Quartetto per archi n. 15 in la minore, op. 132


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Assai sostenuto. Allegro
  2. Allegro ma non tanto (la maggiore)
  3. Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico. Molto Adagio
  4. Alla marcia, assai vivace (la maggiore)
  5. Allegro appassionato
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: 1825
Prima esecuzione: Vienna, Fürst-Theater im Prater, 9 Settembre 1825
Edizione: Schlesinger, Berlino 1827
Dedica: Principe Nikolas Galitzin
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

I due Quartetti presentati nel concerto odierno appartengono all'ultimo periodo della produzione beethoveniana e vengono classificati come "opere tarde", un concetto non privo di fraintendimenti. Gli studiosi, infatti, non sono concordi nell'analisi, e se alcuni parlano di estrema soggettività (evidente nell'enfasi lirica di molti temi), altri riscontrano un ripiegamento nell'oggettività, caratterizzato dal ricorso a sofisticate tecniche polifoniche e contrappuntistiche. Con estrema lucidità, Dahlhaus afferma che «la modernità delle opere tarde, correlato dell'assenza di una collocazione precisa nel tempo, è anticipatrice. Ma esse non fondano una tradizione, di cui sarebbero i primi documenti, e non mettono in moto un progresso nel senso comune del termine. La loro influenza [...] ha invece inizio dopo un intervallo che separa l'epoca della loro nascita da quella della loro appropriazione. [...] E la modernità dell'"opera tarda" non consiste nel fatto che anticipa un pezzo di futuro: la modernità di Bach, Beethoven e Liszt è stata scoperta solo dopo che il futuro che essa anticipava era divenuto da tempo presente». L'ambivalenza, il ricorso a strutture non più evidenti, l'indeterminatezza dei riferimenti melodici, la «spezzettatura rapsodica della superficie» sono dunque le caratteristiche precipue dell'ultima produzione di Beethoven. La successione delle idee, dei temi, delle armonie, segue un filo narrativo diverso rispetto al passato: si ha l'impressione più di un percorso psicologico che non di una "forma" così come ce l'ha consegnata la storia. «Il compositore ci fa partecipi dell'atto creativo; ci introduce nel laboratorio delle sue idee» (Sciarrino) e la nostra adesione, come ascoltatori, dovrà essere dunque diversa, attenta ma soprattutto libera da schemi formali e di giudizio, così da lasciar irrompere la musica così com'è, viva, cangiante, emozionante.

Circa dodici anni separano il Quartetto op. 95 dall'ultima produzione per archi (le opere 127, 132, 130 - da cui poi ebbe origine la Grande fuga op. 133 - 131 e 135), e lo stimolo fu esterno. Il principe Nikolas Galitzin (un violoncellista dilettante, ammiratore di Beethoven), in una lettera del novembre 1822 da Pietroburgo, chiedeva infatti al compositore se avesse voluto scrivere «uno, due o tre nuovi quartetti». Questi furono composti nell'arco di tre anni secondo un ordine diverso rispetto a quello con cui sarebbero poi stati pubblicati:

quartetto anno di composizione pubblicazione
op. 127 tra il 1822 e il 1825 marzo 1826
op. 132 tra il 1824 e il luglio 1825 settembre 1827
op. 130 agosto-novembre 1825 maggio 1827

Se dunque il rinnovato impegno nel campo della musica da camera fu apparentemente casuale, con l'op. 127 si aprì una stagione nuova e fondamentale nella produzione di Beethoven che ha consegnato alla storia un patrimonio artistico così nevralgico da divenire il "sole" del nostro sistema musicale. Come notava Jorge Luis Borges, del resto, «ogni artista crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro».

Il Quartetto in la minore op. 132 fu composto nella primavera del 1825, dopo una lunga malattia, e la nota autografa scritta in apertura del terzo movimento («Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico»), ha autorizzato ad interpretare l'intero Quartetto come una sorta di percorso, dal dolore della malattia alla felicità della guarigione, quasi una descrizione della condizione di sofferenza e di malinconia del malato, della sua convalescenza, dell'espressione di gratitudine a Dio, fino alla rinascita. Questa interpretazione nasconde però la difficoltà di analizzare un quartetto complesso, nel quale la successione dei temi, dei movimenti, delle armonie sembra aver perduto ogni punto di riferimento. Beethoven persegue una meta, precisa (senza la quale la musica perderebbe di senso) ma è il centro che è andato smarrito e con esso vanificate le nostre aspettative di ascoltatori, costretti allora ad inventarci percorsi extramusicali (la descrizione della malattia) per dar senso a qualcosa che non possiamo comprendere fino in fondo.

