Concerto per pianoforte n. 2, BB 101, SZ 95


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Allegro
  2. Adagio, Presto, Adagio
  3. Allegro molto
Organico: pianoforte solista, 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti (2 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo, triangolo, piatti, grancassa, archi
Composizione: ottobre 1930 - settembre, Ottobre 1931
Prima esecuzione: Francoforte, 23 gennaio 1933
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1932

Guida all'ascolto (nota 1)

Bela Bartók è stato uno dei più grandi compositori-pianisti del nostro secolo, con Prokof'ev e Rachmaninov, anzi, a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti e tre, egli era il più sicuro, il più schietto, il più essenziale, il più grande, insomma. Nelle sue esecuzioni, anche in quelle dei classici del pianismo (e dei poemi di Richard Strauss trascritti per pianoforte!) l'energia e la potenza espressiva erano impressionanti senza essere affatto virtuosistiche. Si comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi un'indole speciale, si direbbe biografica, nel senso che ci è lecito immaginare un'immediata ed esplicita rispondenza di attitudini e caratteri tra la creazione oggettiva e il creatore, quasi che egli non l'avesse sentita in sé e scritta solo con il suo genio creativo ma anche per il proprio talento interpretativo. Infatti egli era un interprete eccelso della sua musica. Si sa, lo stesso vale per Liszt (Chopin è isolato e unico), per Prokof'ev, per Rachmaninov, ma nel caso di Bartók la concentrazione dei mezzi e l'asciutto rapporto tra contenuti emotivi ed espressione ci suggeriscono, nella sua musica per pianoforte, una specie di identità tra l'artista e il suono, tra l'invenzione e l'esecuzione, o addirittura tra l'improvvisazione del grande pianista e l'elaborazione del musicista (elaborazione che era accuratissima). Anche se poi questa musica non è quasi mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, non ha nulla di consueto nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per pianisti (Bartók, avendo quelle capacità tecniche che aveva, non componeva al pianoforte), proprio per questo il rapporto tra immaginazione e carattere dell'artista e la pagina creata ci appare intrinseco e necessario.

Così è per il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra (nel catalogo Szòllòsy è il n. 95). Bartók lo compose dall'ottobre del 1930 al novembre del 1931, dunque quattro anni dopo il Primo Concerto, nel quale si avverte già la disposizione a un'invenzione, e quindi a uno stile, di natura meno concentrata e meno aspra rispetto alle opere maggiori degli anni precedenti. Tuttavia quella che è stata chiamata la svolta stilistica di Bartók non era ancora definitiva, perché tra il Primo e il Secondo Concerto per pianoforte egli scrisse il Terzo e il Quarto Quartetto, i suoi lavori di più ostico ascetismo, nei quali la posizione stilistica è prossima a quella dell'avanguardia radicale. Ma è anche vero che alla fine degli anni Venti l'approfondimento dei suoi temi esistenziali e artistici primari (un misticismo delle forze naturali primordiali e notturne, l'idealizzazione di un'arcaica innocenza, e per essa una dolorosa, drammatica immagine dell'uomo civilizzato, la convinzione, infine, che la musica sia un ordine simbolico complesso, imposto sul frastuono della disumanità, e che quindi essa debba essere il legame di uno verso i molti) produsse in Bartók idee e invenzioni linguistiche irriducibili alle tendenze principali del moderno, eversive (la dodecafonia) o restauratoci (il neoclassicismo e la nuova oggettività) che fossero.

Il Secondo Concerto segna, appunto, un momento di transizione nelle idee e nella tecnica compositiva di Bartók, e anche nella relazione con il Primo e con il Terzo tiene dei caratteri dell'uno e dell'altro, cioè di un certo impulso selvaggio del precedente e, nel tempo mediano, della sobrietà e del lirismo del seguente: senza per questo indebolirsi mai in un impersonale eclettismo, anzi presentandosi fin dalla prima battuta con i caratteri inconfondibili del suo genio. E questo è tanto vero che esso è stato a lungo una delle sue composizioni più popolari e più spesso eseguite e oggi, dopo qualche anno di oblio, torna nel favore del pubblico.

