La «Cantata di caccia» (1713) ci riporta al tempo in cui Bach, al servizio del duca Ernst August di Sassonia-Weimar, era tenuto a comporre brani di circostanza per le ricorrenze festive della famiglia regnante: appunto in occasione di un duplice compleanno, quello del duca e del cugino Christian di Sassonia-Weissenfels, doveva nascere la Cantata, denominata «di caccia» (benché di fatti venatori propriamente non vi si tratti) dalla caratterizzazione rettorica del suo primo «numero» appunto un'Aria «di caccia» intonata da Diana sul tipico controcanto dei corni a squillo. Diversamente da La gara tra Febo e Pan, in questa Cantata non sono identificabili le linee di un vero intreccio drammatico, benché le varie voci solistiche portino i nomi di figure mitologiche e siano contraddistinte da una precisa tipologia affettistica. Una specie di convegno bucolico, cui partecipano Diana, Endimione, Pan e Pales, offre il pretesto per intessere le lodi e porgere i debiti omaggi agli illustri festeggiati, nelle forme e nello spirito del più tradizionalistico tra i generi di omaggio musicale cortigiano praticati nel primo Settecento, quello della Serenata allegorica (istituzionalizzata da egregi modelli scarlattiani) e della Licenza, quest'ultima collocata per lo più, come riverenza di congedo, in fine ad un più vasto trattenimento mondano-musicale, teatrale o accademico.
La Cantata ha inizio, come si è detto sopra, con un breve recitativo seguito da un'Aria «di caccia»: nei suoi entusiasmi venatori, Diana sembra avere obliato il povero Endimione, il quale, sopravvenuto, se ne lagna in una stupenda Aria patetica, con oboi e fagotto concertanti. Diana rassicura il pastorello di Creta del proprio amore; non desiderio di evasione, ma ardente zelo nell'onorare il principe regnante nel suo giorno genetliaco, l'ha guidata in quelle amene contrade della Sassonia, dove fra poco converranno in rendez-vous altri illustri immortali. Lieto d'essere parte di cotanta comitiva, Endimione intreccia con Artemide un brillantissimo duetto di bravura, accompagnato dal solo basso continuo. Ma arrivano Pan, che identifica se stesso col principe, benefica deità apportatrice di pace e benessere, in un'Aria tra marziale e rustica; e Pales, che effonde il suo messaggio di idillica serenità in una gemma melodica destinata più tardi a passare pari pari, con i suoi, pastorali richiami di flauti e oboi da caccia (corni inglesi) nell'Oratorio di Natale. Un coro, un duetto di Diana ed Endimione e una nuova aria di Pales, non meno fascinosa della prima, ma di tipo più brillante, intensificano la temperie festiva dell'inventività bachiana, che tocca il climax nella successiva Siciliana di Pan e nel radioso coro finale. La svaporata, pretestuosa Arcadia cortigianesca del testo non traggano in inganno: la natura introspettiva e la profonda serietà morale del genio bachiano, nel contesto di una qualità inventiva quasi sempre altissima, tracciano anche qui un itinerario ideale che conduce ben lontano dalla sala del trono della corte di Weimar, dominata dalle enormi parrucche di gala della nobile assemblea, in un mondo di là del mondo, dove il lamento di Endimione e l'inno di pace di Pales risuonano in accenti di verità quasi religiosa, e dove la gioia si fa preghiera cosmica.
Giovanni Carli Ballola