Sinfonia n. 8 in fa maggiore, op. 93


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro vivace e con brio
  2. Allegro scherzando (si bemolle maggiore)
  3. Tempo di Menuetto
  4. Allegro vivace
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trobe, timpani, archi
Composizione: 1812
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 27 Febbraio 1814
Edizione: Steiner, Vienna 1817
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Beethoven cominciò a lavorare all'Ottava Sinfonia nel 1811, ma tra ripensamenti e ritocchi vari la completò nell'estate del 1812, durante i soggiorni nelle stazioni termali di Tepliz, in cui avvenne il celebre incontro con Goethe, tanto ammirato dal musicista, Karlsbad e Linz. Una prima esecuzione privata della sinfonia ebbe luogo nell'aprile 1813 nella residenza dell'arciduca Rodolfo, mentre la sua presentazione pubblica avvenne il 27 febbraio 1814 nella grande sala del Ridotto di Vienna. Per l'occasione il concerto era dedicato interamente a musiche di Beethoven comprendenti fra l'altro la Settima Sinfonia e La vittoria di Wellington, detta anche La Battaglia di Vittoria (Wellington Sieg oder die Schlacht bei Vittoria op. 91), una pagina strumentale pomposa e magniloquente in cui erano inseriti temi degli inni inglesi "Rule Britannia" e "God save the King" con .effetti onomatopeici di colpi di cannoni e rulli di tamburi, nell'intento di celebrare la sconfitta delle truppe francesi avvenuta nella penisola iberica per merito, appunto, del generale Wellington. Promotore di siffatto concerto era stato lo studioso di problemi acustici Johann Nepomuk Maelzel, inventore con l'olandese Winkel del metronomo e creatore di singolari macchine musicali, come il Panharmonikon, capaci di riprodurre e ingigantire i suoni degli strumenti a fiato e della percussione. Maelzel potè organizzare un programma così eterogeneo, in vista di grossi affari per le sue invenzioni, in quanto si era guadagnato l'affetto di Beethoven promettendogli di costruire un apparecchio infallibile contro la sordità. Tanto è vero che il musicista volle rendere un omaggio a Maelzel, inserendo nel secondo movimento dell'Ottava Sinfonia uno spunto tematico che ricordasse l'oscillazione del metronomo, preso da un canone scherzoso dello stesso Beethoven, elaborato sulle parole: «Ta-ta-ta, caro Maelzel, addio...».

Naturalmente il brano che suscitò i maggiori applausi del pubblico fu La vittoria di Wellington, anche per la rinomanza dei maestri sparsi nell'orchestra a dar lustro alla celebrazione: da Salieri che dirigeva alcuni strumentisti collocati sopra una galleria laterale con il compito di imitare le cannonate, a Schuppanzigh primo violino; da Spohr a Mayseder, da Moscheles a Romberg, a Dragonetti, a Hummel che batteva la grancassa e al giovane Meyerbeer che suonava i piatti, sembra, con poca soddisfazione di Beethoven. L'Ottava Sinfonia non fu apprezzata adeguatamente, come riferì Czerny, e dovette aspettare diversi anni prima di essere ben compresa nel suo elegante e misurato classicismo. Infatti l'inaspettato ritorno del musicista ai modi haydniani e mozartiani ha messo in serio imbarazzo i primi commentatori dell'opera beethoveniana, che non sapevano spiegare come mai in questa sinfonia l'autore, dopo tante esperienze innovatrici, avesse fatto dei passi indietro con il ripristino del Minuetto nella forma classica. Però, a parte certi richiami formali al passato e la restrizione delle proporzioni architettoniche e della durata (in tutto ventisei minuti), non si può negare che l'Ottava sia un'opera della maturità artistica del compositore per la preziosità della fattura strumentale e per la novità di taluni seducenti sviluppi del gioco armonico. A queste caratteristiche si aggiungono una leggerezza scherzosa e un misuratissimo gusto ritmico che piacquero tanto a Stravinsky neo-classico  e  convinsero  il  musicologo  Paul Bekker a sentire in questa sinfonia «la liberazione da ogni peso terrestre, l'assoluto superamento della materia, verso una forma di pura saggezza speculativa».

Un sentimento di serenità e di gioioso senso della vita esplode nell'Allegro iniziale, così scapricciato e brillante nel suo variegato andamento strumentale, pur nell'estrema chiarezza e linearità del disegno melodico. Si passa quindi allo scherzoso e umoristico Allegretto, dove la frase elegante dei violini si espande con piacevolezza di impasti armonici dei fiati e degli strumentini. Il Minuetto successivo non ha nulla della fatuità settecentesca e lascia trasparire tra le sue pieghe un respiro ben più denso e premonitore di atteggiamenti brahmsiani. L'Allegro finale è ricco di spensierata gaiezza nel suo travolgente discorso ritmico, anche se tra qualche accento di pensosa riflessione sulla lieta giovinezza ormai declinante.