Nel primo movimento sono molti gli elementi che si giustappongono senza apparente relazione. In particolare è straordinaria la mutevolezza dei tempi: il compositore alterna sovente Allegro e Adagio, ma spesso scrive note lunghe per rallentare le sezioni veloci creando così delle zone cariche di tensione il cui esito è imprevedibile. Anche sul piano delle dinamiche Beethoven preferisce le separazioni nette (dal  fortissimo al pianissimo) piuttosto che le sfumature, accentuando così il senso di «spezzettatura rapsodica della superficie» che ricordavamo all'inizio.

Nel secondo movimento (uno Scherzo in la maggiore) sembra di ritornare ad una scrittura più distesa, cui contribuisce in modo determinante la sezione centrale (Trio), di carattere pastorale, dove Beethoven ricorre ad un espediente tecnico che trasforma il primo violino in una sorta di cornamusa.

Come si è detto, il terzo movimento reca l'annotazione «Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico», nella quale il modo lidico sta ad indicare la tonalità di fa maggiore ma senza il si bemolle. Lo scopo era quello di lavorare con una tonalità fluttuante tra do maggiore e fa maggiore per creare una vasta zona di indeterminatezza che conferisse un'atmosfera di sospensione, di non-risoluzione. Nel 1823 era stata terminala la Missa Solemnis op. 123 e Beethoven aveva approfondito lo studio dei modi liturgici attraverso la musica del Cinquecento (soprattutto Palestrina). Se questo può spiegare in parte la scelta armonico-tonale, sembra che il compositore abbia voluto dar voce, con l'assenza di riferimenti certi, al repentino mutare dei sentimenti. Si intrecciano e si alternano infatti due parti: Molto adagio (Canzona di ringraziamento...) e Andante (Sentendo nuova forza), che sono come accenti di stupore, di commozione, veri e propri moti dell'anima alla quale Beethoven si richiama quando, nell'ultima parte del movimento, scrive, «con intimissimo sentimento».

Segue una breve Marcia che ha lo scopo evidente di riportare il Quartetto su binari più consueti, nel tentativo di "normalizzare" l'eccezionaiità del movimento precedente e di preparare, attraverso un recitativo (sviluppato dal violino primo), l'ingresso dell'Allegro appassionato conclusivo. Questo rientra nei più tradizionali canoni del Rondò, con un ritornello che rassomiglia ad un appassionato valzer al quale si alternano motivi di canzone. Anche nella Coda Beethoven prosegue il gioco delle trasformazioni, accelerando a dismisura la velocità del tema (esposto in una zona acuta del violoncello) e tramutando la tonalità da la minore a la maggiore, un passaggio carico di conseguenze se si considera che l'ultima emozione per l'ascoltatore è, appunto, quella che lascia il congedo.

Fabrizio Scipioni

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

In cinque movimenti si articola il Quartetto in la minore opera 132; ma non è solo per questa inconsueta articolazione che questa partitura si allontana dai tradizionali principi costruttivi. Il Quartetto si apre con un tempo di grande complessità, a proposito del quale sono state avanzate varie analisi, anche assai divergenti fra loro. Formalmente ci si trova di fronte a uno schema interpretabile anche come una forma sonata, comprensiva di esposizione bitematica, sezione di sviluppo, riesposizione e coda; ma la dialettica della forma sonata viene completamente trascesa in favore di un nuovo principio costruttivo, quello della giustapposizione di diverse idee, che scivolano l'una dentro l'altra senza una vera opposizione. Troviamo così una introduzione lenta («Assai sostenuto») in cui appare un "motto" di quattro note (sol diesis, la, fa, mi, destinato poi ad essere trattato contrappuntisticamente), un «Allegro» con una sorta di lamentoso motivo di marcia e un secondo tema dalla tenera cantabilità schubertiana; protagonista del breve sviluppo è il tema «lamentoso»; al termine della riesposizione la coda riserva la sorpresa di essere strutturata come una nuova riesposizione, il che contribuisce una logica circolare al patetismo proprio dell'intero movimento. In seconda posizione, l'«Allegro ma non tanto» è una sorta di scherzo lento, costruito tutto sul tema discendente presentato dai violini, ed elaborato in aerei intrecci; il trio richiama pastorali melodie di cornamuse.

