Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra in do maggiore, op. 15


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro con brio
  2. Largo (la bemolle maggiore)
  3. Rondò. Allegro scherzando
Organico: pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1795
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 18 Dicembre 1795
Edizione: Mollo, Vienna 1801
Dedica: Principessa Barbara Keglevich Odescalchi

Beethoven ha revisionato il concerto nel 1800 in vista della pubblicazione con l'editore Mollo, presentandolo a Vienna nel Burgtheater il 2 Aprile 1800
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Quando il giovane Ludwig nel 1787 era giunto per la prima volta a Vienna per l'interessamento di Maximilian Franz, figlio cadetto di Maria Teresa nonché arciduca d'Austria e principe elettore di Colonia, certo non avrebbe mai immaginato che la splendida capitale asburgica sarebbe presto divenuta la sua patria adottiva, e che lì, nel marzo del 1827, dopo anni di gioie, sofferenze, glorie riconosciute ed amarezze, avrebbe incontrato il suo destino ultimo.

A diciassette anni Beethoven lasciava Bonn per immergersi nel caleidoscopico mondo viennese, fatto di musica e mondanità, ed in cui ancora brillava, pur con qualche opacità, l'astro di Wolfgang Amadeus Mozart, pianista e compositore; l'agiografia musicale non poteva non ricamare su questa presenza fianco a fianco dei due grandi, ed ecco il dicitur dell'incontro tra i due, dell'improvvisazione al pianoforte che il ragazzo tedesco esegue su di un tema dato lì per lì da Mozart, e del "questo ragazzo farà parlare di sé il mondo" esclamato dal maestro di Salisburgo. Ma dura poco. La madre si ammala e muore, ed in luglio i capricci del destino lo riportano a casa, lasciandogli però nel cuore l'idea che Vienna non è più così lontana.

Passano cinque anni, Beethoven è cresciuto, la sua musica sta maturando, e si notano i primi decisi segni di una personalità musicale in cui le suggestioni dei maestri assumono i tratti di una lettura critica. Il caso fa sì che una Cantata scritta da Beethoven nel 1790 in memoria del Kaiser Joseph II giunga tra le mani di Haydn e che questi apprezzi le qualità del giovane autore tanto da proporgli di raggiungerlo a Vienna. Le occasioni non vanno perse, ed ecco che due anni appresso, nel 1792, con l'aiuto del conte Waldstein, Beethoven torna nuovamente a Vienna per studiare con il grande maestro. Dietro di sé lascia la giovinezza ed una musica principalmente di carattere gioioso nei generi più in voga all'epoca: brevi composizioni per pianoforte, una suite orchestrale per balletto, ed alcuni semplici lieder. La formazione viennese inizia con Haydn, ma nel 1794 alla sua partenza per Londra, prosegue con Schenk e Albrechtsberger, con i quali approfondisce lo studio del contrappunto; mentre per lo studio della vocalità si rivolge al grande Salieri che, tra il 1793 ed il 1802, cerca di svelargli i segreti del magico accordo tra suoni e parole nella lingua italiana, facendolo esercitare su testi del Metastasio.

Anche grazie all'appoggio dei suoi maestri, negli ambienti colti ed aristocratici si iniziano ad apprezzare le qualità pianistiche di Beethoven, specialmente il suo stile brillante ma non spericolato e funambolico dei molti virtuosi dell'epoca. Il gusto equilibrato ma robusto, capace di alternare tenerezze melodiche a ritmica marziale, gli apre le porte di molti salotti, e le 'accademie' cittadine gli offrono l'occasione di eseguire sue composizioni. Il 29 marzo 1795, infatti, Beethoven esordisce in pubblico al Burgtheater, riportando un lusinghiero successo; tutti apprezzano il suo talento di pianista sia come esecutore di musiche altrui sia come improvvisatore, ma è ancora incerto il giudizio sul Beethoven compositore. Al suo esordio il musicista di Bonn esegue prima il Concerto in re minore di Mozart, e poi, a ruota, il suo Concerto in si bemolle maggiore (1794/5), quello che poi sarà il Secondo Concerto, l'op. 19 nella revisione del 1798, pubblicato solo nel dicembre 1801. Nel mentre, Beethoven affronta la sua prima tournée nel 1796, e ritorna sul pianoforte per lavorare ad un altro Concerto per pianoforte, questa volta in do maggiore; che diverrà poi il Primo Concerto, l'opera 15. Per onor di cronaca, occorre anche citare un Concerto per pianoforte giovanile che il maestro aveva scritto, ancora ragazzo, nel 1784 a Bonn; un lavoro più o meno sbozzato, ed assolutamente inadeguato a figurare tra le sue composizioni, tant'è che Beethoven non lo inserì nel suo catalogo.

