Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 61


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro ma non troppo
  2. Larghetto (sol maggiore)
  3. Rondò: Allegro
Organico: violino solista, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1806
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 23 Dicembre 1806
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1808
Dedica: Stephan von Breuning
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Beethoven compose il suo unico Concerto per violino e orchestra in poche settimane nell'autunno del 1806: esso è, dunque, contemporaneo dei tre Quartetti op. 59 (i «Razumowsky») e della Quarta Sinfonia, op. 60. Fu un anno di serena produttività (uno dei pochi nella vita di Beethoven), che qualcuno attribuisce a una temporanea felicità della vita privata. Con spiegazioni biografiche e psicologiche l'esegesi dell'arte non va lontano, certo è che la buona disposizione alla vita e agli uomini di cui in quei mesi Beethoven seppe godere, si avvertono nella musica. E sorprendenti sono anche la prudenza e la pazienza con cui il difficile genio trattò il primo interprete del Concerto, Franz Clement, uno stravagante virtuoso allora molto acclamato. Forse per ingraziarselo, ma anche con ironia, Beethoven gli consegnò il manoscritto con una strana dedica in un bizzarro miscuglio linguistico: «concerto par clemenza pour Clement primo violino e direttore del teatro di Vienna». Accertatosi che nell'esibizione del 23 dicembre 1806 al Theater an der Wien Clement avrebbe eseguito la sua musica, Beethoven, come ho già detto, la stese in fretta, con buona lena e con ricca felicità di idee, non risparmiandosi neppure sul lavoro di stesura. Il primo tempo, infatti, è insolitamente esteso e, nell'insieme, questo Concerto è uno dei suoi lavori solistici più lunghi. In occasione della prima esecuzione Beethoven dovette tollerare uno dei tanti arbitri di Clement, il quale decise di suonare i primi due tempi nella prima parte, continuare la serata con un'esibizione virtuosistica e presentare infine il terzo tempo del Concerto di Beethoven. Fatta così a brani, si capisce che questa musica non piacque. Tuttavia anche in seguito essa circolò con stento e tra mille diffidenze, finché Vieuxtemps nel 1833 e poi Joachim, in piena età romantica, la portarono al successo che dura tuttora.

Il Concerto per violino, infatti, è una delle opere più amate di Beethoven e più ammirate dai pubblici di tutto il mondo. Alla generale preferenza contribuisce non poco il fascino che esercita il lirismo del violino, le espansioni cantabili, le suggestioni dei passi virtuosistici, che con nessuno strumento tanto impressionano quanto con il violino (non per nulla il violino è lo strumento preferito dal demonio).

È certo che il disegno ritmico che sentiamo dai timpani subito all'inizio del primo movimento, e che costituisce l'elemento unificante di tutto l'Allegro, sia stato la cellula generativa della creazione in Beethoven. Tra i tanti tratti originali di questo Concerto c'è il fatto che la prima battuta (una sola battuta) con i quattro colpi di timpano serve da introduzione a tutto il primo movimento e serve insieme da segnale tematico. Questo segnale è tra i primi appunti sparsi del lavoro, fissato come idea a sé, indipendentemente da funzioni armoniche e costruttive, che in seguito saranno ben decise ed evidenti. Tutto il materiale tematico è presentato dall'orchestra nella consueta dinamica dei contrasti di carattere (patetico, drammatico, combattivo) e poi è ripreso ed elaborato dal violino. Particolarmente efficace è il languore con cui, nello sviluppo, il violino trasforma il terzo tema, il più noto e il più cantabile.

Il Larghetto, sol maggiore, è in forma di Romanza su un tema unico, concepito con grazia meditativa e con una strumentazione trasparente, sulla quale il solista disegna le sue decorazioni.