«Nel mio Secondo Concerto ho deciso di fornire un lavoro diverso dal primo: meno difficile per l'orchestra e con un materiale tematico più attraente. La natura abbastanza popolare e facile della maggior parte dei suoi motivi si spiega con questa mia intenzione» (B. Bartók, Analisi del Secondo Concerto, ora in Essays, a cura di B. Suchoff, London, Faber and Faber, 1976, p. 419). Non tutto nel commento del suo autore pare corrisponda alla sostanza di questa musica (non tutto infatti vi è propriamente attraente o facile), tuttavia l'idea generale è quella di un vero Concerto, concepito per il piacere, e non poche soddisfacenti fatiche, di tutti gli esecutori e per l'attenzione e la sorpresa degli ascoltatori. Ma gli effetti, gli estri, il virtuosismo e la fluidità degli episodi celano, né sempre possono celare, una solida logica costruttiva, un fermo proposito architettonico, attuato, e perfettamente, non per puro gusto formalistico ma come simbolismo esistenziale, quello della circolarità delle energie della vita e di una pagana concezione degli eventi umani destinati a tornare su se stessi. Lo schema compositivo concentrico è ricorrente nella musica di Bartók, ma nel Secondo Concerto un tale ordine si è fatto contenuto del pensiero musicale comparendo subito già nella disposizione esteriore dei tempi: due Allegri che includono un tempo lento, il quale ha in sé un breve nucleo di moto rapido. Questo episodio, che sembra essere, ma non è, parentetico ed effettìstico nell'Adagio, è dunque il perno attorno al quale ruota tutta la composizione, è un centro vigoroso e pulsante in cui le forze delle idee precedenti si raccolgono per ripresentarsi tutte, dall'ultima alla prima, in forma uguale e variata. La relazione drammatica delle cinque parti fra loro è quella, fondamentale nel mondo poetico di Bartók, tra vitalità positiva e cupezza, tra mondo diurno e mondo notturno, tra immagini chiare e dinamiche e statiche fantasie visionarie.

In generale l'organizzazione sinfonica del Secondo Concerto sta tra il concerto grosso barocco, con l'attività individuale dei gruppi strumentali, e il concerto romantico, con aspetti di protagonismo dello strumento solista: e anche per questo aspetto il passaggio da un tipo sinfonico all'altro è attuato da Bartók con sapienza e accortezza, che evitano qualunque impressione di eclettismo. Le capacità solistiche dei gruppi strumentali in orchestra sono messe in risalto anche con l'indipendenza di molti dei loro temi musicali da quelli del pianoforte. Uno dei caratteri strumentali notevoli del Secondo Concerto sta nella differenza di organico nei tre movimenti, differenza che istituisce un'architettura generale in crescendo la quale si sovrappone alla sostanza circolare dell'invenzione tematica. Infatti, nel primo movimento il pianoforte dialoga con le famiglie dei fiati, mentre gli archi tacciono; nel secondo intervengono entrambi i settori degli archi e dei fiati ma in episodi distinti; nel terzo movimento, infine, è in gioco l'intera compagine orchestrale con effetti di compiuta pienezza sonora.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Soprattutto nei primi anni della sua carriera internazionale Bartók praticò il pianoforte sia come virtuoso sia come insegnante, avvalendosene spesso anche nella sua opera creativa in funzione solistica. Il binomio compositore-pianista, dopo il sensazionale esordio con il Primo Concerto per pianoforte e orchestra, tenuto a battesimo a Francoforte sul Meno da Wilhelm Furtwängler nel 1927, si ripeté pochi anni dopo con un Secondo Concerto, composto tra il 1930 e il 1931 ed eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 sotto la bacchetta di Hans Rosbaud, sempre a Francoforte e sempre con l'autore al pianoforte.

