Suite per pianoforte in quattro movimenti, op. 14, BB 70, SZ 62


Musica: Béla Bartók (1881 - 1945)
  1. Allegretto
  2. Scherzo
  3. Allegro molto
  4. Sostenuto
Organico: pianoforte
Composizione: Febbraio 1916
Prima esecuzione: Budapest, 21 Aprile 1919
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Lo studio e la riscoperta del canto popolare ungherese costituiscono uno dei filoni importanti della parabola stilistica della musica di Bartók, che utilizzò fra l'altro il materiale folclorico della sua terra (risale al 1906 la pubblicazione dei Venti canti popolari ungheresi con accompagnamento di pianoforte) come via di uscita dalla crisi dell'armonia romantica. Insieme a Zoltàn Kodàly, Bartók ha raccolto e fissato migliaia di canti popolari magiari, con lo scopo di documentarsi direttamente alle genuine fonti delle melodie contadine: antiche melodie prevalentemente pentatoniche, ossia basate su cinque toni nei vari modi dorici, frigi, lidi, con coloriti particolari di intonazione bizantina, ritmi asimmetrici, metri spesso quinari e settenari come quelli usati da Stravinsky nel Sacre du printemps, così da spostare continuamente l'accento dinamico ed espressivo. «Lo studio di tutta questa musica contadina - ha scritto lo stesso compositore in un suo schizzo autobiografico - era per me di decisiva importanza, perché esso m'ha reso possibile la liberazione dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino allora in vigore. Infatti la più gran parte, e la più pregevole, del materiale raccolto si basava sugli antichi modi ecclesiastici o greci, o perfino su scale più primitive... Mi resi conto allora che i modi antichi ed ormai fuori uso nella nostra musica d'autore non hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di nuovo tipo ed ha avuto per ultima conseguenza la possibilità di usare ormai liberamente e indipendentemente tutti e dodici i suoni della scala cromatica».

Naturalmente la melodia popolare costituisce un punto di partenza per Bartók che rielabora con liberalità timbrica, ritmica e armonica il materiale e gli imprime un taglio e una tensione psicologica del tutto personale, aperti verso certe esperienze espressionistiche. Questo criterio compositivo si ritrova in diversi lavori del musicista, a cominciare dalla Suite per pianoforte op. 14, che risale al 1916, per proseguire poi con i Quindici canti contadini ungheresi, scritti fra il 1914 e il 1917, con i Canti di Natale rumeni (1915) e fino alle otto Improvvisazioni op. 20 per pianoforte (1920), dove la reinvenzione delle melodie popolari giunge al più rigoroso radicalismo moderno.

L'influsso del canto contadino ungherese si avverte nella Suite op. 14 e per di più nel terzo movimento l'autore fa uso di temi arabi raccolti nell'oasi di Biskra e la cui ostinazione ritmica ripete quella già avvertita nell'Allegro barbaro per pianoforte del 1911. Questo terzo movimento è caratterizzato da una vivace concitazione agogica e da una ridda vertiginosa di suoni che richiamano alla mente il primo Stravinsky; negli altri tre tempi pianistici, che si susseguono senza soluzione di continuità e secondo una traiettoria ascensionale e non dialettica, si notano meglio le figurazioni armoniche derivate dallo studio del canto popolare, con la mescolanza e contemporaneità di modo maggiore e minore, con la frequente alterazione di tonalità e l'uso della dissonanza come stimolo all'effetto dinamico. Nel Sostenuto finale l'atmosfera diventa triste e assorta per un ripiegamento interiore dell' anima, staticamente rappreso in una serie di accordi gravi e stridenti.

Ennio Melchiorre

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Il premio pianistico invece è assegnato / a uno sconosciuto che con il metronomo Bach ha strimpellato». Questi due non alatissimi versi fanno parte dell'Ode ai Quindici. Satira contro i membri della giurìa del Premio Rubinstein scritta nell'estate del 1905 dal ventiquattrenne Bela Bartók, furente per essere stato classificato secondo in quel concorso, sia nella sezione riservata ai pianisti, sia in quella riservata ai compositori. Il pianista «sconosciuto» reo di aver soffiato la vittoria a Bartók era nientemeno che Wilhelm Backhaus, all'epoca ventunenne; ma non era questa delle due, la sconfitta che più bruciava a Bartók che in due lettere di quel periodo dimostra di accettare quel verdetto e di soffrire soprattutto per la sconfitta fra i compositori, dove non furono assegnati né il primo né il secondo premio ma solo due diplomi d'onore, nell'ordine, all'italiano Attilio Brugnoli e a Bartói stesso: «Che non abbia vinto tra i pianisti, niente di strano ed è cosa che non mi fa male [...]; ha vinto l'inglese Backhaus il quale suona effettivamente molto bene» (per inciso, si può notare che il giovane Backhaus in realtà non era affatto uno «sconosciuto» e soprattutto non era inglese, ma in quel periodo insegnava al Royal Northern College of Music di Manchester).