Il Rondò è l'invenzione più vitale e robusta di tutto il Concerto. Pare che il tema principale del Rondò, cioè il ritornello, sia stato suggerito a Beethoven da Clement. Anche se è così, il musicista l'ha fatto suo con un estro e un umorismo che raramente si incontrano nelle altre sue opere strumentali. Notevole soprattutto la dislocazione ritmica del disegno, che Beethoven sfrutta fino alle ultime conseguenze, provocando alla fine, nel fortissimo antecedente le ultime battute, una specie di vertigine.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Concerto in re maggiore opera 61 è la principale composizione per violino e orchestra del compositore, risalente alla fine del 1806 e quindi contemporanea della Quarta Sinfonia, dei tre Quartetti dell'opera 59, del Quarto Concerto per pianoforte. È estremamente probabile che il Concerto sia stato composto per esaudire la richiesta di un solista di prestigio, il violinista Franz Clement (ventiseienne all'epoca della composizione, nonché direttore al Theater an der Wien), che aveva fra l'altro diretto la prima esecuzione della Terza Sinfonia e la ripresa di Fidelio.

Secondo la testimonianza di Carl Czerny (Pianoforte-Schule op. 500), allievo ed amico del maestro, Beethoven avrebbe redatto la partitura in un lasso di tempo assai breve - come sembra confermare lo stato piuttosto disordinato ed incompleto dell'autografo - e la avrebbe terminata con appena due giorni di anticipo sulla prima esecuzione. Questa ebbe luogo a Vienna, al Theater an der Wien, il 23 dicembre 1806. Franz Clement riscosse un successo personale, al quale non fu certo estraneo un "numero" straordinario, consistente nell'esecuzione, fra i primi due tempi del Concerto, di una sua Sonata per violino, suonato su una sola corda e imbracciato, oltretutto, capovolto.

Tuttavia - nonostante la differente testimonianza di Carl Czerny - le recensioni dell'epoca si mostrarono severe verso la composizione. Scriveva la «Zeitung für Theater» dell'8 gennaio 1807: «È opinione unanime fra gli intenditori che [il Concerto] non manchi di bellezze, ma che nell'insieme appaia del tutto frammentario e che le infinite ripetizioni di passaggi banali possano facilmente ingenerare monotonia». Al di là del parere di un singolo critico la partitura incontrò nei decenni seguenti una scarsissima fortuna presso pubblico ed esecutori; i successivi tentativi di imporre la composizione nel repertorio (ad opera di Tomasini, a Berlino nel 1812; Baillot, a Parigi nel 1828, Vieuxtemps, a Vienna; Uhlrich, a Lipsia nel 1836) rimasero sostanzialmente senza effetto; fino a quando, nel 1844, il tredicenne Johann Joachim la eseguì per la prima volta a Londra sotto la direzione di Mendelssohn, dando l'avvio ad una trionfale riscoperta.

La causa principale di questo misconoscimento deve essere individuata principalmente nell'essere il Concerto opera 61 una composizione poco alla moda. L'affermazione, presso il "nuovo" pubblico borghese, del gusto Biedermeier aveva favorito la diffusione di un tipo di concerto in cui il contenuto puramente musicale e il ruolo dell'orchestra erano ridotti al minimo e l'interesse era concentrato unicamente sull'esibizione delle doti di "bravura" del virtuoso. Lo stesso Beethoven, per favorire la incerta diffusione editoriale del Concerto, ne curò personalmente una versione pianistica, provvista di quattro eclatanti cadenze autentiche e improntata a uno stile brillante, virtuosistico e quasi chiassoso. La proposta di una "doppia versione" (violinistica e pianistica) della partitura era venuta nel 1807 dal compositore Muzio Clementi, che, nelle vesti di editore, aveva promosso la seconda edizione a stampa del Concerto, a Londra nel 1810 (ma non a caso anche la prima edizione, pubblicata a Vienna nell'agosto 1808 per i tipi del Bureau d'arts et d'industrie, aveva la stessa "doppia" destinazione).