Opera della piena maturità artistica, esso indica un notevole mutamento di rotta rispetto al radicalismo fortemente innovativo del lavoro precedente. Pur se vi permangono alcuni tratti specifici, individuabili nel serrato impulso ritmico che lo percorre da un capo all'altro, nella sicura e audace scrittura polifonica e orchestrale, nella sensibilità timbrica di un pianismo ricco e fantasioso, il gesto espressivo si fa più composto ed essenziale, traendo un ordine unitario dall'equilibrio e dalla spiccata personalità espressiva degli elementi tematici. Anche dal punto di vista formale il profilo si orienta su una maggiore chiarezza e simmetria; la struttura in tre tempi si riverbera qui in un'ulteriore tripartizione del tempo centrale, ma a termini invertiti: due sezioni in tempo "Adagio" incorniciano al centro un "Presto", con funzioni di scherzo. Nei due tempi esterni, in tempo "Allegro", la prospettiva tonale si stabilizza attorno all'asse di sol, mentre la scrittura si arricchisce di frequenti episodi contrappuntistici.

Nel primo movimento l'orchestra è rappresentata dai soli fiati, legni ed ottoni, unitamente alla percussione. L'inizio si presenta tanto agile e mosso quanto denso e complesso. Vengono enunciati dapprima, sovrapposti, due temi: uno ritmico di accordi, al pianoforte; l'altro di fanfara, quasi con carattere di motto, agli ottoni, presto coinvolto in capriccioso sviluppo tra le varie sezioni dei fiati. Dopo un serrato canone a cinque, condotto su un clamoroso sfondo pianistico di veloci semicrome, viene introdotto dal clarinetto un nuovo tema, inarcato su una linea fittamente ondulata, che presto svelerà un pretto carattere ungherese. Su questi elementi e su altri più o meno palesemente da essi dedotti si svolge la fitta e lucente trama di un procedere orchestrale pregnante e concettoso, al quale ora consente, ora si contrappone l'ostinata, altisonante ritmica pianistica. Alla fine, una cadenza del solista porta alla ripresa riassuntiva e semplificativa delle idee svolte, e quindi speditamente alla conclusione franca e calorosa.

Gli archi, che avevano taciuto durante tutto il primo movimento, sono i protagonisti dell' "Adagio", con calcolata preparazione del nuovo clima espressivo. Su un tessuto sonoro vaporoso e freddo, questi svolgono una lunga frase, come di corale; il pianoforte risponde sostenuto da qualche sommesso rullo di timpano: l'alternanza dialogica dei due elementi si diffonde nella atmosfera estatica e rarefatta di una evocazione spettrale, inquieta, che improvvisamente si sospende. Attacca l'episodio centrale, "Presto", dominato dal virtuosismo toccatistico del pianoforte: un lieve turbinio di note, commentato da isolate notazioni orchestrali, in un ambiente sonoro fantastico, irreale. Pochi arpeggi evanescenti congiungono questo episodio alla ripresa dell"`Adagio". Alla fine, dopo un tragico grido del pianoforte, quasi urlo nella notte, sulla persistenza ossessiva di un suono di timpano perduto nello sfondo dei bassi orchestrali gli archi riprendono un'ultima volta il loro tema iniziale. Una breve, dolcissima risposta del pianoforte, e il pezzo si chiude, trasfigurato.

Il terzo movimento, "Allegro molto", è avviato dal pianoforte: un arpeggio ascendente, cui segue, tra un fatidico martellare di timpani, il tema principale, aspro e barbarico. La sua vicenda, nell'alternanza con diversi e nuovi episodi, si fa veemente, incalzante, concitata. Il ritorno, in mutata veste ritmica, del tema di fanfara del primo tempo apre la via a una giubilante progressione. L'opera si conclude in un gioioso trasvolare di arpeggi, mentre l'orchestra mantiene la vigorosa scansione.

Sergio Sablich


(1)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 5 Aprile 1997
(2)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 19 giugno 1997


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Ultimo aggiornamento 1 settembre 2012