Oh Let the Night, WoO 155 n. 7

Canzone in mi bemolle maggiore per soprano, pianoforte, violino e violoncello dalle 26 canzoni gallesi, WoO 155

Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
Testo: William Smyth Organico: soprano, pianoforte, violino, violoncello
Composizione: 1810 - 1815
Edizione: Preston & Thomson, Londra 1817
Guida all'ascolto (nota 1)

La critica romantica, con i suoi preconcetti ancora oggi affascinanti e difficili da smaltire, ha descritto Beethoven come un essere quasi sovrumano e non soggetto alle debolezze dell'uomo comune, come un creatore di musica idealistica, eroica, nobile, visionaria. Si deve alla forte e durevole suggestione di questo Beethoven titanico se ci si sente spesso a disagio di fronte a musiche che mal si adattano alla sua immagine idealizzata, come le rielaborazioni di melodie popolari in forma di Lieder o di variazioni, tanto che si è tentati di liquidarli come un momento di distrazione o di vacanza del genio.

Prima di giungere a tale sommario giudizio si dovrebbe però considerare che allora questo genere di composizioni rientrava nell'ampio e variegato ambito della musica "da camera", destinata ad essere ascoltata in ambito domestico, tra parenti e amici, affidata alle ugole e alle dita d'esecutori dilettanti. Solo in seguito - anche in conseguenza del fatto che i compositori, a partire proprio da Beethoven, cominciarono a richiedere agli esecutori un livello tecnico superiore alle possibilità d'un dilettante - alcuni generi concepiti per questa fruizione privata passarono ad occupare un posto nella vita musicale pubblica, mentre altri non superarono questo passaggio e, scomparso l'ambiente sociale per le cui esigenze erano stati concepiti e non ricevendo alcun sostegno dalle nuove istituzioni musicali, finirono fuori dal repertorio. Inoltre gli adattamenti beethoveniani di melodie popolari si sono scontrati con il moderno approccio alla musica popolare, più rispettoso delle sue qualità specifiche e originali, finendo quindi coll'essere considerate musiche di "seconda mano", non indicative né della personalità dell'autore né dell'autentico spirito popolare.

Ma una musica nata per una determinata società e per un determinato tipo di fruizione può trovare nuova vita in un ambiente diverso, tanto più se il nome dell'autore suscita una doverosa attenzione.

Come ogni altro musicista viennese di nascita o d'adozione - dai minori fino a Haydn, Schubert, Brahms, Wolf e Mahler, con l'unica eccezione di Mozart - Beethoven non disdegnò affatto la musica popolare e vi attinse sia per musiche d'intrattenimento dal tono leggero che per composizioni di grande impegno, come due dei tre Quartetti dedicati al conte Andrej Rasumovskij: ma i suoi adattamenti di quasi centocinquanta melodie popolari scozzesi, irlandesi e gallesi non sarebbero nati senza le ripetute sollecitazioni di George Thomson, segretario del "Board of Trustees of the Encouragement of Art and Manufacture in Scotland". Costui, dopo aver ascoltato in concerto ad Edimburgo alcune canzoni scozzesi (eseguite da cantanti d'opera italiani!), si era consacrato al compito di raccogliere le "migliori canzoni e melodie" della sua tena: nel 1793 ne pubblicò una prima raccolta, affidata alle cure di Pleyel, Kozeluch e Haydn, incontrando un'ottima accoglienza in tutto il Regno Unito. Tali pubblicazioni di Thomson andarono avanti fino al 1838, estendendosi anche alla musica popolare irlandese e gallese.

Era convinzione di Thomson che si dovesse dare a queste melodie popolari una veste più decorosa, che fosse cioè conforme ai gusti del ceto borghese allora in piena ascesa. Per questo si rivolse ad alcuni tra i compositori più importanti dell'epoca, senza preoccuparsi se avessero una qualche dimestichezza con la musica popolare delle isole britanniche, e chiese loro di rielaborare e armonizzare le melodie che gli inviava, realizzandone una versione per voce solista, pianoforte, violino e violoncello, ed eventualmente un piccolo coro ad libitum. Il testo originale veniva il più delle volte scartato in ragione della lingua e del contenuto, ritenuti volgari, e sostituito con versi dallo stile più letterario, dovuti a scrittori di grido come Walter Scott, Robert Burns e perfino George Byron.

Thomson contattò per la prima volta Beethoven con una lettera del 1803, sollecitandolo a comporre delle sonate in cui avrebbero dovuto figurare temi scozzesi. La risposta non fu affatto negativa ma, forse per il compenso troppo elevato richiesto, la trattativa non andò avanti. Nel 1806 Thomson si rifece vivo con la richiesta di qualcosa di meno impegnativo e Beethoven rispose: «Renderò le composizioni facili e piacevoli fino al punto che mi sarà possibile, per quanto ciò sarà compatibile con lo stile elevato e originale, che, secondo la Sua espressione, caratterizza vantaggiosamente le mie opere, e da cui non mi discosterò mai». E concludeva dicendosi disposto ad armonizzare delle piccole canzoni scozzesi.