Il Concerto opera 61, invece, è opera aliena per sua natura da eccentriche estroversioni. La scrittura solistica, innanzitutto, mostra un deciso orientamento verso un fraseggio levigato ed elegante che, pur richiedendo un alto cimento tecnico, poco concede al virtuosismo puro; tende insomma più a coinvolgere espressivamente l'ascoltatore che non a stupirlo. Anche il "problema" fondamentale posto dal genere del concerto, ossia il rapporto che intercorre fra il solista e la compagine orchestrale, viene risolto da Beethoven in modo piuttosto dissimile rispetto ai Concerti per pianoforte; non si tratta infatti di un rapporto conflittuale, che vede il solista porsi come netto antagonista verso l'orchestra. Il violino invece, pur mantenendo un forte profilo individuale, stabilisce con l'orchestra un'intima complicità, che deriva dalle pastose scelte timbriche dello strumentale, dall'assenza di marcate contrapposizioni dinamiche, dal rilievo concertante degli strumenti a fiato (avvertibile soprattutto quando gli archi siano, come all'epoca, in formazione ridotta).

L'organizzazione formale del Concerto segue le linee principali degli interessi dell'autore nei primi anni del secolo, dividendosi (come le Sonate opera 53 e 57, il Quarto e il Quinto Concerto per pianoforte) in due grandi blocchi, il primo stabilito da un movimento in forma sonata, il secondo da un breve movimento contemplativo che ha una funzione introduttiva rispetto al Finale (in genere un Rondò). Tuttavia il contenuto musicale della partitura si allontana da quei caratteri che hanno fatto versare fiumi di inchiostro sul Beethoven «eroico» e «titanico». Mancano all'opera 61 gli elementi essenziali di questa immagine: la pronunciata dialettica tematica e l'elaborazione degli sviluppi.

L'Allegro ma non troppo che apre il Concerto si basa infatti su due idee tematiche principali fra loro affini: la prima dal profilo discendente, la seconda ascendente, ma entrambe per gradi congiunti, con valori regolari, introdotte e supportate da un ritmo insistito di quattro "colpi" (il timpano solo per la prima idea, i violini soli per la seconda); ed entrambe presentate, nell'introduzione orchestrale, dal gruppo dei legni. Appunto nell'introduzione compaiono tutti o quasi gli elementi tematici che daranno vita al movimento; estremamente breve, rispetto alle vaste dimensioni di questo, è la sezione dello sviluppo, e l'intero tempo si basa sulla elegante ripetizione variata del materiale di base da parte del solista e dell'orchestra. La cadenza in genere eseguita, per tradizione, è di Fritz Kreisler (come anche quella del tempo conclusivo).

