Fra i molti lavori pergolesiani diffusisi velocemente in tutta Europa ci fu naturalmente anche lo Stabat Mater, grazie ad esecuzioni frequentissime e ad una selva di copie manoscritte, edizioni a stampa, parodie e revisioni, fiorite soprattutto in Inghilterra e Germania. Già nel 1739 Charles de Brosses, presidente del Parlamento di Borgogna e appassionato di musica, vi elogiava il miracolo del connubio tra "spontaneità", "grazia", "gusto" e "la più profonda scienza dell'armonia". Fu una delle poche pagine del Settecento che rimase sempre in repertorio e con la quale tutti i compositori successivi furono obbligati a confrontarsi.
E il fatto che a meno di dieci anni dalla sua creazione una copia della partitura già si trovasse nella biblioteca musicale di Bach attesta ad un tempo il successo del brano, la permeabilità degli ambienti musicali europei e l'estrema rapidità e attenzione con cui il maestro di Lipsia seguiva la produzione italiana. Il suo interesse fu così forte che tra il 1745 e il 1747 decise di utilizzarne la musica adattandola a un testo, Tilge, Höchster, meine Sünden, che si fece scrivere appositamente (e con la partitura di Pergolesi in mano) da un ignoto collaboratore: un'abile parafrasi della traduzione tedesca di Lutero del Salmo 51 (ossia il Miserere) dove l'abilità non sta nella mediocre riuscita poetica ma bensì nell'accurata adesione alla vocalità originale che, in certi passaggi, arriva fino ad utilizzare nel tedesco le stesse vocali presenti nel latino.
Nel Barocco l'utilizzo della parodia, lungi dalle odierne inflessioni semantiche, era prassi consueta e indicava solo il riutilizzo di musiche precedentemente composte (anche di altri autori) e riadattate a nuovi testi. Non solo non v'era nulla di scandaloso ma addirittura era un procedimento assai diffuso che portava onore al copiante e al copiato (Bach attingeva generosamente dal proprio catalogo, adattando note sacre a un testo profano e viceversa e lo stesso fecero ad esempio Mozart e Beethoven).
Il lavoro bachiano - che riscrive dieci dei dodici numeri del brano - risulta nell'insieme molto fedele all'originale anche se concettualmente più teutonico e geometrico rispetto a quello stile napoletano tanto influenzato dal fiorire del melodramma. L'intervento più significativo è senz'altro quello sulla densità della scrittura strumentale. Rispetto alla partitura pergolesiana, che tra voci e strumenti vede agire di norma solo tre parti reali (i violini divisi raddoppiano le voci e la viola raddoppia il basso all'ottava), Bach riscrive la parte della viola come una parte reale indipendente ampliando l'organico a 4 violini (2 soli e 2 di ripieno), viola, violoncello, violone e continuo.
Ossia, mentre Pergolesi sostanzialmente aveva scelto di assegnare l'armonia al solo continuo utilizzando gli strumenti come sostegno per le voci, il compositore tedesco ne affida la realizzazione anche alle parti strumentali, ottenendo un effetto di addensamento che l'italiano, proteso verso una nuova ricerca di limpidezza e trasparenza sonora, aveva deliberatamente rifiutato.
È interessante osservare tuttavia come Bach decida di conservare pressoché inalterati gli unici due movimenti dell'originale pergolesiano composti nello "stile antico": il Fac, ut portem e l'Amen conclusivo (a parte la scelta della tonalità maggiore).
Il risultato singolarissimo di questa operazione, combattuta fra l'attrazione della nuova musica italiana d'inizio secolo e il rispetto della grande tradizione contrappuntistica tedesca, se da una parte tenta di riportare il testo di Pergolesi entro l'alveo barocco a cui si era sottratto, dall'altra evidenzia ancora una volta le ingegnose meraviglie dell'estro bachiano.
Laura Pietrantoni