I rapporti di Beethoven con l'opera e la vocalità italiana furono piuttosto esigui, e risalgono, comunque, agli anni di formazione del compositore. Dopo il trasferimento a Vienna del 1792 il giovane pianista si affermò rapidamente presso gli ambienti dell'alta società, per il suo stile esuberante e anticonformista. Nel frattempo Beethoven perfezionava il proprio bagaglio tecnico, sia sotto la guida di Haydn - con cui tuttavia i rapporti furono non sempre sereni - sia sotto quella di Antonio Salieri. Uomo centrale della cultura musicale viennese, il maestro italiano insegnò a Beethoven tutti i segreti della vocalità, che conosceva come pochi altri; ovvero come scrivere musica rispettando i canoni formali dell'aria melodrammatica e soprattutto le esigenze dello strumento vocale del cantante cui l'aria era destinata. In sostanza Salieri mise Beethoven a parte delle sue preziosissime tecniche artigianali; tecniche di cui il giovane autore, interessato assai più alla musica strumentale e comunque sostanzialmente disinteressato all'opera italiana, avrebbe saputo far scarso profitto.
L'aria da concerto «Ah perfido» costituisce di fatto l'unico vero contributo beethoveniano al mondo dell'opera postmetastasiana. Le circostanze della genesi del brano non sono note, anche se è estremamente improbabile che Salieri vi abbia avuto una qualsivoglia parte. Stando a una copia manoscritta con correzioni autografe della partitura (copia ora smarrita), dove si leggeva per mano dell'autore: «Recitativo e aria composta e dedicata alla Signora Di Clari» - come anche alla descrizione di alcuni abbozzi, l'aria sarebbe stata scritta per una distinta "dilettante" di canto, la diciannovenne contessa Josephine Clary, residente a Praga. Dunque possiamo immaginare una esecuzione in qualche salotto dell'aristocrazia praghese, con un ridotto organico strumentale ad accompagnare la voce fresca della giovane aristocratica, che, come si conveniva a una esponente dei ceti alti, aveva compiuto solidi studi musicali, ma, a causa del suo rango, non poteva "praticare" il canto al di fuori del suo ambiente di nascita.
Beethoven comunque non tardò a dare più ampia risonanza alla sua aria; e così la "Leipziger Zeitung" del 19 novembre 1796 poteva annunciare, fra i brani eseguiti in un concerto il 21 novembre, «Una scena italiana composta per la Signora Dusek da Beethoven»; ovvero la medesima aria che l'autore aveva "dirottato" in questo caso su un'altra e ben più significativa cantante. La signora Dusek altri non era se non Josepha Dusek, ossia una delle più rinomate cantanti da camera dell'epoca, legata fra l'altro da rapporti di amicizia - forse anche di tenera amicizia come i soliti biografi pettegoli hanno ipotizzato - con Mozart; proprio nella villa praghese dei coniugi Dusek Mozart aveva ultimato il , e, segregato in una stanza dalla padrona di casa, aveva confezionato su misura per i suoi mezzi vocali l'aria «» K. 528.
Se questa aria mirabile era costata a Mozart poche ore di lavoro, possiamo invece immaginare una lunga fatica da parte di Beethoven nel mettere a punto «», se non altro per rifinire i dettagli di una corretta prosodia italiana. Il risultato, comunque, è quello di uno dei più perfetti tributi di Beethoven all', un piccolo ma prezioso ponte gettato sul baratro che distanziava Beethoven dal mondo, ormai volto verso il tramonto, dell'opera seria metastasiana. Non a caso protagonista della scena è appunto un'eroina di stampo metastasiano, che, con lusinghe e minacce, implora il suo eroe di non abbandonarla; e lo stesso testo del recitativo deriva dall' (atto III scena 3) del poeta cesareo, mentre il testo dell'aria è attribuibile a qualche modesto imitatore.
L'articolazione del brano è quella tipica dell'aria da concerto, con un recitativo, un cantabile e un allegro conclusivo. Una cura finmissima del dettaglio è quella del recitativo, che è attentissimo alle sfumature semantiche del testo, anche per il ruolo espressivo dello strumentale. Segue il cantabile «Per pietà non dirmi addio», dove troviamo l'espressione sublimata di un levigato neoclassicismo: manca ovviamente quel trasporto espressivo che caratterizzerà la grande scena di Leonore, «Komm Hoffnung» nei , e tuttavia è in questa pagina italiana che possiamo trovare una prefigurazione di quella dell'unica opera di Beethoven. Chiude l'intera aria un , basato sulle innumerevoli iterazioni del medesimo testo poetico, dove la voce della solista si piega verso una prova di "bravura", con scale e arpeggi che esprimono il versante più aggressivo e le lacerazioni interiori dell'eroina.
Arrigo Quattrocchi