Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra in sol maggiore, op. 58


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro moderato
  2. Andante con moto (mi minore)
  3. Rondò. Vivace
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1805 - 1806
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 22 Dicembre 1808
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1808
Dedica: arciduca Rodolfo d'Austria
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Se il Terzo concerto, nonostante le novità della scrittura pianistica, si muove ancora con tutta la sua drammatica veemenza nel solco mozartiano tracciato segnatamente dai Concerti in re minore K 466 e in do minore K 491, il Quarto si addentra in una regione solo in parte esplorata dal Salisburghese con i Concerti K 450, 488 e 595. Composto nel 1805-06 (nel periodo in cui Beethoven lavorava anche alla Quinta sinfonia, al compimento della prima versione del Fidelio, al Concerto per violino), il Concerto in sol maggiore realizza il prodigio di una sonorità pianistica di tipo intimistico, dolcemente luminosa e non brillante, con una frequente valorizzazione del registro acuto dello strumento in funzione cantabile, mentre la natura del rapporto fra solista e orchestra riesce di tono affettuosamente colloquiale, anziché di contrapposizione dialettica. Ma è anche la variegata veste armonica del Quarto concerto, l'abbondanza delle modulazioni, l'ampiezza della gamma espressiva all'interno di una sostanziale unità di tono e la trasparenza dell'orchestrazione che fanno del Concerto in sol maggiore - si legge in un articolo della Allgemeine Musikalische Zeitung del maggio 1809 - «il più ammirevole, il più singolare, il più artistico e difficile di tutti quelli che Beethoven ha scritto».

La breve entrata del solista, che nell'Allegro moderato iniziale precede l'esposizione orchestrale introducendo dolcemente l'antecedente del tema principale col suo caratteristico inciso a note ribattute, è di per se stessa sorprendente. È come il levarsi d'un sipario su un paesaggio sonoro di impronta squisitamente pianistica che, gli archi, ripetendo e completando il tema, prendono a imitare, avviando il discorso musicale all'insegna dell'integrazione fra solo e orchestra. Il ponte modulante estende il tema, così esposto, agli strumenti a fiato e lo innalza con un crescendo, fino ad approdare a un accordo generale di tutta l'orchestra, toccando così un punto di sensibile distensione che segna la fine della zona del primo tema e l'inizio del secondo: un soggetto dalle linee slanciate e un ritmo quasi di marcia che, passando in varie tonalità e non toccando mai quella che si converrebbe a un secondo tema, si direbbe fare ancora parte del ponte modulante. Dal ritorno del caratteristico inciso del tema principale (che ancora una volta porta a un crescendo in direzione di un nuovo punto culminante), un terzo tema ad ampi intervalli fiorisce nei violini in un luminoso modo maggiore. Un episodio conclusivo e un rasserenante ritorno dell'inciso a note ribattute del primo tema chiudono la prima esposizione «chiamando» l'ingresso del solista, il quale, a sipario ormai levato, prende a elaborare virtuoslsticamente la sua stessa introduzione iniziale. Privata del primo tema nella sua interezza, la seconda esposizione risulta più ampia della prima e, rispetto a quella, più ricca d'ornamenti. Un virtuosistico episodio di transizione, anziché condurre diritto al secondo tema, approda infatti a una melodia molto lirica e trasognata in si bemolle maggiore, eseguita dal pianoforte alla mano destra nel registro acuto e accompagnata dalla sinistra nel registro grave, mentre dopo un rapido passaggio del solista, i violini introducono, piano, nel tono della dominante (!), un nuovo tema caratterizzato da una frase legata su un ritmo puntato, rinforzata al centro da un duplice sforzando. Chiusa così l'imprevista parentesi, l'episodio di transizione può quindi riprendere il suo corso e finalmente condurre al secondo tema alla cui esposizione contribuisce ora il pianoforte. Più ampio è anche l'episodio di transizione al terzo tema, in cui l'inciso a note ribattute suona alternativamente in violini e legni, mentre, a slanciare in avanti il discorso musicale in direzione dello sviluppo, il terzo tema suona dapprima limitato alla sola prima frase (enunciata dai legni, quindi prolungata e infine ripetuta dal solista), per poi completarsi nella seconda. Codetta e inciso a note ribattute chiudono la seconda esposizione. Lo sviluppo prende le mosse dal solito inciso che il solista solleva fino a un punto culminante da cui ridiscendere con un disegno in terze e seste discendenti, come per attrazione gravitazionale. Una, due volte su un pedale di fa minore; poi altre due volte, ma da un tono e mezzo più in basso e su un pedale di re minore. E mentre il pianoforte si lancia in ampie e generose volute d'arpeggi, violini e violoncelli ripetono il disegno discendente del solista. Una lunga coda di questo episodio, formata da passaggi brillanti e incisivi del pianoforte nel tono di do diesis minore, approda, dopo un trillo di dominante, a un pianissimo in cui la precedente concitazione si placa in un disegno melodico etereo (sempre in do diesis minore) in cui il solista ripete una semiscala discendente, prima a note semplici, poi con terze della destra, mentre violoncelli e contrabbassi eseguono in pizzicato l'inciso del primo tema. La sezione conclusiva dello sviluppo, intessuta sul medesimo inciso, prepara la ripresa del primo tema, riaffermato dal solista in tono grandioso e continuato delicatamente dall'orchestra. Una cesura lascia sospesi gli episodi collegati al tema principale dando luogo a un nuovo episodio modulante, molto simile alla parentesi lirica già ascoltata in seno alla transizione fra primo e secondo tema nella seconda esposizione. Segue quindi il quarto tema, mentre il resto dell'esposizione si ripete in modo regolare, fino alla cadenza, conseguente alla ripetizione del terzo tema e non di codetta e ritorno dell'inciso a note ribattute che avevano preparato lo sviluppo. La coda riprende il filo del discorso «interrotto» dalla cadenza, ripartendo dal terzo tema per approdare alla ripetizione dell'inciso a note ribattute e su questo chiudere il primo movimento.