Il Concerto in do maggiore venne ultimato nel 1798 e pubblicato soltanto nel marzo del 1801 dall'editore viennese Mollo. Beethoven lo dedicò ad una sua giovane allieva, Anna Luisa Barbara von Keglevich, detta 'Babette', a cui aveva da poco fatto dono anche della Sonata in mi bemolle maggiore per pianoforte, op. 7, composta nel 1797.

Suddiviso in tre movimenti: Allegro con brìo, Largo, Rondò. Allegro scherzando, il Concerto in do maggiore op. 15 si presenta all'ascoltatore con la gaia freschezza del suo primo movimento; i due temi, l'uno fiero e marziale, l'altro cantabile, passano al solista dopo un'ampia presentazione dell'orchestra. Immediatamente tornano all'orecchio le suggestioni mozartiane, ma anche di Karl Philipp Emauel e Johann Christian Bach, in un rincorrersi di fierezza e galanteria melodica, in cui Beethoven sa immediatamente imporre il suo marchio dinamico e timbrico. Tra esposizione, sviluppo e ripresa, questo Allegro, il movimento più lungo e strutturalmente più corposo del Concerto, scorre via amabilmente sui fraseggi tra pianoforte e le varie famiglie strumentali dell'orchestra; la cadenza finale è ampia ed importante all'interno del movimento, tant'è che Beethoven ne scrisse ben tre tra il 1807 ed il 1809 forse dedicate all'arciduca Rodolfo d'Austria, e conduce ad un finale di tempo sicuramente elegante.

Il Largo centrale è nella morbida e sognante tonalità di la bemolle maggiore. Le sue volute melodiche sono molto ampie e l'espressività raggiunta dal compositore, considerando il suo momento artistico, è senza dubbio notevole. Il tema è ben giocato tra gli strumenti ed il solista; l'orchestra sostiene ed accompagna questo dialogo, questo scambio di piccole frasi, di dolci accenni, per rinforzarsi qua e là in brevi sussulti di vigore che ridanno dinamismo alla melodia, nitida anche nelle sue transizioni tonali tra minore e maggiore. Conclude il Concerto un Rondò seguito da un Allegro scherzando. L'orchestra ampia e ben equilibrata può qui aprirsi ad un'atmosfera vagamente popolare caratterizzata dal ritmo sincopato che induce alla spensieratezza del gioco e della danza, forse un'eco della vita più semplice vissuta a Bonn, così come anche nelle opere coeve (Settimino op. 20 e nella Prima Sinfonia op. 21). Il Rondò è una forma che all'epoca attirava la fantasia creativa di Beethoven, tant'è che lo troviamo anche nell'op. 19 e nell'op. 37, si ipotizza che nel Concerto in do il Rondò possa essere stato aggiunto successivamente a sostituzione di un altro movimento ora perduto. Colpisce la forte caratterizzazione del tema nell'andatura briosa che dà modo al pianista di fare sfoggio della sua abilità virtuosistica.