Segue poi il tempo principale del Quartetto, il «Molto adagio» che reca l'intestazione «Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico» (ma la lezione tedesca recita più sottilmente «Heiliger Dankgesang», ossia «Canto sacro di ringraziamento»); e proprio questa intestazione - che pure non è illecito mettere in relazione con un fatto privato del compositore, il superamento di una crisi della sua malattia - ha stimolato fuorvianti interpretazioni biografiche dell'intero Quartetto. In termini musicali la «canzona» riflette gli studi di Beethoven sulla musica liturgica di Palestrina (per l'impostazione "modale", ossia l'ambientazione in fa maggiore, col si naturale invece del regolare si bemolle); e allude inoltre a un passo della recente Missa solemnis: la transizione dall'«Et incarnatus» all'«Et homo factus est», che si riflette nei due momenti basilari della pagina, l'iniziale «Molto adagio», una sorta di innodia polifonica, e il seguente «Andante. Sentendo nuova forza», con i trilli coloristici e gli intrecci serrati dei due violini. Il tutto calato in uno schema A-B-A-B-A in cui ogni ripresa si accresce di nuovi dettagli espressivi e nuove elaborazioni, portando l'intero movimento a qualificarsi come uno dei culmini dell'arte contemplativa beethoveniana. Più dimessi e snelli gli ultimi due tempi. Una breve Marcia, chiusa da un recitativo strumentale di transizione, conduce al finale. Questo «Allegro appassionato» è un rondò con un refrain dalle sembianze di valse triste, che sfocia poi in una luminosa e serratissima coda in maggiore, in cui si riversa con valenza liberatoria l'estrema tensione dell'intero quartetto.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Dal 1810, data d'apparizione del quartetto «serioso», in fa minore op. 95, Beethoven non era più tornato a questa forma quadripartita di composizione dal suo genio cosi potentemente marcata. È stata affacciata, da alcuni critici, l'ipotesi che sui quattordici anni di astensione dal comporre quartetti (tale è, in effetti, l'arco di tempo intercorrente tra il 1810 e il 1824 anno di composizione del quartetto in mi bemolle op. 127) abbia potuto, materialmente, influire l'assenza da Vienna del primo violino del «quartetto Rasumowsky» trasferitosi in Russia fin dal 1816. Schuppanzigh, in effetti, ritornerà nella capitale austriaca solamente nel 1823, ricomponendo il famoso complesso che il 6 marzo 1825, tenendo a battesimo l'op. 127, sottolineerà il riaccostamento del maestro al sopraccennato genere musicale. Tale riaccostamento darà vita, oltre al suddetto, ad altri quattro quartetti (tredicesimo in si bemolle op. 130; quindicesimo in la minore op. 132; quattordicesimo, in do diesis minore op. 132 e sedicesimo, in fa maggiore op. 135). Sono questi gli ultimi cinque quartetti che segnano l'apice della forma strumentale più astratta, riaffermando la predilezione di Beethoven per una musica dall'essenza pura e trascendentale, che si doveva rivelare il tramite più efficacemente idoneo a fenomenizzare, quasi al crepuscolo dell'esistenza, il suo mondo interiore in cui levitavano già intuizioni e preavvertimenti di un universo totalmente estraniato da ogni vicenda terrena. Ogni armamentario estetico o dottrinale si rivela povero ed insufficiente di fronte a una musica che abbia attinto tali vette. All'ascoltatore non resta altro — come è stato detto — che una «religiosa adorazione», costituendo gli ultimi cinque quartetti quasi «l'ultima cena» del maestro, come dice H. Bourgerel. Il quartetto in la minore op. 132 è cronologicamente il secondo dei tre quartetti (op. 127 op. 130, op. 132), dedicati al principe Galitzin.

