerga in rapporto agli altri. Come nel Terzo Concerto, anche qui non sono previsti strumenti a fiato. Bach però limita ulteriormente lo spettro timbrico di questo lavoro dando peso soprattutto agli strumenti del registro medio, le viole, e creando così sonorità che per certi versi ricordano il consort inglese, l'insieme di viole tipico della musica elisabettiana. Sono infatti le viole a esporre la maggior parte del materiale melodico, mentre gli altri strumenti producono un sostegno polifonico incessante, contrappuntisticamente assai elaborato e di intensità via via crescente. Solo nel secondo movimento il dinamismo della composizione si rilassa e prende la forma di sonata a tre, nella quale le viole si alternano allo strumento grave, protagonista anche del finale.

Stefano Catucci


(1)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 6 novembre 1998
(2)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 12 ottobre 1995


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Ultimo aggiornamento 19 ottobre 2014