Giancarlo Moretti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Eseguito spesso da Beethoven tra il 1796 e il '98 (durante l'unica tournée della sua vita) davanti ai pubblici di Berlino, Dresda, Praga, Budapest e altre città, non è ancora possibile scorgervi gli elementi di una ben delineata personalità, salvo che nello splendido "Rondò" finale. Il Concerto rimane una elegante musica di società, e risente ancora dell'influsso di Haydn e di Mozart: nei tre tempi che lo compongono - "Allegro con brio," "Largo" e "Rondò" ('Allegro scherzando') - va ammirata soprattutto l'eleganza dello strumentale e la scorrevolezza della tecnica pianistica, che danno vita a un discorso fluido e piacevole.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Composto fra il 1795 e il 1798 e pubblicato nel marzo 1801 presso l'editore Mollo di Vienna, fu probabilmente eseguito da Beethoven durante la tournée concertistica del 1798 a Praga. L'aspetto "pubblico", di brillante esito sonoro, è una delle molle del lavoro: il pianismo è più vicino ai modelli di Clementi e Kummel, con la tipologia sommaria di scale, arpeggi e altre formule di studio, piuttosto che alla raffinata invenzione mozartiana. Questo aspetto della scrittura pianistica si sposa, nel primo movimento (Allegro con brio), con una tematica orchestrale quanto mai netta e squadrata che, anche per la strumentazione con trombe e timpani, ricorda la simpatia del giovane Beethoven per le marcie e la musica militare di matrice francese. Anche nell'amabile Largo centrale l'esempio della romanza mozartiana riceve un'ambientazione più larga ed esplicita; ma il movimento più personale è il Rondò per la trascinante carica ritmica e per la quantità e l'umorismo degli episodi secondari

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

II primo movimento (Allegro con brio) del Concerto op. 15 è concepito entro un'asciutta attillatura tematica: scale, arpeggi e accordi perfetti dagli spigoli netti e con tutte le strutture in evidenza; il compositore sembra indossare un abito da cerimonia, e da cerimonia un poco militaresca per il carattere di marcia e l'éclat di ottoni e timpani; nella scrittura pianistica colpisce anche il carattere "meccanico", nel senso di meccanismo tecnico alla Muzio Clementi, nei gruppi di note sgranate tutte uguali e negli scambi simmetrici degli stessi passaggi fra la mano destra e la sinistra, come alludendo, non senza un poco d'ironia, a risapute formule di studio o esercizio "per l'uguaglianza delle dita"; tutta haydniana e mozartiana per contro è la strategia tonale, con le improvvise modulazioni che allargano il campo a sorpresa, e lo slancio espressivo di ampie melodie cantabili che riescono a farsi largo. La pagina andrebbe in realtà collegata al primo movimento della Sonata per pianoforte op. 2 n. 3 di cui rappresenta allo stesso tempo un ampliamento e una semplificazione; anzi, si può dire che quel senso di maggiore autonomia, quella sicurezza un poco spavaldina che questo Allegro presenta nei confronti dell'op. 19 composta prima, deriva proprio dal fatto di appoggiarsi alla Sonata op. 2 n. 3; nell'op. 19 Beethoven vuole scrivere un Concerto fatto secondo le regole e degno dei più illustri modelli; nell'op. 15, meno preoccupato della cosa, pesca nel proprio e sembra più interessato al riutilizzo di una concezione compositiva che fa già parte del suo patrimonio.

L'accento intimo, il calore affettuoso di Mozart riappare all'orizzonte nel Largo successivo: aperto subito dal pianoforte con un tema che sembra la trascrizione lenta di una fioritura squisitamente vocale; il modello della "romanza" mozartiana è appena variato in teneri dialoghi ravvicinati, cameristici, fra il solista e i fiati, con spicco particolare dei clarinetti. L'indugio poetico della pagina, conclusa da un pensoso "calando" in pianissimo nei lenti arpeggi del pianoforte, è scompigliato dal sopraggiungere, come saltellando, di un fitto picchiettio: è il primo tema del Rondò, il cui carattere capriccioso è accresciuto e screziato di novità a ogni nuova apparizione. Senza dubbio questo Rondò finale è l'asso nella manica di tutto il Concerto: fra la messe di arguzie e trovate umoristiche, s'intrufola anche un episodio centrale di stampo "turchesco", esibito con spassosa incuranza per le maniere auliche del classicismo.