Comunque siano andate le cose, questo secondo premio alle spalle di uno dei maggiori pianisti del Novecento in quello che allora era il più importante concorso pianistico del mondo dà la dimensione del valore di Bela Bartók come pianista. In effetti il ruolo fondamentale occupato dalla sua produzione musicale nella storia della musica del nostro secolo fa inevitabilmente passare in secondo piano altri aspetti della sua ricca e multiforme attività, non meno importanti e ricchi di frutti. Oltre ad essere stato, come si è detto, un eccellente pianaista, Bartók ha svolto un'infaticabile e fondamentale attività di etnomusicologo, concretizzatasi in un'infinità di ricerche sul campo in Ungheria e in altre zone d'Europa e in un gran numero di scritti teorici ancor oggi di granade interesse; e infine, a partire dal 1907, ha insegnato per quasi trent'anni pianoforte all'Accademia di Musica di Budapest. L'influenza di questi tre aspetti - le capacità di strumentista, le ricerche sul canto popolare, l'attività didattica - non manca ovviamente di farsi sentire nella sua produzione musicale.

Sono i primi due aspetti a emergere con partcolare evidenza nella Suite op. 14, composta a Ràkoskeresztur nel febbraio del 1916, pubblicata dalla Universal nel 1918 ed eseguita per la prima volta dall'autore a Budapest il 21 aprile del 1919, nello stesso concerto in cui furono presentati anche i Tre Studi op. 18. La Suite si apre con un Allegretto sereno e giocoso, non privo di una certa ironia, dal sapore ingenuamente popolareggiante. In questo caso l'etnomusicologo Bartók non ricorre a citazioni o imprestiti di melodie e ritmi contadini, ma raggiunge uno dei suoi esiti più felici nel conseguimento di quel cosidetto folklore «immaginario», perseguito creando melodie e ritmi assolutamente originali ma interamente sostanziati dallo spirito del patrimonio folklorico in linea con lo scopo che si prefiggeva: «portare nella musica colta il tipico carattere della musica contadina (che è assolutamente impossibile esprimere con le parole): non basta insomma immettervi dei tempi o l'imitazione dei temi contadini, perché in tal modo si finirebbe col fare un banale travestimento del materiale popolare, ma bisogna trasferire in essa l'atmosfera della musica creata dai contadini».

La Suite op. 14 si va agitando nei due movimenti centrali - uno spigoloso Scherzo, aperto da una secca e nervosa idea discendente che utilizza dieci suoni diversi del totale cromatico, e un corrusco Allegro molto, toccata attraversata da violente scosse elettriche - per poi concludersi insolitamente con intensissimo movimento lento, uno spleenetico e introverso Sostenuto di appena 35 battute dalla straordinaria concentrazione espressiva.

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

La composizione della Suite op. 14 risale al 1916: per Bartók stava per concludersi il periodo della prima maturità, quello che aveva preso le mosse fra il 1905 e il 1906, sull'onda di due fondamentali esperienze, la conoscenza dell'Impressionismo francese e la scoperta del folklore magiaro e rumeno, ambedue compiute per il tramite e l'ispirazione di Zoltàn Kodàly. In modo dapprima abbastanza incerto e incoerente, questi due interessi avevano impresso una drastica svolta alla sua evoluzione stilistica, orientandola, dopo le prove giovanili ancora legate a un epigonismo lisztiano, verso la ricerca di un linguaggio più aggiornato, e al tempo stesso capace di originalità nei confronti anche delle correnti europee più avanzate.

