Concerto per viola e orchestra, BB 128, SZ 120


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Moderato
  2. Adagio religioso
  3. Allegro vivace
Organico: viola solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 3 corni, 3 trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo militare, grancassa, piatto piccolo e piatto grande, archi
Composizione: 1945
Prima esecuzione postuma: Minneapolis, 2 Dicembre 1949
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra 1950
Dedica: William Primrose

Rimasto incompiuto è stato completato e strumentato da Tibor Serly
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Poco prima della morte, avvenuta il 26 settembre 1945, Bartók così scriveva al violinista e violista scozzese William Primrose, al quale è dedicata la partitura oggi in programma: «Sono molto contento di dirvi che il "Concerto per viola" è pronto in abbozzo; non resta più che da scrivere la partitura, cioè un lavoro puramente meccanico, per così dire. Se tutto va bene, mi sbrigherò in cinque o sei settimane, ossia potrò mandarvi una copia della partitura d'orchestra nella seconda metà di ottobre, e poche settimane dopo una copia (o più copie, se volete) dello spartito per pianoforte. Molti interessanti problemi mi si sono presentati durante la composizione di questo lavoro. L'orchestrazione sarà piuttosto trasparente, più trasparente che nel "Concerto per violino". Anche il carattere cupo, più virile del vostro strumento ha esercitato una certa influenza sul carattere generale del lavoro. La nota più alta che uso è il "la", ma sfrutto piuttosto frequentemente i registri bassi. Il lavoro è concepito in stile virtuosistico...». Purtroppo la leucemia di lì a poco mise fine alla tormentata vita dell'artista che non potè portare a termine e strumentare questo concerto: il compito di orchestrarlo fu assolto dal pianista ungherese Tibor Serly, il più fedele e devoto allievo di Bartók. Lo stesso Serly si preoccupò, sulla scorta degli abbozzi del compositore, di completare le ultime 17 battute del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, con il quale questo Concerto per viola presenta molti punti di contatto sia spirituale che estetico, soprattutto per quel senso di sereno e rassegnato distacco dalla vita e di depurazione da tutto ciò che di drammatico, di convulso, di tumultuoso e di impetuosamente vitale aveva caratterizzato le opere del periodo precedente, in un lungo arco di tempo che va dall'Allegro barbaro del 1911 al Sesto Quartetto per archi del 1939. Infatti in ambedue i concerti l'arte di Bartók raggiunge un clima di pacata e pensosa contemplazione e acquista una sua chiarezza strutturale e tonale che la rende ricca di vibrazioni umane, pur nel contesto di un discorso più asciutto e stilizzato che alcuni studiosi paragonano a quello degli ultimi quartetti beethoveniani.

A proposito di queste due composizioni anche Massimo Mila riconosce che «si estingue l'elemento demoniaco che con tanta irruenza aveva rumoreggiato un tempo nella sua musica, e sempre più vengono in luce valori di libera religiosità, con una caratteristica frequenza d'armonizzazioni in stile di corale. In ognuno dei due "adagio religioso" che stanno al centro dei due concerti si trova un episodio agitato, che nella pace serena della stanchezza senile si colloca come una spettrale rievocazione dei fremiti, delle agitazioni e dei tumulti della vita intensa, pulsanti un tempo nei grandi quartetti e nella Musica per archi». Non c'è dubbio che l'Adagio religioso con il suo severo discorso diatonico è il momento più alto e più compiutamente espressivo di questo Concerto per viola e orchestra ed è rivelatore dell'aspetto più significativo e riassuntivo dell'anima di Bartók tutta protesa a difendere la sua individualità e integrità morale e artistica, pur partecipando, è vero, a tutte le tendenze e a tutti i tentativi della musica moderna, senza cedere però né al neoclassicismo tonale né all'espressionismo dodecafonico.

Ma anche gli altri due tempi si impongono all'attenzione dell'ascoltatore per la loro precisa fisionomia musicale. Il Moderato iniziale si presenta con una varietà di movimenti di svagato tono rapsodico, in cui si dissimula la concatenazione delle idee con quell'occasionale incepparsi della melodia in gorghi o mulinelli di note che girano, lenti o vorticosi, su se stessi; l'Allegro finale si richiama a quegli schemi di vivace e prorompente animazione folcloristica, che sono una delle sigle caratteristiche della fantasia inventiva bartókiana.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Insolubilmente problematico nella sua incompiutezza, e interamente orchestrato, sulla base degli abbozzi autografi, dall'allievo ed amico Tibor Serly, il Concerto per viola fu commissionato a Bartók dal violista scozzese William Primrose, che lo esegui per la prima volta a Minneapolis il 2 dicembre 1949, sotto la direzione di Antal Dorati. L'autore, morto il 26 settembre 1945, vi aveva lavorato a più riprese durante l'ultimo anno di vita, lasciandone però soltanto una stesura del tutto sommaria, quasi interamente priva di indicazioni per la strumentazione e gravata da numerosi problemi di leggibilità e interpretazione. La stessa divisione in tempi del lavoro appare dubbia: in una lettera a Primrose, Bartók parla infatti di quattro tempi con introduzione-refrain. Tre sono invece quelli dell'abbozzo, collegati da brevi episodi di transizione: un Lento parlando tra il primo e il secondo, un Allegretto tra il secondo e il terzo. La parte della viola concertante si presenta, per contro, interamente compiuta: ad essa è affidata, nel Moderato iniziale in forma sonata, l'esposizione di tutto il materiale tematico. L'indicazione Adagio religioso fu attribuita al secondo tempo da Serly, per una supposta analogia con il tempo centrale del Concerto n. 3 per pianoforte: la forma, però, non è qui ABA', bensi ABC, dove C è una reminiscenza del primo tema del primo tempo. Particolarmente disordinato è infine il manoscritto del conclusivo Allegro vivace: non è tuttavia difficile riconoscervi la caratteristica cifra bartókiana nelle frequenti venature folcloriche (qui di sapore rumeno), nel vivace piglio ritmico, nell'allusione nostalgica ai valori di una civiltà irrimediabilmente perduta con l'esilio.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Alcuni anni fa, poco prima della sua scomparsa, György Lukacs in uno scritto dedicato a Bartók notava che per il compositore ungherese «alla base della questione centrale del rinnovamento del mondo (e dunque della musica)», sta «la contraddizione inconciliabile tra il contadino che vive una vita naturale e l'uomo moderno deformato e alienato la quale gli fornisce il punto di partenza per la ricerca di una soluzione del problema della realizzazione di una vita 'umanizzata' dell'uomo di oggi».