Giorgio Pestelli

Guida all'ascolto 5 (nota 5)

Nonostante occupi il primo posto nella numerazione dei concerti per pianoforte beethoveniani, il concerto in do maggiore - ultimato nel 1798 - è in realtà la terza opera consimile composta da Beethòven. Dopo un giovanile concerto in mi bemolle del 1784 (negletto dall'autore e edito solo alla fine del secolo scorso), nel catalogo beethoveniano va infatti collocato il concerto in si bemolle, scritto nel 1794 ma pubblicato - come opera 19 nel 1801 - dopo il nostro concerto in do maggiore (considerato evidentemente più meritevole di esser dato alle stampe) e noto quindi come Concerto n. 2. D'altra parte se Beethòven prediligeva l'opera 15 rispetto all'opera 19 pure egli dichiarava all'editore Hoffmeister (lettera del 15 dicembre 1800) la decisione di non destinare immediatamente alla pubblicazione ma di tenere per il proprio personale uso concertistico i "migliori" fra i suoi concerti pianistici - vale a dire in sostanza il concerto in do minore poi pubblicato nel 1804 come n. 3 opera 37.

Non deve certo stupire che, proiettato verso i trasgressivi traguardi del Terzo concerto, Beethoven valutasse con distacco le due opere giovanili che, nella sostanza, ancora si ispiravano al superiore equilibrio del modello mozartiano. Come il fratello opera 19, infatti, il Concerto opera 15 si riallaccia ad una estetica di intrattenimento di matrice pienamente settecentesca, composto dal giovane provinciale con l'intento di soggiogare il pubblico tradizionalista della capitale dell'impero (e quello, più aperto, della fertile Praga) nella doppia veste di compositore e virtuoso "alla moda".

Proprio nella perfetta aderenza ai canoni disimpegnati del gusto viennese vanno ricercate la felicità inventiva e la godibilità d'ascolto del Concerto in do maggiore, che mostra peraltro, rispetto a quello in si bemolle, una maggiore generosità creativa e una maggiore sicurezza nell'affermare l'esuberante personalità dell'autore. Già nell'Allegro con brio iniziale, alla scelta di un materiale tematico di sapore galante e un poco manieristico (con la consueta contrapposizione fra un primo tema ritmicamente pronunciato e un secondo dal carattere più melodico), al rispetto delle regole canoniche nell'alternanza strutturale fra solista e orchestra, si contrappongono le imprevedibili modulazioni (come quelle della presentazione orchestrale del secondo tema), la varietà e l'incisività della strumentazione (che include anche clarinetti, trombe, timpani) e soprattutto il ruolo protagonistico della scrittura pianistica, incline a sforzare la sonorità verso la inedita brillantezza delle scale cromatiche, delle potenti ottave, dei ruvidi abbellimenti. Per questo movimento Beethoven ci ha lasciato due cadenze complete (posteriori però di diversi anni: 1807-1809) non dissimili nel contenuto ma assai diverse per dimensioni: agile e snella l'una, smisurata l'altra e forse ingombrante in relazione alle dimensioni del concerto.

Più convenzionale è iì movimento centrale (Largo, dove tacciono significativamente trombe e timpani, ma anche flauti e oboi), improntato a una levigata "affettuosità" che trova i momenti più felici nei dialoghi del pianoforte con il clarinetto solista. E' nel Rondò finale che ritroviamo tutta l'estrosa fantasia giovanile del compositore. All'aggressività irregolare e scherzosa del refrain rispondono episodi di umorismo popolareggiante (con i gioviali salti della sinistra fra i differenti registri della tastiera) e di sapore selvaggiamente zingaresco; una vitalità trascinante che sfocia nei giochi e intrecci strumentali della coda e in una conclusione ad effetto.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 6 (nota 6)

Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore di Beethoven uscì nel 1801 a Vienna per i tipi dell'editore Mollo. Fu in quell'occasione che ricevette il suo numero d'opera, cioè l'op. 15, così come il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore ebbe il numero d'opera 19, sequenze che però in realtà invertivano il reale ordine cronologico di composizione. Era stato infatti scritto per primo il Concerto in si bemolle in una versione risalente già al 1794-95, e tale stesura era stata in parte abbozzata da circa un decennio, sin dal 1785; in questa versione il Concerto in si bemolle fu eseguito il 29 marzo 1795 e replicato in un'accademia di Haydn il 18 dicembre dello stesso anno, ma poi andò perduto. Solo successivamente fu composto il Concerto in do maggiore, dai primi abbozzi del 1795 sino alla stesura completa, quella del 1798. Il Concerto in si bemolle fu quindi riproposto in una seconda versione, quella «ufficiale» giunta fino a noi e messa alle stampe da Hoffmeister & Kühnel a Lipsia nel 1801.

Comunque sia, i primi due concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven riflettono l'immagine di un compositore non certo alle prime armi: sono sì opere giovanili, ma solo per l'età anagrafica dell'autore; dal punto di vista del valore musicale non rappresentano certo composizioni anonime o di maniera. Beethoven si rifà, naturalmente, alla grande tradizione del concerto per strumento solista e orchestra, ma introduce suoi elementi caratteristici firmando in modo inconfondibile i propri lavori: vi ritroviamo il suo particolare e plastico timbro pianistico, da esecutore virtuoso qual egli era - noto al pubblico viennese per la tecnica solida e granitica -, deliziose quanto improvvise venature di passaggi cangianti e impetuosi, grandi collegamenti modulanti colorati di armonie ardite e inattese, combinazioni ritmiche di icastica efficacia, lo spezzarsi della linea melodica in una serie di arcate irregolari di audace profilo. È il Beethoven che tutti conosciamo, anche se non dimentico dei suoi illustri predecessori.

Ma quali sono i riferimenti stilistici più espliciti? In particolare lo sguardo è rivolto all'eredità lasciatagli dai suoi grandi «maestri», Haydn e Mozart: il giovane Beethoven aveva infatti avuto modo di leggere e conoscere alcune delle loro pagine più significative fissandone alcuni dei tratti fondamentali, mutuandone, anzi, veri e propri «modelli» compositivi. Ad esempio, ritroviamo nei concerti di Beethoven l'abitudine - tipicamente mozartiana - di enunciare il materiale tematico in modo incompleto nell'Esposizione orchestrale, oltre alla scelta di inserire una netta cesura prima dell'entrata del solista (Riesposizione) presentando poi segmenti motivici anche del tutto nuovi; ha tratti ancora mozartiani il fatto di far emergere nella Ripresa elementi ricavati sia dall'Esposizione orchestrale che dalla Riesposizione solistica. Si trattava di vere e proprie «griglie» e regole compositive che, neila tipologia della forma-sonata adottata nel concerto solistico, erano divenute schema noto al pubblico, che quasi automaticamente si aspettava durante l'esecuzione certi passaggi, certi richiami che rendevano l'ascolto più avvincente e interessante.

Nel Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore op. 15 ad esempio, lo si vede già nell'esposizione orchestrale del primo movimento, l'Allegro con brio con quel tema marziale e perentorio deliziosamente introdotto dalle sfumature sonore dei violini, e con il secondo motivo di carattere contrastante e dai toni un po' umbratili, schubertiani: entrambi compariranno di nuovo, ma in modo diverso e in un certo senso «completati» nella parte del solista. Che infatti proporrà, dopo una netta chiusura della prima parte, una riesposizione con un vero e proprio primo tema principale di carattere ben diverso rispetto al motto orchestrale introduttivo: esposto dal solo pianoforte in tono un po' leggero, sbarazzino, tutto giocato su brevi scatti, scalette, corse improvvise, esibendo un gioco virtuosistico di elegante fattura. Durante questa sezione l'orchestra scandirà di nuovo, sopra le volate del pianoforte, il motto introduttivo, ma questa volta con intento ornamentale e funzione articolatoria della forma, non certo per spezzare o frapporsi alla voce principale del pianista. Il secondo tema della riesposizione solistica rappresenta il giusto completamento del suo omologo nell'esposizione orchestrale; ma qui brilla per spirito totalmente nuovo, introdotto da una figurazione in levare, definito da un'idea di particolare grazia e freschezza esposta dall'orchestra e soprattutto rielaborato nella sua seconda arcata fraseologica dall'opera del solista. Di eredità mozartiana è anche la consuetudine al recupero testuale o trasportato del materiale precedente anche non tematico - soprattutto gli interludi orchestrali -, utilizzato in sezioni differenti, «scambiato di posto» nella sua collocazione e con diversa funzione, come ad esempio succede nell'epilogo della Riesposizione, dove riemerge il profilo scanzonato della coda dell'Esposizione orchestrale, qui o alla fine della Ripresa, dove per la terza volta ricompare lo stesso modulo di divertissement dal caratteristico arco melodico ad andamento rotatorio che quindi Beethoven usa quasi come una sorta di «riserva sonora».