All'affettuoso colloquio fra solo e orchestra dell'Allegro moderato, segue il contrasto più violento del secondo movimento, un Andante con moto, nel quale wiederstrebende Prinzip e bittende Prinzip, principio d'opposizione e principio implorante, assumono la più tesa evidenza. Cosi al tema in mi minore pronunciato forte e sempre staccato dall'orchestra, il pianoforte contrappone un'idea cantabile di implorante dolcezza. I due opposti elementi tematici si alternano dapprima con largo respiro, poi a piccoli frammenti, l'uno digradando progressivamente fino a estinguersi, l'altro rafforzando la propria voce con uguale gradualità, per culminare in un canto intensissimo e in una ardita cadenza tonalmente ambivalente. Nella coda l'orchestra torna a far sentire nei bassi, in una dinamica ridottissima, il suo inciso ritmico, mentre il pianoforte rientra con un breve accenno melodico e un delicatissimo arpeggio di chiusa.

L'opposizione fra solo e tutti, così evidente nell'Andante, persiste nel finale dove però il tono generale è quello d'un divertito rondò a una sola strofa. Attaccato pianissimo dagli archi dell'orchestra, il tema di refrain viene subito ripreso dal pianoforte, mentre un violoncello si stacca dal gruppo con una linea melodica indipendente. Identico procedimento subisce la seconda idea cantabile, poi l'orchestra riafferma con energia il tema iniziale. Un brillante episodio di transizione costruito sull'opposizione fra solo e tutti conduce al couplet un tema di serena cantabilità presentato dal pianoforte e subito dopo dall'orchestra in una scrittura di limpida trasparenza polifonica. Collegati fra loro episodi di transizione, refrain e couplet si alternano quindi regolarmente con gli sviluppi e le varianti del caso, fino alla cadenza. La coda con un brusco cambiamento di tempo può quindi portare il concerto a una conclusione sfolgorante sul motivo di testa del tema principale.