Appunto dall'interesse folklorico - coltivato in anni e anni di pazienti ricerche sul terreno, a diretto contatto con i contadini - Bartók aveva derivato, assimilandolo a poco a poco, un patrimonio enorme di formule ritmiche e melodiche, che dapprima assunte come semplice dato turistico, di colore,-sarebbero poi state da lui utilizzate principalmente come elementi costitutivi di un lessico estraneo a quelli in uso fra le scuole che si contrapponevano nell'Europa occidentale in nome di concezioni diverse della modernità. Per ora, Bartók aveva cominciato il suo Novecento sotto l'influsso dell'arte di Debussy, cogliendone, in particolare, determinate intuizioni timbriche e certe individuazioni di atmosfere: lo attendeva, verso la fine della grande guerra, una nuova, bruciante esperienza «europea», quella dell'Espressionismo, che avrebbe trovato nel 1919 la sua celebrazione con Il mandarino meraviglioso; poi, dopo la metà degli anni '20, la conquista dello stile più personale, con la serie dei grandi capolavori orchestrali e gli ultimi Quartetti. Nell'ambito di questo itinerario, la musica per pianoforte costituì in più occasioni una punta di diamante, spesso proiettata in avanti rispetto ad altri campi: cosa che del resto ben conveniva a un musicista come Bartók, che era nato pianista prima ancora che compositore (rinunciò alla carriera dopo lo sfortunato concorso «Rubinstein» a Parigi, nel 1905, che lo vide secondo dopo Wilhelm Backhaus, del che è da ringraziare la giuria che lanciò uno dei massimi pianisti del nostro secolo, rimandando invece a scriver musica il futuro autore di tanti capolavori: vero è che in quella stessa occasione, nella sezione del concorso dedicata ai compositori, Bartók riuscì ancora secondo, dopo il rispettabilissimo Attilio Brugnoli; ma i grandi compositori, grazie al cielo, non escono dai concorsi). Fu il caso di quell'Allegro barbaro che nel 1911 parve davvero aprire, nella storia del pianoforte, un capitolo nuovo (e che ancora sta, negli aggiornatissimi programmi d'esame dei nostri Conservatori, a rappresentare la più sospetta e preoccupante modernità); e in parte anche della Suite, presto divenuta una delle più eseguite composizioni di Bartók.

La Suite op. 14 costituì uno dei risultati più importanti conseguiti da Bartók nel periodo dell'Impressionismo e del canto popolare: uno dei più importanti anche perché in essa già si avvertono i segni di una prossima uscita da questa fase di ricerca: dell'Impressionismo non restano qui che le tracce di una particolare sensiiblità timbrica, certo minoritarie rispetto alla massiccia presenza di dimensioni tipiche di tutto il pianismo bartókiano (violenze foniche, martellare di ostinati, soluzioni «percussive») e comunque più vicine al Ravel visionario di Gaspara de la nuit che non alle magie sonore dei Preludi debussyani; e il dato popolare, pur ampiamente utilizzato, è del tutto depurato di tentazioni folkloriche in senso esteriore, per farsi base di un linguaggio affatto inedito. Nell'Allegretto iniziale, i temi si ispirano al folklore rumeno (si tratta però di motivi originali di Bartók), e la ritmica sembra qua e là stilizzare una danza popolaresca. Ma basta l'impianto armonico, per lo più bitonale, a togliere ogni sospetto di banale compiacimento coloristico; e le brusche cesure che interrompono, verso la conclusione, il moto del discorso, contribuiscono a determinare la fisionomia di netta modernità di questo primo brano. Nello Scherzo il segno si fa ancora più acre. In esso compare addirittura la serie dodecafonica: niente a che vedere con la scuola di Vienna, naturalmente; ma ciò indica chiaramente in quale direzione si stesse movendo l'arte di Bartók via via che essa proseguiva il suo libero cammino. I pochi spezzoni melodici che affiorano nel corso del brano non interrompono il rapidissimo, martellante scatto del ritmo. Secondo una disposizione in crescendo, il terzo movimento, che utilizza temi arabi raccolti da Bartók nell'oasi di Biskra, si scatena in una vorticosa e inarrestabile ossessione ritmica, che sembra voler toccare un vero e proprio parossismo fonico, quando d'improvviso il movimento veloce trapassa senza soluzione di continuità nel quarto e ultimo brano della Suite, un Sostenuto: il lento moto degli accordi a poco a poco si smaterializza in prospettive timbriche sempre più rarefatte, metafisiche, finché la chiusa sfuma in pianissimo.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 25 Marzo 1977
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 30 marzo 2000
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro della Pergola, 14 maggio 1980


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Ultimo aggiornamento 19 ottobre 2018