Il secondo movimento consiste in un tema con variazioni, che non dà origine però a fantasiose trasformazioni espressive, e si svolge interamente in una ambientazione coerente; il movimento ha però una struttura eccentrica, ispirata al principio della "doppia variazione" proprio di certi Adagi di Haydn. Esposto dagli archi, il tema viene variato tre volte e con preziosi ornamenti dal solista, che presenta poi un secondo tema, anch'esso variato dopo una quarta variazione del primo tema. Dopo un'ultima apparizione di questo, energici accordi degli archi e una incisiva cadenza del violino conducono direttamente al Finale. Si tratta di un Rondò che costituisce la pagina più apertamente brillante della partitura; la struttura è quella consueta A-B-A-C-A-B'-A, che alterna un refrain ad episodi differenti. A moderare il carattere brillante del movimento c'è un elemento stilistico peculiare: quello "pastorale", evidenziato dal tempo di 6/8, dalla particolare, amabile tornitura melodica del refrain, dall'ingresso dei corni sul secondo tema, dal rilievo dei legni. Ed anche la linea del solista, fra i trilli, le scale, gli arpeggi, le doppie corde che impegnano il virtuoso, non tradisce la sua vocazione verso una espressività lirica e sublimata, lontana tanto dal freddo ed elegante decorativismo del concerto rococò quanto dai facili effetti del gusto Biedermeier.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il Concerto in re op. 61 fu eseguito per la prima volta, poco tempo dopo che Beethoven ne aveva ultimato la composizione, il 23 dicembre 1806: solista era il celebre virtuoso Franz Clement, ammiratissimo da Beethoven, che gli aveva dedicato il Concerto con un curioso giuoco di parole («Concerto per Clemenza pour Clement»). Pare che il Clement, che pure era musicista di riconosciuta intelligenza, non si fosse scaldato troppo per il grande capolavoro che gli era stato affidato; tanto che non solo non vi si impegnò a fondo, ma - se dobbiamo credere a una notizia giunta fino a noi - lo trattò come una qualunque occasione per esibirsi, giungendo fino a interromperne l'esecuzione per suonare, fra il primo e il secondo tempo, un pezzo di bravura che non vi aveva nulla a che fare. Arbitri del genere erano all'epoca meno improbabili di quanto oggi non si sia portati a pensare, sicché questo episodio è da ritenere autentico; pare invece falso che Beethoven abbia consegnato a Clement una parte del Concerto all'ultimo momento, costringendolo a suonarla a prima vista. Sta di fatto che le accoglienze non furono molto cordiali, e il Concerto fu presto dimenticato; e inutilmente Beethoven ne realizzò l'anno seguente, dietro richiesta di Muzio Clementi, una trascrizione per pianoforte, pubblicandola nel 1808 contemporaneamente alla partitura originale per violino. A disseppellire il Concerto op. 61 sarebbe stato, tanto per cambiare, Felix Mendelssohn-Bartholdy, che lo diresse a Londra nel 1844; solista era il giovanissimo Joseph Joachim, che dieci anni dopo ne avrebbe dato un'altra memorabile interpretazione a Düsseldorf, insieme con un altro direttore d'eccezione, Robert Schumann. Dopodiché il Concerto di Beethoven prese stabile dimora fra i capolavori più celebri e amati dagli interpreti e dal pubblico.

La composizione del Concerto era caduta in un periodo di particolare fecondità creativa per Beethoven, quello compreso fra il 1804 e il 1808. Giunto nel pieno di una straordinaria maturità il sinfonismo beethoveniano - nel 1806 era nata, di getto, la Quarta, preceduta dalla stesura quasi completa dei primi due movimenti della Quinta -, condotta a esiti di estrema importanza la Sonata (specialmente quella per pianoforte, con pagine come la Waldstein o l'Appassionata), anche un genere in qualche misura condizionato a passare per minore come il Concerto, dove le esigenze della costruzione dovevano venire a compromessi con l'impulso esibizionistico di uno strumento solista, aveva trovato nell'opera di Beethoven uno sviluppo glorioso, con due lavori coevi come il Quarto concerto per pianoforte e questo in re maggiore per violino. Con risultati certamente diversi: il pianoforte per Beethoven fu sempre un terreno particolarmente propizio all'innovazione, anche molto ardita, e gli consentì di spingersi più avanti che in quasi tutti gli altri campi da lui toccati, nel senso dell'elaborazione formale come in quello dell'intensità e della concentrazione espressiva; mentre il violino, considerando nel loro insieme tutte le pagine espressamente dedicate a esso, lo vide pendere sovente verso un lirismo più disteso, non privo di compiacimenti esornativi, caratterizzato da una naturale eleganza di modi. Il che aveva comportato, per esempio, che i primi approcci di Beethoven alla composizione per violino e orchestra (non tenendo conto del frammento di un primo tempo di Concerto degli anni di Bonn), le due deboli Romanze del 1802, avessero pagato un salatissimo tributo a esigenze esteriori e consumistiche. Ragion per cui nel quadro della produzione concertistica beethoveniana il Concerto per violino resta contrassegnato da una piacevolezza e da una levigata espressività, di contro all'individualismo e alle ben maggiore problematicità dei maggiori fra i suoi fratelli pianistici, specialmente il coetaneo Quarto. Ma naturalmente questi caratteri si trovano a convivere con una massiccia presenza di istanze formali ed etiche, nel senso più beethoveniano: non per nulla la maniera del «periodo di mezzo» si era ormai precisata e irreversibilmente affermata nella pagine che precedono immediatamente il Concerto; e restando nel campo stesso del violino, pur relativamente defilato, come s'è detto, rispetto alle sconvolgenti avventure della forma e dell'espressione che Beethoven affrontava altrove, c'erano state opere come le Tre Sonate dell'op. 30, le prime grandi Sonate beethoveniane per violino e pianoforte, e la grandiosa Kreutzer, dove ogni ricordo di settecentesche piacevolezze era stato cancellato da robuste impennate di fantasia e da un'intima drammatizzazione del fatto compositivo.