Nello Sviluppo altre trovate e accorgimenti sorprendono l'ascoltatore. Il suo inizio risulta assolutamente imprevedibile, poiché, dopo essere stato aperto da un accenno al tema marziale, è subito reso intenso e palpitante da un breve, malinconico inciso dell'oboe. Basta questo per cambiare ex abrupto lo scenario dominante: il pianoforte, come ispirato, si getta in una sorta di frase plastica e preludiante di tipo improvvisativo che suscita altre nuove idee: la linea fluente si addensa ancor più in un calibrato gioco di proposte e richiami, coinvolgendo l'orchestra tutta in un complesso percorso tonale dalle tinte intense e marcate, fatto di ampie ed estese digressioni scalari, di passaggi tecnici del solista, in un clima armonico divenuto più livido e incupito. In pochi passi siamo stati catapultati in un mondo nuovo, passando dall'ambientazione solare e brillante della doppia sezione espositiva alle tensioni e alle complessità anche architettoniche e contrappuntistiche della zona di Sviluppo che è sì tradizionalmente tensiva, ma che Beethoven restituisce qui in modo assolutamente ampliato e carico di drammatismo rispetto alla norma, firmando quindi, in un certo senso, un'interpretazione molto personale, pregnante e carica di significati. Solo la Ripresa riporta all'atmosfera iniziale, con il ritorno del materiale tematico tratto soprattutto dalla riesposizione solistica e con la grande cadenza conclusiva del pianoforte. Si aggiunge solo una perentoria frase finale di perorazione orchestrale, ancora una volta ricavata dalla sigla introduttiva; conduce a compimento il movimento in un clima di travolgente festa corale.

Il tempo di mezzo, il Largo, apre un'oasi di quiete dopo l'agitazione precedente. La delicatezza di tinte, l'iridescenza delle armonie, i tenui e morbidi profili tematici richiamano molto le vellutate Romanze per violino e orchestra op. 40 e op. 50 dello stesso Beethoven, anche se qui solista è il pianoforte. La forma ad arco adottata, la forma Lied (ABA), permette un ricambio ordinato e ciclico dei motivi senza scontri o contrasti, preferendo invece uno stile stabile e uniforme, qui rappresentato dalla scelta di scrivere per strumento pensando alla voce. Si potrebbe dire che un unico grande canto si dipana per l'intero movimento, caratterizzandolo nella sua interezza. Il delizioso tema principale in la bemolle maggiore, espresso all'inizio dal pianoforte, risuonerà infatti più volte, differenziandosi - più che per il calco melodico o la nervatura ritmica - per le sue innumerevoli sfumature timbriche, o la scelta di registro, o il tipo di sostegno armonico. Ad esempio, dopo l'esordio, eccolo tornare nella voce pastosa del clarinetto, adagiato sull'ondulato sostegno degli archi oppure, nella Ripresa, interpretato dal pianoforte come un'ornata aria «col da capo», cesellato da meravigliose figurazioni in abbellimento che lo rendono un autentico, piccolo gioiello; o ancora, sempre nella Ripresa, ribadito dal piano in forma più estesa, allargato a una seconda arcata fraseologica - non ancora comparsa - che ne svela e completa il «senso», costruito sul raffinato accompagnamento armonico dello stesso solista e sull'elegante pizzicato degli archi; poco dopo eccolo di nuovo nel suo «nuovo» secondo segmento riproposto dal clarinetto, infine riemerge nella coda, dove è ancora il clarinetto a riportarne per primo il profilo come squisito ricordo in graduale dissolvenza, iniziando un lento, sfumato intercalare che lo divide in brevi incisi con la voce suadente del pianoforte. Altre idee e motivi si inanellano placidamente nel Largo, ma senza troppo distanziarsi dalla tipologia del tema principale; come la melodia cantabile del pianoforte nella parte centrale, contraddistinta da uno stile abbondantemente fiorito, o la partecipata frase di collegamento della stessa sezione di mezzo, appena venata da corrucciate armonie minori, come si conviene a una sezione sviluppativa, presto cautamente ricondotta alla tonalità di base di la bemolle maggiore.

