Musica per archi, percussione e celesta, BB 114, SZ 106


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Andante tranquillo
  2. Allegro
  3. Adagio
  4. Allegro molto
Organico: 4 violini, 2 viole, 2 violoncelli, 2 contrabbassi, cassa chiara senza timbro, idem con timbro, piatti, tam-tam, grancassa, timpani, xilofono, celesta, arpa, pianoforte
Composizione: 7 Settembre 1936
Prima esecuzione: Basilea, 21 Gennaio 1937
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1937
Dedica: Commissionata per il decimo anniversario dell'Orchestra da camera di Basilea
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Composta nel 1937 su commissione dell'Orchestra da camera di Basilea, la Musica per strumenti a corda, percussione e celesta è da annoverare tra le composizioni più significative di Bela Bartók; minutamente strutturata sin nelle sue più intime fibre, essa accoglie i processi compositivi adottati specialmente nel Quarto e nel Quinto Quartetto per archi, sviluppando, attraverso la disposizione «stereofonica» della doppia orchestra d'archi (al centro della quale si vogliono collocati i restanti strumenti), il principio della «spazialità» del suono. Il primo movimento (Andante tranquillo) è costruito come un grande fugato basato su un caratteristico tema cromatico che costituirà il fondamento dell'intera composizione; il secondo movimento (Allegro) presenta lo schema della forma sonata e sviluppa poliedricamente le possibilità costruttive del tema, utilizzato qui non nella sua interezza, ma nei suoi segmenti costitutivi. Il terzo movimento (Adagio) è la chiave espressiva della composizione; vero studio di timbri è una di quelle musiche notturne nelle quali Bartók sembra registrare le pulsazioni più profonde e segrete del mondo naturale. Il movimento finale (Allegro molto) dissipa le brume notturne attraverso una vivacissima dialettica tematica e ritmica, nella quale emergono in piena luce le componenti folkloriche del linguaggio bartokiano.

Francesco De Grada

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Sarebbe davvero stimolante, in presenza di un'opera come la «Musica per archi, percussione e celesta» chiedersi che senso possa avere, oggi, l'ipotesi di una «terza via» aperta dall'esempio di Bartók, nella musica contemporanea fra quella «progressista» di Schönberg e quella «conservatrice» di Stravinsky, secondo la obsoleta spartizione di ruoli operata da Theodor W. Adorno. Saremmo facilmente indotti a replicare che non si tratta di una «terza», ma di una delle tante altre possìbili soluzioni stilistiche praticabili, al di là dei bivio obbligato indicato da Adorno; soprattutto nel momento attuale, in cui gli assertori di una Irreversibilità degli approdi schönberghiani rischiano il ridicolo, musicisti come Berio ritornano a un franco tonalismo (già da tempo sostenuto in Italia, da un Paolo Castaldi), o come Stockhausen si volgono alle forme e al pubblico della musica «di consumo», Bartók forse può non costituire più un'indicazione «da imitare», ma è certamente un faro (in senso baudelairiano), un modello di libertà nelle scelte, un maestro delle possibili conciliazioni fra avanguardia e passato.

È noto che il grande musicista ungherese, per rompere con la tradizione accademica del slnfonismo germanico, si nutrì di materiale folklorico della regione balcanica (agli anni 1906-7 risalgono ie prime ricerche e registrazioni, attuate con Kodaly, che portarono alla catalogazione di più di 7.000 melodie popolari) adottando scale di cinque e sei suoni e una ritmica assai vivace e irregolare. «Affrontai lo studio della musica contadina — scrive in uno schizzo autobiografico — con metodo scientifico, e ciò mi portò decisamente all'affrancamento dai modi maggiore e minore, in uso nella musica classica. La gran parte di quel materiale, infatti, si basava su modi ecclesiastici antichi o addirittura primitivi (pentatonici) ... Le antiche scale, non più in uso nella nostra musica colta, rendevano possibili nuove combinazioni armoniche e l'impiego indipendente dei dodici suoni della scala cromatica».

Peraltro, nell'organizzazione di tale materiale, Bartók accoglie si forme semplici come quelle della canzone o della danza, ma non rinuncia a più complesse, classiche strutture «architettoniche» quali la fuga, il rondò, la sonata, È un sottile intreccio di elementi eterogenei, ai quali si aggiunge la costante attenzione che Bartók rivolse a quanto si andava producendo in Europa: impressionismo ed espressionismo, scuola russa, neoclassicismo.

Le essenziali indicazioni sulla genesi del linguaggio di Bartók che siamo venuti fornendo costituiscono, forse, un troppo comodo e generico passepartout per l'ascolto della sua musica, quale essa sia, di modesta o eccelsa qualità; ma la «Musica per achi, percussione e celesta» è uno dei vertici di tutta la produzione bartókiana, uno di quei capolavori che danno ragione — con la loro eccellenza — a qualsivoglia poetica, rendendola operante e vitale. Essa nacque nel 1936 su commissione, per la famosa orchestra di Basilea diretta da Paul Sacher e raccoglie in una sintesi di straordinaria suggestione la tematica bartókiana della notte, il ricorso a furiosi ritmi magiari, una certa visionarietà allucinata. L'opera è articolata in quattro movimenti e trova origine (secondo il Carner) in un solo tema, simile per il suo cromatismo al tema principale del Sesto quartetto, mostrando quanto abilmente Bartók utilizzi il principio della forma ciclica lisztiana (appunto l'adorato Liszt: chi ha inventato la contrapposizione Liszt-Bartók per ragioni di autenticità magiara, reciti ormai un «mea culpa»). L'«Andante tranquillo» è una fuga a cinque voci, costruita sul già citato tema cromatico, un vagare misterioso, ai limiti dell'atonalità, che esplode in un vigoroso accordo di mi bemolle. Di tutt'altro carattere il secondo movimento, ispirato alla febbrile ritmica ungherese seppure costruito in forma-sonata: al nostro orecchio, può forse suggerire l'immagine di una musica di colore orientale, la cui eleganza e flessibilità melodica siano state «barbaricamente» sconvolte.

La pagina di maggiore concentrazione della «Musica» è certamente l'«Adagio» centrale, uno dei tanti esempi di musica notturna, come nella «Sonata per due pianoforti», nel «Quarto quartetto», nel ciclo «All'aria aperta», Si tratta di una pagina tutta giocata sulla ricerca timbrica: gli effetti di glissandi (anche nei timpani), di pizzicati, gli armonici degli archi, il colore surreale della celesta popolano il brano di «presenze» misteriose, voci di esseri il cui linguaggio solo l'artista riesce a cogliere e comprendere («le language des fleurs et des choses muettes», aveva scritto Baudelaire).

Il finale «Allegro molto» si collega al secondo movimento, per la ripresa di ritmi e melodie «ungheresi» (ma si ricordi che ormai Bartók inventa per conto proprio il materiale musicale (pur nello spirito della tradizione contadina della sua terra): splendide sonorità accompagnano un andamento che ha qualcosa dell'improvvisazione zingaresca e che — imprevedibilmente — si conclude su un accordo perfettamente tonale, in un clima di vigoroso, anche se fuggevole, ottimismo.

Cesare Orselli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 26 ottobra 1975
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 6 marzo 1976


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Ultimo aggiornamento 26 aprile 2019