Se è vero dunque, come è stato più volte affermato e come lo stesso Lukacs riconferma, che alla base dell'umanesimo bartokiano c'è l'ispirazione del mondo popolare e contadino della sua terra, reinventata però in un linguaggio assolutamente originale, è anche vero che negli ultimi lavori del compositore, corrispondenti agli anni dell'esilio americano, questo riferimento appare sempre più mediato attraverso un linguaggio che tende ad evadere dalla tensione drammatica caratteristica dei suoi grandi capolavori precedenti (quali la «Cantata profana», il «Quinto Quartetto», la «Musica per strumenti a corda, celesta e percussione», la «Sonata per due pianoforti e percussione») per manifestarsi nelle forme di un accentuato lirismo.

Per intendere questo mutamento stilistico, che si manifesta regolarmente in tutti i lavori dell'esilio (fra i quali il «Concerto per orchestra» e il «Terzo concerto» per pianoforte e orchestra), anche senza voler fare del sociologismo a tutti i costi non si può dimenticare la condizione di completo isolamento in cui Bartók, come tanti altri intellettuali e artisti europei, si trovò negli Stati Uniti.

A contatto con una società alienante come quella americana gli atteggiamenti possibili per un artista erano infatti sostanzialmente quello dell'integrazione o quello dell'isolamento. Molti furono costretti dalle necessità economiche o dal tipo di attività esercitata a scegliere, in maggiore o minor misura, il primo: si pensi alla fine tristissima, dal punto di vista artistico, di un compositore geniale come Kurt Weill o a quella dei grandi cineasti dell'espressionismo tedesco. Artisti di una coerenza morale che non è retorico definire eroica, quali Bartók e Schönberg, scelsero consapevolmente la strada dell'isolamento con le sue conseguenze di incomprensione, e spesso, anche di miseria materiale.

In una disperata lettera indirizzata ad un amico nel 1942, Bartók scriveva infatti: «La mia carriera di compositore è praticamente finita; continua il boicottaggio quasi totale delle mie opere da parte delle orchestre importanti; non si eseguono né le mie opere vecchie, né le nuove, è una vergogna, ma non per me evidentemente».

Fortunatamente, malgrado tutto, la carriera del Bartók compositore non era affatto terminata anche se la morte lo colse prima che potesse completare le ultime diciassette misure del «Terzo concerto» per pianoforte e dar luogo alla stesura definitiva del «Concerto per viola».

Quest'ultimo, gli era stato richiesto nel 1945, pochi mesi prima della morte, dal grande violista William Primrose e Bartók non riuscì ad andare oltre la composizione di alcuni temi e l'indicazione di un disegno generale dell'opera che fu poi portata a termine, seguendo scrupolosamente le indicazioni anche verbali ricevute dal maestro, dal suo amico Tibor Serly.

In una lettera a Primrose, Bartók affermava di voler opporre, in questo «Concerto», al carattere «austero e piuttosto mascolino» dello strumento solista un'orchestrazione trasparente e abbastanza discreta; ne è risultato un lavoro che si colloca certamente fra i migliori concerti per viola che siano mai stati composti.

L'opera è ordinata nei classici tre movimenti: l'iniziale «Moderato» è fondato su due temi, con riesposizione, cadenza e coda, il successivo «Adagio religioso» è in forma di lied e culmina in un episodio di carattere accentuatamente patetico; l'aggettivo «religioso» che distingue questo movimento, come anche quello centrale del «Terzo concerto», va inteso naturalmente non in senso mistico, quanto piuttosto in rapporto alle convinzioni ideologiche del compositore, in senso «umanistico». Il «Concerto» si conclude con un turbinoso «Allegro vivace», marcato da ritmi di danza all'ungherese, con due trii nel secondo dei quali l'oboe disegna effetti di cornamusa.

Marco Sperenzi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 7 Dicembre 1991
(2) Testo tratto dal Repertorio di Musica Sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 2001
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 23 marzo 1978


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Ultimo aggiornamento 1 febbraio 2019