Andrea Schenardi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

C'è subito da notare l'innovazione formale rispetto al tradizionale concerto del '700, per cui è il pianoforte solo a iniziare il primo tempo: è un bellissimo tema di intonazione romantica, che viene subito ripreso dalla sola orchestra e condotto fino alla seconda idea. La quale a sua volta, inversamente all'uso normale ha carattere incisivamente ritmico: la successione maschile-femminile dei due temi principali viene dunque capovolta e ne esce una configurazione inattesa, ricca di contrasti le forieradi interessanti sviluppi. Con l'attacco del pianoforte ha inizio fra il solista e l'orchestra un dialogo vario e luminoso, n cui il primo reca un elemento assolutamente individuale con la sua tecnica smagliante e il significativo contrasto con la massa dell'orchestra. Qui "solo" e "tutti" sono ormai equiparati in un corpo unico eppure continuamente differenziato: le basi del concerto moderno per pianoforte e orchestra sono definitivamente gettate.

Per quanto riguarda l'"Andante con moto," esiste una tradizione abbastanza attendibile per cui Beethoven sembra abbia voluto raffigurare nei due temi di questo brano, (quello iniziale dell'orchestra e quello del pianoforte solo) il mito di Orfeo che soggioga le forze dell'Ade con la bellezza del suo canto. È una pagina breve ma succosa e ricca di contrasti, dove lo strumento solista si libra ad inebrianti altezze liriche.

Il "Rondò" conclusivo, infine, è caratterizzato da uno di tipici temi beethoveniani, elastici e propulsivi, che così spesso si incontrano nella sua opera. Lo spirito di danza pervade questo finale, dove il solista può far sfoggio di una bravura sempre intimamente legata a una vera necessità d'espressione.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Dedicato all'arciduca Rodolfo d'Austria, il Concerto in sol maggiore op. 58 fu composto tra il 1805 e la fine del 1806, assieme al Fidelio (prima versione) e alla Quinta Sinfonia: fu eseguito la prima volta, con il compositore al pianoforte, nel marzo 1807 a palazzo Lobkowitz e quindi in pubblico il 22 dicembre 1808 al teatro An der Wien. Tornando al genere concertistico dopo un intervallo di cinque anni, Beethoven rivoluziona i tradizionali rapporti fra solista e orchestra, in particolare muovendo con imprevedibile fantasia lo schema della doppia esposizione (prima da parte dell'orchestra, poi da questa assieme al solista) cara al concerto classico. Nel Quarto Concerto il pianoforte che da solo espone il primo tema, quasi preludiando, ed è ripreso poi dall'orchestra secondo le leggi dello sviluppo tematico fissate una volta per sempre nella Quinta Sinfonia. Ma sotto lo stimolo dello strumento prediletto, il pianoforte, si trovano spunti divergenti che nella logica delle sinfonie non potevano trovare posto, anticipazioni dell'intimismo di uno Schubert, estrapolazioni liriche di schietto segno romantico, lievitazioni poetiche dell'ornamenitazione (scale e trilli): sicché questo primo movimento (Allegro moderato), nel quale non si fa mai uso dei timpani in piena creatività "eroica" e sinfonica, anticipa il clima meno perentorio e più disponibile all'indugio momentaneo dei decenni posteriori. Emblematico invece del Beethoven centrale è l'Andante con moto, un urto frontale tra due mondi incomunicabili: la violenza dell'orchestra (archi soli) e il raccoglimento poetico del pianoforte con il suo andamento da "corale". La tensione quasi traumatica della pagina si dissolve nel finale (Vivace), un Rondò mescolato con la forma sonata di sovrana eleganza, che ribadisce l'originalità di tutto il concerto nel frequente, liberatorio, impiego solistico di strumenti in dialogo con il pianoforte.

