Quartetto per archi n. 6 in re maggiore, BB 119, SZ 114


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Mesto - Vivace
  2. Mesto - Marcia
  3. Mesto - Burletta
  4. Mesto - Molto tranquillo
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: agosto - novembre 1939
Prima esecuzione: New York, 20 gennaio 1941
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1941
Dedica: Quartetto Kolisch
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Sesto Quartetto in re fu composto tra l'agosto e il novembre del 1939, su commissione del violinista Zóltan Székely. E' l'ultima composizione scritta da Bartók in Europa e segue alcuni importanti lavori, come la Sonata per 2 pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino e orchestra (1937-'38) e il Divertimento per archi (2-17 agosto 1939). Il Quartetto fu eseguito per la prima volta a New York il 20 gennaio 1941 dal Quartetto Kolisch, al quale è dedicato; fu pubblicato nel 1941. Nella partitura sono presenti gli echi del dramma personale del musicista, costretto a lasciare la propria terra per il dilagare della dittatura nazista in Europa dopo la pericolosa politica dell'Anschluss: non è da escludere che l'ironia della Marcia e della Burletta abbia un aggancio psicologico con il divampare della seconda guerra mondiale, e il Mesto ricorrente in tutti e quattro i tempi abbia un riferimento con la morte della madre, avvenuta in quel triste periodo.

L'arte di Bartók acquista una più spiccata umanizzazione e non a caso la presentazione del tema del Mesto introduttivo ha rassomiglianza con la frase della Grande Fuga beethoveniana dell'opera 135, contrassegnata dal motto: «Muss es sein? » (Deve proprio essere?). Non mancano nella Marcia altri echi beethoveniani, pur fra i tremoli, i trilli e i glissando che Bartók utilizza abitualmente nella sua musica. Più stridente e tagliente è il tema della Burletta, basato sull'intervallo di terza minore, assurto a significato simbolico di una situazione psicologica di lacerante contrasto con la realtà. L'ultimo tempo è immerso in una profonda tristezza e la melodia si espande al massimo, sino a raggiungere una notevole tensione espressiva; la viola ripete in modo elegiaco il tema e la prima cellula della melodia viene ripresa alla fine in pianissimo e in pizzicato dal violoncello, su un delicatissimo sottofondo sonoro dei due violini, posto a degno coronamento dell'ardita e fortemente introspettiva intera opera quartettistica bartokiana.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il VI Quartetto di Bela Bartok, datato: Saanen - Budapest 1939, è, a quanto sappiamo, l'ultima composizione da camera del compositore ungherese, e l'ultimo lavoro da lui scritto prima di partire per l'America. E' una fra le più perfette affermazioni di quella generosa natura d'artista per la quale il nazionalismo artistico non è stato davvero una barriera: se il suo linguaggio personalissimo è stato foggiato durante un lungo e appassionato studio delle musiche popolari della sua terra, nè Debussy, nè Ravel, nè Strawinsky sono stati avari d'insegnamento a Bartok: e neppure Schönbérg che, col suo espressionismo dodecafonico, gli ha offerto gli elementi d'un linguaggio cromatico e d'una dialettica armonica di una.originalità sorprendenti. Ma negli ultimi lavori Bartok - musicista geniale nella cui natura v'ha un bisogno innato di serietà e d'impegno totale e senza riserve - mostra, che il suo linguaggio è ben suo, e che gli elementi che haano contribuito a formarlo - siano essi d'arte o popolari - sono tutti bruciati nello forza espressiva: è un linguaggio spesso, rude ed opaco che si fugge da eleganze e da blandizie, dominato da un'energia ritmica e timbrica che bastano a rivelare la personalità del musicista fin dall'inizio. Questo Quartetto è in quattro tempi - Vivace, Marcia, Bagattella e Mesto - ognuno dei quali è preceduto da una melodia che la viola sola espone all'inizio del I tempo, il violoncello (sul fondo degli altri strumenti) del II, il violino (sempre con gli altri strumenti) del III, e che forma il nucleo generatore del finale (dove riappaiono elementi del I tempo). La scrittura è chiara, precisa, ariosa: l'unita della costruzione è assicurata, oltre che dai temi generatori da una specie di «ritmo interno» che presiede alla logica dell'architettura, e da una impeccabilità dir stile perfetto. Ma, ciò che più conta, è la profonda espressività di questa musica, una espressività non sentimentale, ma insita profondamente nella materia musicale stessa, nel suo modo di organizzarsi, nella sua integrità che non cede a facili modi decorativi, o letterari, ma che resta sempre profondamente ed autenticamente musica.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Posto accanto all'esplosiva energia e alla visionaria struttura simmetrica del Quarto, il Sesto Quartetto - con i suoi quattro movimenti, in ognuno dei quali ritorna ossessivamente una lenta cantilena che porla l'indicazione Mesto e ricorda l'inizio del beethoveniano Quartetto op. 131 - sembra davvero appartenere a un altro mondo espressivo. Bartók lo scrive negli ultimi mesi del 1939 ed è la sua ultima composizione importante prima del volontario esilio negli Stati Uniti. Esso quindi in un certo senso chiude il decennio creativo che si era aperto proprio con il brano di cui abbiamo parlato più sopra (Quarto Quartetto n.d.r.) (o forse è un Post-scriptum, un'aggiunta, uno sguardo indietro), e riflette allo stesso tempo il clima oppressivo della guerra e la tristezza per la morte della madre, spesso ricordata nelle lettere di questo periodo. Le interpretazioni autobiografiche del Sesto Quartetto, come si può immaginare, sono quindi state numerose. Bisogna però osservare che la "mestizia" complessiva del brano probabilmente non corrisponde all'idea iniziale del compositore: sembra che negli abbozzi il Mesto fosse presente solo come introduzione all'ultimo movimento (che doveva essere un moto perpetuo, in tempo rapido). Solo in un secondo tempo Bartók decise di utilizzare questo materiale, con la sua eloquente indicazione espressiva (già utilizzata, ancora una volta, da Beethoven: nei tempi lenti della Sonata op. 10 n. 3, Largo e mesto, e del Quartetto op. 59 n. 1, Adagio molto e mesto), per introdurre i primi tre movimenti, e quindi espanderlo a formare l'intero ultimo movimento. L'evidente unità formale del brano, e la sua organizzazione "ciclica", sarebbero quindi frutto di un ripensamento: non a caso il compositore si preoccupa di sottolinearle facendo ritornare, in tempo lento, i due temi principali del primo movimento nel corso del Mesto conclusivo.