Il pieno accordo tra editore e compositore fu raggiunto nel 1809 e da allora fino al 1818 Beethoven rielaborò per Thomson melodie scozzesi, gallesi e soprattutto irlandesi, pubblicate in sette raccolte da Thomson tra il 1814 e il 1822. Venticinque Schottische Lieder (già pubblicati da Thomson nel 1818) furono ristampati come opus 108 in Germania nel 1822, mentre le altre sei raccolte rimasero senza numero d'opus e vengono ora indicate con i numeri 152, 153, 154, 155, 156 e 158 del catalogo redatto da Kinsky e Halm dedicato, appunto, ai Werke ohne Opuszahlen (WoO, cioè lavori senza numero d'opus). Inoltre alcune di queste rielaborazioni rimasero inedite fino al 1971, quando vennero inserite nel quattordicesimo volume di supplemento dell'edizione degli opera omnia di Beethoven.

Negli stessi anni in cui attendeva alle sue rielaborazioni, Beethoven utilizzò motivi scozzesi anche nelle due serie di temi variati per flauto e pianoforte, opp. 105 e 107: ciò fa supporre che questa musica semplice e popolare avesse suscitato in lui un interesse che andava al di là dell'ottimo compenso pagatogli dall'editore. Infatti, mentre in un primo tempo aveva scritto a Thomson che «questo lavoro è un impegno che non offre all'artista molto piacere», una posteriore annotazione nel suo diario rivela che il suo interesse a questo lavoro cominciava a crescere: «I Lieder scozzesi dimostrano con quanta libertà si possa trattare, per quanto riguarda l'armonia, la melodia poco strutturata delle canzoni».

L'impegno messo da Beethoven in queste rielaborazioni è testimoniato da altre frasi della sua corrispondenza con Thomson: «Si possono trovare facilmente degli accordi per armonizzare queste canzoni, ma far risaltare la semplicità, il carattere, la natura del canto non è tanto facile come Lei forse crede. Esiste un numero infinito di armonie, ma una sola è conforme al genere e al carattere della melodia». Analogo concetto ritorna in un'altra lettera: «Vi prego ancora una volta di aggiungere sempre il testo alle melodie scozzesi. Non capisco come Lei, che è un intenditore, non riesca a comprendere che farei dei pezzi completamente diversi se avessi sott'occhio le parole e che le canzoni non potranno mai diventare dei prodotti perfetti se Lei non mi manda il testo» (Thomson seguiva infatti la singolare prassi di scegliere il testo solo dopo aver ricevuto le elaborazioni delle melodie).

Che Beethoven portasse anche in questi lavori apparentemente disimpegnati tutta la sua coscienza artistica è dimostrato anche dal fatto che si rifiutò di sottostare alla richiesta di semplificare alcuni accompagnamenti ritenuti da Thomson troppo difficili: «Mi dispiace, ma non posso accontentarLa. Non ho l'abitudine di ritoccare le mie composizioni: non l'ho mai fatto, convinto come sono che ogni cambiamento anche parziale alteri il carattere della composizione».

Tutti questi Lieder, sebbene non rivelino l'orma gigantesca del genio, denunciano la mano del grande musicista, contengono momenti originali (inconfondibilmente beethoveniane sono molte delle brevi introduzioni e conclusioni strumentali, che costituiscono un'aggiunta dovuta interamente al compositore) e sono di piacevolissimo ascolto.

Mauro Mariani

Testo
O let the night my blushes hide
Oh, che la notte nasconda il mìo rossore
O let the night my blushes hide,
While thus my sighs reveal,
What modest love and maiden pride
For ever would conceal.
What can he mean, how can he bear,
Thus falt'ring to delay;
How can his eyes so much declare,
His tongue so little say?

Our parents old, - for so I guess,
His thoughtful mind alarm;
A thousand spectres of distress,
The ruined crops and farm!
But must we wait till age and care
Shall fix our wedding day;
How can his eyes so much declare,
His tongue so little say?

The times are hard, an odious world,
I'm wearied with the sound,
A cuckoo note, for ever heard
Since first the sun went round,
Well pleas'd a happier mind I bear,
A heart for ever gay;
How can his eyes so much declare,
His tongue so little say?

What recks it that the times are hard,
Try fortune, and be blest -
Set hope still cheer and honour guard,
And love will do the rest.
Far better load the heart with care,
Than waste it with delay;
How can his eyes so muche declare,
His tongue so little say?
Oh, che la notte nasconda il mio rossore
Mentre tutto rivelano i miei sospiri,
Ciò che modestia d'amore e orgoglio di fanciulla
Per sempre vorrebbero cancellare.
Che può voler dire, come può resistere
E vacillando ritardare;
Come può il suo occhio così tanto dichiarare,
E la sua lingua dire così poco?

I nostri vecchi genitori - così credo -
Allarmano la sua mente pensosa;
Mille spettri di sventura,
I raccolti e la fattorìa in rovina!
Ma dobbiamo attendere finché l'età e le ansietà
Diano un termine alla data delle nozze?
Come può il suo occhio così tanto dichiarare,
E la sua lingua dire così poco?

I tempi sono difficili, il mondo è odioso,
Non ne posso più di questo suono,
Una nota di cuculo insistente,
Sin dall'apparizione del sole
Farebbe lieto un cuore più felice del mio,
Un cuore per sempre lieto;
Come può il suo occhio così tanto dichiarare,
E la sua lingua dire così poco?

Che importa che i tempi siano duri,
Tenta la fortuna, e sii benedetto -
Afferra forte la speranza e sorridi e fa guardia all'onore,
E amore farà il resto.
Di gran lunga meglio gravare il cuore di affanno,
Che sciuparlo nell'attesa.
Come può il suo occhio così tanto dichiarare,
E la sua lìngua dire così poco?
(Traduzione di Paolo Cossato)

(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 23 gennaio 1997

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Ultimo aggiornamento 14 novembre 2014