Questo orientamento prevale soprattutto nel primo movimento del Concerto, aperto dal vigoroso sinfonismo dell'introduzione orchestrale, avviata dalla misteriosa e suggestiva pulsazione dei cinque colpi di timpano che torneranno a percorrere come una sorta di oscuro e imperioso segnale tutto lo svolgimento dell'Allegro. Il dipanarsi della parte del violino solista, intrisa di lirismo nella cantabilità trasparente del registro acuto, protesa in espansioni virtuosistiche di stampo classicheggiante, si fonde con stupenda naturalezza con il denso tessuto dell'orchestra, essa pure adagiata nelle volute di una generosa effusione melodica ma sempre nutrita di straordinaria forza interna; anche se fra le due idee tematiche principali (la prima delle quali è non meno lirica e cantabile della seconda, cui, dice Carli Ballola, «il primo movimento deve il suo carattere inconfondibile di ambigua e voluttuosa tenerezza, non priva di bruschi trasalimenti») non si verifica quel contrasto radicale di intenzioni espressive che determina la ragione stessa della forma-sonata. In questo quadro v'è spazio a una cadenza ampia e di particolare tensione virtuosistica, come quelle che per questo Concerto (Beethoven non ne scrisse che per la versione pianistica) realizzarono i più celebri violinisti, da Joachim stesso a David e a Kreisler. Molto intenso il movimento centrale, un Larghetto articolato in un dialogo fra lo strumento solista e l'orchestra, che si scambiano un motivo di dolcissima espressività, in un clima di poesia trasognata, affidato anche agli incanti di una timbrica rarefatta e sfumata. Un'altra cadenza del solista introduce al Finale, senza soluzione di continuità: un ritmo balzante, quasi di danza, annunciato dapprima quasi di soppiatto dal violino, poi ripreso con scatto travolgente da tutta l'orchestra. È fin troppo facile individuare in questo tempo - come tante altre volte in Beethoven - il punto debole del Concerto: certamente la sua caratteristica principale è quella di essere un brano brillante, di elegante e talvolta superficiale piacevolezza, sottolineata da uno schema compositivo un po' semplicistico come quello del Rondò; ma la sagace scrittura della parte solistica, dialogante con un'orchestra leggera e vivace, talora pervasa di allusioni naturalistiche (si è a proposito rammentato lo Scherzo della Pastorale), determina l'intima continuità dei diversi episodi, legati l'uno all'altro da un'impulso ritmico che percorre inarrestabile tutta questa breve e ben proporzionata struttura, concludendo il Concerto in un'atmosfera di equilibrata e aerea politezza formale.

