Quartetto per archi n. 5 in la maggiore, op. 18 n. 5


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro
  2. Minuetto
  3. Andante cantabile con variazioni (re maggiore)
  4. Allegro
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: 1798 - 1800
Edizione: Mollo, Vienna 1801
Dedica: Principe Franz Joseph Maximilian von Lobkowitz
Guida all'ascolto (nota 1)

Il Quartetto in la maggiore occupa una posizione di rilievo per due ordini di motivi: primo perché è parte di un corpus (i sei Quartetti dell'op. 18) e va letto in quanto tale, secondo per le relazioni che intercorrono tra quest'opera e la produzione coeva. Tra la fine del Settecento ed i primissimi anni dell'Ottocento, infatti, la composizione di quartetti a Vienna si era molto intensificata: ricordiamo, solo a titolo di esempio, la produzione di Mozart con i sei Quartetti dedicati ad Haydn (1785) ed i seguenti, nonché le opere 71, 74 e 76 dello stesso Haydn, successivi al lavoro di Beethoven sui primi quartetti (l'opera 77, addirittura, fu pubblicata l'anno dopo l'op. 18 di Beethoven). Anche se i quartetti di Haydn e Mozart avevano stabilito uno standard verso cui solo pochi musicisti potevano spingersi, il quartetto era divenuto un genere al quale ogni compositore doveva pagare il proprio tributo se voleva essere considerato nel mondo di allora. Le norme stabilite dai quartetti di Haydn si possono così riassumere:

a) trattamento dei quattro strumenti come personalità individuali secondo l'indicazione di Goethe che vedeva nel quartetto d'archi «un discorso tra persone ragionevoli».
b) Una struttura formale basata sulla successione di quattro movimenti, ognuno con delle precise caratteristiche: formali e motiviche per il primo, emozionalmente profonde nel tempo lento (di solito il secondo), movimento di danza stilizzato per il terzo (lo Scherzo), mentre il finale serviva come controparte del primo nello sviluppare le tensioni e nel risolverle.
c) Singoli movimenti caratterizzati da regole cristallizzate: forma-sonata per il primo, forma-sonata o sonata-rondò per l'ultimo, canzone o tema con variazioni per il movimento lento, forma ternaria (ABA, combinata con elementi di sonata) per il Minuetto o Scherzo.

Una convenzione era anche quella di pubblicare un'opera comprendente sei quartetti con varie caratteristiche: il più importante, da un punto di vista formale e di contenuti, doveva stare all'inizio, al centro era "ben visto" un lavoro in tonalità minore, e per concludere una pagina luminosa. Tutti questi elementi facevano sì che, all'inizio dell'Ottocento, il quartetto venisse considerato la forma più significativa di musica strumentale, un genere di alto valore intellettuale e spirituale ma accessibile anche a vari livelli. Erano gli anni in cui una serie di giovani compositori (come Eybler, Fraenzil, Pleyel ed altri) esordivano nel mondo della musica con l'opera prima, un gruppo di sei quartetti appunto; Beethoven, invece, attese un certo lasso di tempo prima di presentarsi al pubblico con il quartetto. Aveva pianificato il suo successo professionale con molta accortezza, facendosi conoscere prima come pianista e compositore per pianoforte e improvvisatore, poi con musica da camera col pianoforte (i Trii op. 1) e poi i Trii per archi op. 9 che, in quest'ottica, possono essere anche letti come una sorta di studio preliminare ai Quartetti op. 18. Questi ultimi sembrano essere stati commissionati dal principe Lobkowitz che compare come dedicatario, e composti in un arco di tempo che va dall'estate del 1798 all'estate del 1800; furono pubblicati secondo un ordine diverso da quello di composizione perché, trattandosi del suo "biglietto da visita" per la società viennese, Beethovcn volle rispettare tutti i canoni imposti a questo genere. Così il più "moderno" (quello in fa maggiore) divenne il primo, quello in do minore (l'unico in tonalità minore) venne posto al centro, e così via. Quello dei sei Quartetti era un progetto molto ambizioso che il compositore persegui con tenacia segnando i primi confini con i predecessori; Beethoven manipolava uno spettro di possibilità molto ampio che va dal movimento iniziale del primo Quartetto (il primo studio esaustivo sulla saturazione motivica), all'ultimo movimento del sesto (che definiremmo "visionario" se non conoscessimo gli esiti di questo genere), dimostrando di aver raggiunto un punto di svolta nella storia dei quattro archi e forse anche dello stesso classicismo viennese.