Nell'aprile 1825 il maestro fu afflitto da una malattia che l'inchiodò per più settimane a letto. È evidente che l'indicazione apposta da Beethoven al terzo tempo del quartetto, «Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico», è indice di un appiglio biografico con la composizione del quartetto, ma, com'è stato notato, il valore della famosa pagina trascende il dato puramente clinico, sconfinando in zone di atmosfera più sublime e eterea, ove balugina un raggio del remoto e arcano «mondo dei fini» kantiano. Un corto esordio di otto battute, «Assai sostenuto», pervaso da calma concentrata, geme gravemente sul violoncello, si dilata al primo violino in lente stratificazioni, e approda all'«Allegro» che rompe in uno zampillo di semicrome inaspettatamente connesso a una frase pacatamente dolorosa del violoncello, nel registro acuto, che sembra rimontare da remote profondità. Il motivo sembra animato, all'inizio, da forza espansiva ma una prepotente propulsione discensiva degli strumenti fratelli lo comprime brutalmente. Dopo un tessuto fitto di sonorità di transizione sui quattro strumenti, risultante da una serie di imitazioni, emerge «dolce» e poi «teneramente» il secondo tema sul secondo violino, che sembra animato da distensiva pacatezza annientata, però, dall'inquieto accompagnamento sugli altri strumenti. La sezione espositiva del tempo termina in una successione di sonorità sempre più inquiete nascenti dall'alternanza di vigorosi «sforzati» e d'improvvise raggelazioni di calma in «piano» e di brevi abbozzi di melodia dolorante. Il breve sviluppo è fondato sul primo tema triste e accorato, mentre la ripresa, pur basandosi fondamentalmente sul primo tema, è assoggettata a una serie di modificazioni sui quattro strumenti, che ne tramutano l'aspetto originario. Dopo una terza esposizione, o riepilogo sintetico che dir si voglia, il tempo è concluso da una coda, la cui sostanza è alimentata da briciole sonore dei due tempi fondamentali. Il secondo tempo, «Allegro ma non troppo», è messo in moto da una figura in cui gli strumenti suonano all'unisono con un motivo in cui si percepisce un conato di serenità o, almeno, disincanto, di cui sarebbe un indice il mosso ritmo di danza. La continua circolarità del motivo, gli avvicendamenti tonali a cui esso soggiace, nel corso dello sviluppo, sono la spia di una febbrile ricerca di equilibrio che non riesce ad adagiarsi nell'imperturbabile calma della stasi soddisfatta. Un raffiorare, invece, di energia vitale e un riflusso di linfa energetica e di brio spensierato s'irradiano dal trio in cui l'effetto di «Musette», con le sue risonanze silvane, ripropone l'amore quasi «viscerale» di Beethoven per la natura nel cui seno i suoi tumulti e le sue angosce, dissolvendosi si tacitavano. L'aria di Länder e il motivo di «musette» si alternano interrotte improvvisamente da uno spavaldo e rude risonare di tonalità basse, ma è questione di un momento, poiché il motivo fondamentale rifluisce subito dopo e si allenta in vanienti cadenze in pianissimo. La riproposizione integrale della prima parte chiude il tempo.

Il terzo tempo, «Molto adagio» è costituito dalla «canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito in modo lidico». Beethoven vide nel modo lidico (che è poi ipolidico) una tonalità dal carattere liturgico e dall'accento propiziatorio che bene si prestava all'effusione di grazie del suo animo riconoscente a Dio per la guarigione ottenuta. Il tema si espande in un corale che a modo di «canto fermo» gregoriano si ripercuote sui quattro strumenti distillando nell'ascoltatore, col suo onnipresente risuonare (intatto o variato) la sensazione di un cantico dalla voce arcana e primeva in cui passa qualcosa del fluido indefinibile ed esoterico che lega l'orante, tramite appunto la preghiera, a Dio. Alla religiosità del corale Beethoven oppone una seconda idea (Andante), contrassegnata dall'indicazione «sentendo nuova forza», dal ritmo più animato e più veloce, spesso sbriciolato in fitti trilli e che, con questi stessi accorgimenti fonici suggerisce l'impressione d'una rinascita di forza energetica e di volontà di reinserirsi del malato nel pieno circolo vitale. Lo sviluppo è fondato sulle due idee e il tempo si conclude in un'atmosfera di assorta concentrazione.

Il quarto tempo «Alla marcia: assai vivace», come suggerisce la stessa indicazione, è costituito da un tempo di marcia rapido e vigorosamente ritmato. Sul sostegno delle ultime battute il primo violino scatta improvvisamente, sostenuto dagli accordi degli altri strumenti, e poi da solo evolve con una parabola progressiva in cui trapassano sentimenti ora improntati ad impeto di speranza, ora a mesto indugio e ora a calmo raccoglimento. Sulla trama di cullanti accordi il primo violino da l'abbrivio, quindi, all'ultimo tempo, «Allegro appassionato», con un motivo di danza che, tuttavia, trasuda malinconia ed incertezza. Si ha l'impressione, a questo momento, analoga a quella suscitata dai passi di una danzatrice che, iniziato il primo moto senza trasporto, vada, istintivamente e gradualmente allentando il ritmo per mancanza di entusiasmo. Il ritmo è fluido ed ondulato, ma — dice lo Chantavoine — la melodia del modo minore resta triste fino alla morte» finché l'energia travolgente del dinamismo beethoveniano non ha il sopravvento, spazzando malinconie ed esitazioni, esattamente come un soffio gagliardo di vento cui nulla può resistere.

Vincenzo De Rito


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 24 Maggio 1996
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 20 gennaio 1994
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 9 giugno 1976

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Ultimo aggiornamento 10 aprile 2019