Lo spazio non ci permette di esaminare in dettaglio tutti i movimenti del quartetto: al di là delle ricorrenze del Mesto, che diventa più esteso e più articolato a ogni riapparizione (passando da una a due, a tre e infine a quattro voci; e si può aggiungere che nei primi tre movimenti le ultime note del Mesto introduttivo sembrano anticipare il tema del brano successivo), mi limiterò a sottolineare per prima cosa l'equilibrio del Vivace iniziale, uno degli esempi più limpidi di forma-sonata nell'intera opera di Bartók. I due movimenti centrali sono accomunati dalla forma ternaria ABA, pur avendo caratteri molto diversi. La Marcia richiama certe atmosfere dei Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte del 1938, con un Trio dal carattere spiccatamente popolare, nella melodia e negli espressivi glissando del violoncello. La Burletta, la cui ripresa viene variata attraverso uno straordinario uso del pizzicato, sembra sospesa tra il carattere "percussivo" c assertivo di tanta precedente musica bartokiana e un lato più sarcastico, perfino disincantato.

Il finale trasforma il Mesto in una densissima meditazione contrappuntistica con la quale Bartók sembra voler rendere omaggio all'intera tradizione musicale mitteleuropea: da Bach alla Suite lirica di Alban Berg (1925/6), passando attraverso Haydn, Brahms, Mahler, Schönberg e naturalmente Beethoven.

Giovanni Bietti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 16 gennaio 1981
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Eliseo, 17 marzo 1947
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 350 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 17 settembre 2020