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Quasi coevo al Fidelio e alla Quinta Sinfonia, il Quarto Concerto op. 58 maturò tra il 1805 e la fine dell'anno seguente, durante un biennio in cui lo svolgimento creativo di Beethoven è attraversato da un'ondata inventiva di inaudita e violenta fecondità. La prima esecuzione, come era abitudine, avvenne in forma semiprivata, con Beethoven al pianoforte, in un concerto del 1807 in casa del principe Lobkowitz; l'anno successivo, il 22 dicembre, il Quarto Concerto venne presentato in forma pubblica a tutta la Vienna musicale, riunita al Teatro an der Wien per assistere a una gigantesca "accademia" beethoveniana: oltre al Concerto pianistico, il programma presentava infatti la Quinta e la Sesta Sinfonia, la Fantasia op. 80 e alcuni brani della Messa in do maggiore op. 86.

Fra i cinque Concerti per pianoforte e orchestra, il Quarto è quello certamente più lontano dalla tradizione di questa forma: già il Terzo in do minore afferma una dimensione espressiva nuova, ma c'è maggiore distacco fra il Terzo e il Quarto Concerto dello stesso Beethoven che non tra il Terzo Concerto e quello in do minore di Mozart K. 491. L'"Allgemeine Musikalische Zeitung" del 17 maggio 1809 parlava della composizione di Beethoven «più straordinaria, personale, elaborata e difficile» fra tutte quelle che impegnavano uno strumento solista; e l'autorevole Rochlitz, ancora un decennio più tardi, scriveva: «questa poco conosciuta composizione, è in realtà una delle più originali e, in particolare nei due primi movimenti, delle più eccellenti e ricche di spirito di questo Maestro»; è probabile che codesta insistenza sull'"originalità" sia in gran parte da attribuire al celebre esordio, in cui il pianoforte, quasi improvvisando a sipario chiuso, espone da solo quel primo tema che pervade tutto il movimento con una serie inesaurìbile di implicazioni e variazioni. Anche nel Concerto K. 271 di Mozart il pianoforte scende subito in campo in dialogo con l'orchestra; e anche nel Quinto Concerto Beethoven introduce il pianoforte nelle prime battute, ma in un contesto cadenzante, non tematico; la soluzione del Quarto Concerto fa invece capo alla tradizione dello stile improvvisatorio: la vera esposizione incominciando alla battuta 14, si può considerare quanto avviene alla stregua di una fantasia preludiante ancorché tematica; si può anche pensare alla Fantasia op. 80 che nel concerto del 22 dicembre 1808 Beethoven al pianoforte aveva presentato non con l'attuale Adagio d'apertura, scritto in occasione della stampa, ma con una libera improvvisazione.

Di una originalità inaudita si può parlare anche a proposito dell'Andante con moto per l'essenzialità paradigmatica con cui la poetica del conflitto è rappresentata nel contrasto fra il solista e l'orchestra: questa resa aggressiva dal terreo colore della frase ritmica degli archi, quello raccolto in una pura frase di corale, attutita dalla sonorità "una corda" in una luce di ansiosa ma intima preghiera; anche la soluzione del conflitto è originale rispetto ad altri luoghi beethoveniani, perché questa volta è il "principio supplichevole" che vince, quando il sinistro monito dell'orchestra poco per volta si affievolisce: come il coro delle furie, placate dal canto di un nuovo Orfeo, che si chinano per lasciare il passo. L'uscita è nel Rondò finale, pagina che corre su piedi leggeri, nella quale la visione interiore è confermata dall'uso intenso di strumenti solisti (i legni sopra tutti) che specie negli ultimi episodi conversano con il pianoforte secondo un rapporto che, ancora una volta, era più tipico della musica da camera che delle vaste forme concertanti.