Daniele Spini

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

La produzione di Ludwig van Beethoven per violino e orchestra è piuttosto scarna e annovera un lungo frammento di primo tempo di Concerto risalente agli anni 1790-1792, le due celebri Romanze (in sol op. 40 e in fa op. 50) del 1802 e il Concerto in re maggiore op. 61 composto nel 1806 ed eseguito per la prima volta il 23 dicembre dello stesso anno al Theater an der Wien di Vienna da Franz Clement, grande violinista viennese direttore dal 1802 dello stesso teatro. L'opera non ebbe grande successo (pare che Clement avesse introdotto, fra un tempo e l'altro del Concerto, esecuzioni di sue composizioni...) e venne presto dimenticata. L'anno seguente, su richiesta di Muzio Clementi, Beethoven ne realizzò una trascrizione per pianoforte e orchestra e la pubblicò nel 1808 contemporaneamente alla partitura originale per violino. Nel 1844 Felix Mendelssohn-Bartholdy riesumò il Concerto in un'esecuzione londinese nella quale il solista era il giovanissimo Joseph Joachim. Da quel momento il Concerto op. 61 si stabilì saldamente fra i capolavori più celebri e amati dagli interpreti e dal pubblico.

La struttura formale del Concerto segue le linee principali delle composizioni del secondo periodo beethoveniano; la pagina si può dividere (in analogia al Quarto e al Quinto Concerto per pianoforte e orchestra) in due grandi blocchi: il primo è un ampio movimento in forma sonata, il secondo è costituito da un breve momento contemplativo che precede il Rondò finale. Il primo movimento, costruito saldamente sopra le cinque note iniziali del timpano, ha una ricchezza melodica che affascina e coinvolge espressivamente l'ascoltatore: non c'è virtuosismo puro, non c'è contrapposizione fra solista e orchestra, ma complicità, unione, dialogo costruttivo. La breve oasi lirica del secondo movimento sembra preparare semplicemente il Rondò finale, spensierato, saltellante e leggero (a volte criticato proprio per questa ragione), sempre giocato dal violino solista sul filo dell'espressività e dell'intimo dialogo con l'orchestra.

L'esposizione orchestrale del primo movimento, Allegro ma non troppo, si apre con cinque re del timpano, cinque "rintocchi" che costituiscono la vera e propria cellula germinativa dell'intero concerto. Su questo impulso ritmico oboi, clarinetti e fagotti fanno sorgere il primo tema, un motivo discendente radioso e sereno che subito lascia il passo alle cinque note ripetute (archi). Una serie di scalette ascendenti dei legni porta poi alla transizione orchestrale che irrompe improvvisa nella tonalità di si bemolle maggiore. 11 secondo tema, in re maggiore, ha invece un profilo ascendente e viene esposto dai legni e subito ripreso, in tonalità minore, dagli archi. Una vena di inquietudine scorre poi nelle nervose terzine di viole e violoncelli, ma viene subito spazzata dal terzo tema, esposto con piglio eroico da tutta l'orchestra. 11 discorso musicale si spegne in una serie di delicate cadenze che aprono l'esposizione del violino solista: il primo tema viene presentato nel registro acuto dello strumento, in una sorta di dolcissimo respiro cadenzato dai soliti rintocchi ritmici del timpano. La serie di scalette ascendenti dell'esposizione orchestrale viene ripresa ora dal solista in un passaggio di bravura in ottave spezzate che porta al secondo tema, esposto in la maggiore da clarinetti e fagotti sopra il trillo del violino e subito ripreso e variato dallo stesso solista, ora in tonalità minore. Immancabile il ritorno dei cinque "rintocchi" iniziali affidati al solista e agli archi seguiti dal terzo tema, in la maggiore, impreziosito e arricchito dalle gioiose figurazioni del violino solista che portano a termine l'esposizione. La sezione di sviluppo motivico si divide in due parti; la prima si apre su un lungo trillo del solista sul quale i violini riprendono i cinque "rintocchi" iniziali, seguito dall'elaborazione del secondo tema (orchestra, prima in la maggiore, poi in la minore) e del terzo tema (orchestra in do maggiore). La seconda parte vede il nuovo ingresso del solista (in modo simile all'esposizione) che introduce il cuore stesso dello sviluppo, nel quale il materiale motivico del primo tema viene trasformato in un episodio in tonalità minore sul quale si ode nelle diverse sezioni dell'orchestra (corni, archi, timpani) il ritomo dei cinque "rintocchi" iniziali. Il violino prende ora in mano con decisione il discorso musicale e conduce l'intera sezione di sviluppo elaborando il primo e il secondo tema con figurazioni ornamentali sempre delicate e cantabili.