Il terzo e ultimo tempo è un Rondò, segnato come Allegro scherzando. Lo definisce e lo caratterizza lo spirito libero della danza popolare, dominato dalla verve ritmica e dal vitalismo melodico, soprattutto nel suo tema principale, il refrain di riferimento del rondò. Quest'ultimo è un esuberante motivo rustico di ballo, che con il suo scalpitante ritmo anapestico sconvolge la calma meditazione precedente e introduce nel clima sfrenato ed eccitante di una festa e di giochi all'aperto. Il tema comparirà più volte, inframmezzato all'inserzione di altri motivi corali del gruppo orchestrale, o a episodi solistici secondo il modulo tipico della forma-rondò che alterna il refrain ad altre idee ed episodi. Così è per l'agile episodio del solista, introdotto dal rimbrotto dei fiati in ottava e irrobustito nella conduzione di passaggi eminentemente tecnici, o per il motivo folclorico dell'orchestra, presto ripreso dal pianoforte e poi più avanti riproposto sotto altre vesti tonali, e ancora per il motivo «tzigano», in cui la scrittura pianistica e orchestrale si richiama scopertamente alla gestualità violinistica, ricca di acciaccature e di figurazioni derivanti dalla mobilità dell'arcata. Un altro episodio solistico si prolunga particolarmente esteso a una frase polifonica accordale che funziona da pacato commento all'esibizione tecnica del solista. Tutto scorre velocemente senza interruzioni, solamente «disciplinato» nei punti di snodo formali da brevi frasette dell'orchestra pronunciate in modo incisivo all'unisono o in ottava, quasi a «riprendere» in modo controllato e severo il solista nelle sue scorribande a perdifiato. Nella Ripresa appare nuovamente il materiale tematico espositivo ma, secondo la prassi, è mantenuto nell'area tonale del tono d'impianto, qui in do maggiore, e con l'aggiunta di una grande, solenne frase finale che conduce pomposamente alla cadenza del solista. Dopo questa fà per un attimo capolino il motivo refrain, che sembrerebbe chiudere sbrigativamente tutto. Invece Beethoven, proprio sugli ultimi accordi conclusivi, riapre inaspettatamente il discorso in una nuova sezione di Epilogo. L'inciso in levare del motivo-ritornello viene sottoposto a una serie di delicate elaborazioni, scambiato da uno strumento all'altro, da un gruppo all'altro, con il solista che ordisce una fitta e brillante trama di dialogo con l'orchestra; infine il tessuto orchestrale si riduce di consistenza, la traccia timbrica si attenua dipanando un filo sottile che si spegne lentamente in un cristallino suono di carillon. Un breve, delicato Adagio prepara infine la secca e travolgente chiusura finale (Tempo I).

Marino Mora


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 7 Gennaio 2001
(2) Testo tratto dalla Guida all'ascolto della musica sinfonica di Giacomo Manzoni, Feltrinelli editore, Milano 1976
(3) Testo tratto dal Repertorio di Musica Sinfonica a cura di Pietro Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorium Parco della Musica, 6 Dicembre 2004
(5) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 19 settembre 1987
(6) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 142 della rivista Amadeus

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Ultimo aggiornamento 17 febbraio 2014