L'originalità che tanto aveva impressionato i contemporanei, per il pubblico moderno passa ormai in secondo piano rispetto al miracolo perenne del tono poetico generale dell'opera; gli stessi spunti tematici delle opere gemelle (le analogie con la Quinta Sinfonia e con l'aria di Leonora nel Fidelio sono state più volte segnalate) si stemperano in una luce del tutto nuova: sotto lo stimolo dello strumento prediletto, il pianoforte, si scoprono regioni che nelle Sinfonie non potevano trovare posto, aperture all'intimismo più segreto, quasi preschubertiano, irregolarità di scansione ritmica, preziosità armoniche che ancora non si erano sentite in questi primi anni del secolo; anche gli elementi più tecnici, come le scale o i "passaggi" che il pianoforte libera in misura inconsueta, si trasfigurano in elementi poetici; su tutto vapora una nobile dolcezza che è il rovescio della medaglia del Beethoven titanico ed eroico; ma non meno pregnante, e non meno stimolatore di un avvenire musicale che si chiamerà Schubert, Schumann e Brahms.

Giorgio Pestelli

Guida all'ascolto 5 (nota 5)

Il concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore n. 4 op. 58 fu composto tra il 1805 e il 1806, rivisto nel marzo 1807 e stampato a Vienna nel 1808. Beethoven lo eseguì il 22 dicembre 1808 e fu l'ultimo concerto in cui si esibì come solista al pianoforte; il successo che arrise alle sue sinfonie e le ottime vendite della sua musica gli permisero di evitare per il futuro tali esibizioni pubbliche. Egli andava infatti raccogliendo i frutti di anni di lavoro intenso e proficuo, in cui grandi opere come le Sinfonie n. 4 e n. 5, le Sonate op. 53 ("Aurora") e op. 57 ("Appassionata"), il Concerto per violino e orchestra, i Quartetti op. 59, si erano sovrapposte e giungevano a conclusione. Nata nell'intensa creatività di questo periodo, in cui il compositore lavora molto sulle forme dei generi musicali e sulla loro organizzazione interna, la partitura del Concerto op. 58 ha caratteristiche che la differenziano molto da quella del concerto precedente: se nel n. 3 si avvertono le tracce di una mutazione marcata del gusto musicale, il concerto n. 4 è un'oasi stilistica assolutamente originale in cui il nuovo si acquieta nella serenità e nell'intima logica del capolavoro. L'inizio, con gesto formale assai innovativo, vede il pianoforte entrare solitario con un tema dalla strana melodia, caratterizzato da suoni ribattuti, il cui impulso sembra aspirare contemporaneamente all'immobilismo e al movimento. Subito dopo la sua comparsa, l'orchestra lo richiama gettandovi la luce più calda degli archi. Lo si ascolti: ha qualcosa di compiuto e, allo stesso tempo, di interrogativo. Grazie a questo esordio, il cammino del brano, più che un percorso lineare, sembra composto dalle immagini di un caleidoscopio, in cui la figura fondamentale è sempre costituita da quel tema iniziale. L'abbondanza tematica riscontrabile nei passi modulanti e lo stesso secondo tema non riescono ad avere un simile potere di attrazione. La loro comparsa è ottimamente preparata, stupenda la fattura, ma la loro presenza è breve e passeggera. Al pianoforte è riservato un virtuosismo di grande eleganza, che disegna figure aeree, elabora il materiale melodico fiorendone il contenuto, ma anch'esso sembra non fermarsi mai in qualche punto preciso, in una zona tematica definita. Scale cromatiche, arpeggi, doppie note e terzine in gran quantità, trilli; c'è poco da tenere a memoria. Quella che Beethoven riesce a creare è un'atmosfera dove la materia musicale riproduce ciò che abbiamo detto per il primo tema: tutto sembra possedere movimento e, allo stesso tempo, pare essere sospeso in una dimensione assoluta, speculativa. E in effetti la grande modernità di Beethoven è proprio nell'aver saputo anticipare, non in singoli momenti di un brano ma in brani interi, elementi caratteristici della musica che verrà prodotta nel Novecento.