La ripresa si apre trionfalmente con la perorazione eroica del primo tema ad opera dell'intera orchestra in fortissimo al quale segue un episodio solistico, la transizione al secondo tema e il secondo tema stesso, ora in re maggiore. Il terzo tema, sempre in re maggiore, conclude la ripresa. La coda si apre nello stesso modo in cui si era aperto lo sviluppo: un lungo trillo del solista sul quale gli archi fanno sentire i cinque "rintocchi" iniziali. Un perentorio stacco orchestrale introduce la lunga cadenza del solista al termine della quale udiamo, dolcissimo, l'ultimo accenno al primo tema (violino solista sopra il pizzicato degli archi in registro acuto), prima delle conclusive strappate orchestrali.

Il secondo movimento, Larghetto, è in forma di tema con variazioni: il tema principale è un motivo dolce e sereno che viene subito presentato dagli archi con sordina, a esso seguono le prime due variazioni: nella prima il tema è affidato a corni e clarinetti, mentre il violino solista si produce in dolcissimi ricami melodici nel registro acuto, nella seconda invece è esposto dal fagotto. La ripresa del tema principale da parte di tutta l'orchestra in forte viene seguita da una breve transizione del solista che porta all'esposizione del secondo tema, anch'esso delicato e raccolto (violino solista, sol maggiore). Una terza variazione del primo tema (violino solista) viene seguita da una breve transizione che porta alla variazione del secondo tema, affidata al solista e sorretta armonicamente da clarinetti e fagotti. Alcuni energici accordi degli archi c un'incisiva cadenza del violino solista conducono direttamente, senza soluzione di continuità, al Rondò finale.

Il Finale è la pagina più brillante ed estroversa della partitura: la struttura formale è quella del Rondo (A-B-A-C-A-B'-A), nel quale il tema principale, il refrain, si alterna a diversi episodi contrastanti, ma possiede anche alcune caratteristiche della forma sonata classica: la simmetria tripartita, la struttura armonica e il fatto che il primo episodio, che ritorna variato come terzo episodio, ha la funzione del secondo tema di sonata. Questa forma variata, nota come Rondò-Sonata, si ritrova in diverse opere di Mozart e venne frequentemente utilizzata dallo stesso Beethoven nei movimenti finali delle sue opere del "secondo periodo". Il refrain (A) presenta un delizioso carattere di danza e viene esposto dal solista nel registro grave, ripreso nel registro acuto e ripetuto infine dall'intera orchestra in un moto di pura gioia ritmica. Curiosamente la cadenza dell'orchestra che conclude il refrain verrà ripresa qualche anno più tardi da Beethoven in un passo analogo del suo Concerto per pianoforte e orchestra "Imperatore" op. 73. Il primo episodio è una variazione del tema principale condotta dal solista sopra i "richiami di caccia" dei corni (B); poi ritoma il refrain identico al primo (A). Il secondo episodio (C), in sol minore, è più malinconico e vive del dialogo fra fagotto e violino solista che si scambiano i frammenti del tema. Dopo la ripresa del refrain (A) troviamo nuovamente il primo episodio (B') in forma leggermente variata ed elaborata. Un'ultima apparizione del refrain (A) porta alla cadenza del solista e alla conclusione del movimento.

Alessandro De Bei


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 28 Maggio 2005
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 10 ottobre 1994
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 4 maggio 1982
(4) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al numero 342 della rivista Amadeus

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Ultimo aggiornamento 3 agosto 2018