Il Quartetto n. 5 è, in questo senso, la dimostrazione dell'intreccio tra il pensiero quartettistico dei tre Viennesi; è modellato sul Quartetto in la maggiore K. 464 di Mozart (come emerge soprattutto nell'Andante e nel Finale) e contiene espliciti riferimenti all'op. 74 n. 2 di Haydn (specie nel Minuetto). All'aprirsi del primo movimento il compositore ci offre subito un esempio probante di quel talento che Dahlhaus definisce «combinatorio», ovvero il «senso nel collegamento motivico di introduzione e tema». Alla battuta 4 (e alla corrispondcnic 8) ascoltiamo quello che risulta dalla somma delle prime tre battute che servono da introduzione e che ci permettono così di apprezzare ancora di più il tema, altrimenti una semplice e comune scala di sei note. Seguendo i topoi delle composizioni dell'epoca l'Allegro si muove tra il registro pastorale (ricordiamo che il tempo è 6/8) e quello della musica da caccia (prendendo ad esempio appunto lo Jagdquartett K. 458 di Mozart). Il primo violino è costantemente presente e conduce il gioco rilanciando di volta in volta agli altri compagni lo spunto tematico, il passo virtuoslstico o il nuovo elemento che altro non è se non il risultato "combinatorio" di primo e secondo tema.

Su un tessuto che privilegia la coincidenza di due strumenti alla volta, nel Minuetto la viola si ritaglia una posizione speciale con un ampio passo cantabile nonché un'ardita modulazione proprio al centro del movimento; si sottolinea così la pregnanza timbrica di uno strumento che solitamente non trova spazio tra le sonorità argentine del violino e il calore del violoncello. Nel Trio la disposizione strumentale (con violino primo e violoncello che fanno da accompagnamento a violino secondo e viola) accentua il carattere di danza popolare austriaca che emerge dal tema e da quegli sforzati sul tempo debole della battuta.

Il tema dell'Andante cantabile non ha delle caratteristiche che lo rendano particolare: è statico sia in senso melodico, sia per il ritmo, sia per l'armoina, ma ciò si spiega con la necessità di farne un tema adatto a delle variazioni (cinque in questo caso) che Beethoven alterna tra semplici e complesse secondo il modello abituale. Allo stile contrappuntistico della prima, seguono le fioriture ornamentali del primo violino nella seconda; la terza è caratterizzata da un ostinato di note veloci del secondo violino (affiancato talvolta dal primo) che crea uria sorta di fascia ritmico-timbrica sulla quale si svolge la melodia affidata a viola e violoncello. Nella quarta variazione ricompare con chiarezza il tema, armonizzato però in modo nuovo, e nella quinta, infine, ritorna quell'atmosfera popolareggiante che avevamo già notato nei precedente Trio. Violino primo e violoncello operano una sorta di accompagnamento (con pesanti sforzati sui tempi deboli della battuta) mentre violino secondo e viola presentano ancora una volta il tema ornato. La coda della quinta variazione è di proporzioni estremamente sviluppate ed è introdotta da una modulazione che, se da un lato è caratteristica della musica di Beethoven e dell'epoca, non mancherà di stupire l'orecchio per la forza centrifuga e la sensazione (anch'essa beethoveniana) che si apra una porta su un nuovo sviluppo. L'Allegro finale, in forma-sonata come il primo movimento, è costruito interamente su un intervallo di quarta che appare talvolta come piccolo inciso tematico (primo tema, quasi di "stile galante"), talaltra nella sua solenne semplicità (secondo tema) e poi nascosto tra melodie cromatiche (nella transizione tra primo e secondo tema). In questo ultimo movimento viene alla luce in modo evidente che le relazioni tra i temi non riguardano tanto lo "sviluppo motivico" (ossia uri tema che nasce da un altro), quanto un intreccio di relazioni che è il frutto di un vero e proprio calcolo. Scopriamo così come il compositore lavorava sul materiale, «e senza dubbio, nonostante l'abitudine di Beethoven di annotare nei quaderni di schizzi idee musicali singole e non di rado rudimentali, era la raffigurazione intuitiva della totalità che poi si ripercuoteva sui dettagli modificandoli, il fattore che faceva scattare il processo compositivo» (Dahlhaus).

Fabrizio Scipioni


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 20 ottobre 1995

I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 11 Luglio 2014