In ogni modo, se in quest'Allegro moderato iniziale gioco e sentimento si combinano magistralmente in nome di una tradizione concertistica rinnovata ma presente, nell'andante con moto seguente si manifesta più chiaramente quell'aria misteriosa, dal connotato affettivo poco chiaro, presente in forma latente nel brano che lo precede. E' una specie di recitativo astratto, caratterizzato da un ritmo di marcia indefinito, a cui segue la risposta del pianoforte. C'è da sottolineare subito che in questo breve brano il solista e l'orchestra non suonano mai insieme. L'uno risponde all'altra disegnando però un tutto unico, integrandosi senza mai opporsi; di comune accordo disegnano un arco espressivo che sarebbe stato inconcepibile se le due parti avessero proceduto accoppiate. Sembra un dialogo a due verso un'entità assente o invisibile. All'origine del brano c'è un impulso intellettuale più che affettivo, e tuttavia, il risultato apre la strada a una nuova sensibilità, che sembra tentare anche corrispondenze sperimentali tra immagine musicale e gesto, intendendo per gesto un atteggiamento, come dire, di cosciente recitazione del contesto sonoro che mira a un risultato espressivo radicalmente nuovo, estraneo ai mezzi tradizionali. Inutile ribadire ancora quanto tutto ciò sia stato, per la creatività contemporanea, elemento di grande importanza.

Il Rondò seguente porta un'indicazione agogica estremamente appropriata: vivace. Il tema iniziale, brillante e leggero, introdotto, contrariamente all'uso, dall'orchestra, è ripreso subito dal solista con un elegante portamento danzante. Lo segue un tema dal lirismo conciso, anch'esso esposto dall'orchestra e ripreso dal pianoforte. In alcuni momenti seguenti, il solista si inserisce solo per un attimo all'interno della tessitura orchestrale, come facendo capolino in una parte non sua; una maniera nuova, di far interagire i due protagonisti, oltre a quella dell'opposizione e della fusione. Il modo in cui il pianoforte si amalgama con il tessuto orchestrale del brano è simile a quello che caratterizzava il primo tempo ed è reso possibile da una simile utilizzazione della tecnica pianistica: terzine, flussi di quartine, arpeggi, scale cromatiche, melodie dal ritmo sperimentale. Ma in questo rondò finale Beethoven riesce a dare al tutto uno magnifico impulso motorio, costante, omogeneo e accattivante. Anche qui, come nel primo tempo, il disegno musicale procede a grandi arcate sonore che partono dal basso e vi ritornano, ma in questo ultimo pezzo tutto prosegue avanti con ferma decisione, mentre nell'altro sono presenti oasi di staticità contemplativa più ampie.

Nella sicurezza dell'intenzione espressiva è la differenza fondamentale fra i due concerti: il n. 3 esprime il bisogno di spingere e superare, il n. 4 procede spedito, ma con la calma di chi sa precisamente dove andare e come arrivarci. In più la tecnica pianistica del n. 3 possiede un ritmo chiaramente scandito, è caratterizzata da sforzati, da intrusioni improvvise; nel n. 4 è invece assai fluida, ricca di arpeggi e di novità timbriche ottimamente sposate al loro ritmo. Se il n. 3 si caratterizza per la sua natura frazionata in sezioni espressive, il n. 4 ha qualcosa di estatico e trasfigurato, possiede una natura affettiva compatta e omogenea. Ma Beethoven aprirà, nel concerto successivo, il n. 5, ancora nuovi e diversi orizzonti al genere. Questa diversità, fra concerti dedicati allo stesso strumento, fra le sinfonie, le sonate per pianoforte, è paradossalmente l'unico elemento tipico di Beethoven, compositore che riesce a non ripetersi mai e a non percorrere due volte lo stesso sentiero formale.

Simone Ciolfi


(1) Testo tratto dal libretto allegato al CD AM 083-2 allegato alla rivista Amadeus
(2) Testo tratto dalla Guida all'ascolto della musica sinfonica di Giacomo Manzoni, Feltrinelli editore, Milano 1976
(3) Testo tratto dal Repertorio di Musica Sinfonica a cura di Pietro Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(4) Testo tratto dal dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 21 Ottobre 2001
(5) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 12 febbraio 2004

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Ultimo aggiornamento 24 maggio 2013