Ennio Melchiorre

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Beethoven lavorò all'Ottava Sinfonia durante il 1811 completandola però nell'estate dell'anno seguente a Teplitz, Karlsbad e Linz; fu eseguita la prima volta in pubblico, sotto la direzione dell'autore, il 27 febbraio 1814 nella Sala del Ridotto a Vienna, in un concerto tutto di musiche di Beethoven (fra le quali spiccava ancora la Settima Sinfonia). L'aspetto più singolare dell'opera, sottolineato dalla ricomparsa del minuetto per il terzo movimento, è un certo ritorno ad Haydn e Mozart dopo le novità di ogni genere affermate dalla Quinta Sinfonia, dalla Pastorale, dalla Settima Sinfonia; ma il ritorno all'antico non è una vacanza (come suggerisce anche la quantità di schizzi e appunti variamente elaborati), bensì una affermazione ulteriore di umorismo e di vitalità capace di sorprendere e di giocara con le forme. Nel primo movimento (Allegro vivace e con brio), a un primo tema di stampo cordiale (il fa maggiore d'impianto ricorda il clima della Pastorale) ne succede un secondo dalla provocante asciuttezza ritmica, costituito da un doppio salto di ottava; è un carattere meccanico, oggettivo che prosegue nell'Allegretto scherzando, il cui tema d'avvio è identico a quello del canone scherzoso Ta-ta-ta a 4 voci, senza numero d'opera, dedicato a Mälzel, l'inventore del metronomo. La meccanicità parodistica ha per altro un risvolto di allegria rossiniana avanti lettera, che si afferma anche nel finale (Allegro vivace), ripresa sofisticata del finale burlesco alla Haydn con una estrosità di invenzioni pari alla maestria compositiva.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

L'Ottava Sinfonia in fa maggiore fu composta, con una rapidità per Beethoven insolita, tra l'estate e l'autunno del 1812, principalmente durante il soggiorno di cura a Teplitz (rimasto famoso per l'incontro con Goethe) e Karlsbad. Di ritorno da Teplitz, Beethoven si fermò per alcun tempo dal fratello Johann a Linz, dove sappiamo che dette gli ultimi ritocchi alla nuova opera. Il manoscritto originale, infatti, reca annotato: «Sinfonia Linz, nel mese di ottobre 1812». La prima esecuzione ebbe luogo alla Redoutensaal di Vienna il 27 febbraio 1814, nel corso di un concerto, come allora si usava, ponderoso assai, comprendente, oltre alla «Ottava» e cose minori, «La battaglia di Vittoria» e la «Settima». E proprio alla Settima Sinfonia l'«Ottava» si apparenta strettamente per circostanze di nascita e affinità di caratteri, tanto da essere unanimemente indicata come la sua sorella gemella.

Eppure, l'Ottava Sinfonia è stata a lungo considerata la cenerentola delle Sinfonie beethoveniane. Le minuscole proporzioni di questa «piccola Sinfonia», come la chiamò lo stesso autore, la piú breve fra quelle da lui scritte, che sembrano formalmente additare orizzonti settecenteschi, tratti umoristici se non addirittura burleschi, sullo sfondo di una indefinibile e inquietante stranezza, tra ambigua e capricciosa, disorientarono e delusero i contemporanei e i posteri che in essa non riconobbero piú il Beethoven titanico e mitico, patetico e «profondo», delle loro sclerotizzate visioni. Inevitabilmente, il ritorno ai modi di Haydn e Mozart (dopo l'«Eroica», dopo la «Quinta»!), fu considerato un segno, se non proprio d'involuzione, di stasi e di disimpegno creativo: un curioso incidente, nella migliore delle ipotesi una vacanza, dello spirito malinconico, del lottatore ben altrimenti vittorioso. Famoso rimase il grido piovuto dal loggione la sera della prima esecuzione: «Es fällt ihm schon wieder nichts ein!». «Ecco che è di nuovo privo di idee!»: testimonianza tremenda di insensibilità umana prima ancora che artistica.

Vi furono, è vero, nel corso dell'Ottocento, voci che si levarono in difesa della «piccola Sinfonia»: oltre a Wagner, che amò dirigerla sovente nei suoi concerti, quella di Robert Schumann, profondo conoscitore e ammiratore di Beethoven, che scrisse, dopo un'esecuzione dell'opera, il 10 dicembre 1840: «Fra le Sinfonie beethoveniane quella in fa è la meno eseguita e ascoltata: perfino a Lipsia, dove tutte sono conosciute e quasi popolari, si nutre qualche prevenzione proprio contro questa che per profondità umoristica non ha forse l'uguale fra le opere del Maestro. I crescendo, come quello verso la fine dell'ultimo tempo, sono rari persino in Beethoven, e quanto all'«Allegretto» in si bemolle non c'è niente da fare se non starsene zitti e felici...». Valga, dunque, come indicazione di massima, il definirla la «Sinfonia del buon umore»; a patto di chiosare, con Riezler: «Ma che potenti pensieri, sono quelli che gl'ispirano questo buon umore! È davvero il buon umore di un dio; dal tema principale del primo movimento fino al Finale, ogni battuta ha uguale ' peso specifico '». Che nulla fosse piú estraneo a Beethoven dell'idea di un giocherellare aggraziato e sereno, lo dimostrano lo sforzo e la meditazione di una piena consapevolezza stilistica nell'intenzionale ricorso alle forme del passato (del «suo» passato, piú che di quello dei modelli classici), nel clima di ciò che il Lenz, acutamente, chiama «un nuovo ordine spirituale». Sforzo, si è detto: di nessun'altra Sinfonia, al di fuori della «Nona», sono rimasti tanti appunti, tanti abbozzi variamente elaborati, tante diverse stesure per i vari tempi; senza contare i ritocchi e le aggiunte sostanziali apportate anche dopo la prima esecuzione, come la soppressione di un'introduzione lenta al primo tempo, che si slancia cosí fin dall'inizio come «in medias res», o l'aggiunta, al medesimo primo tempo, delle trentaquattro battute della coda, con l'ultima intensificazione del tema principale culminante in un fff, un forte con tre f, come non era accaduto mai neppure nei vertici dell'Eroica o della Quinta. Altro che puro gioco musicale, altro che settecentesca gracilità costituzionale! L'Ottava è il frutto della completa maturità di Beethoven, un frutto prezioso e perfetto, una conquista dell'ultima postazione prima di spiccare il salto verso le regioni incontaminate dell'ultimo e piú tardo stile. Che cosa è del resto la «gioia, bella scintilla divina» della Nona Sinfonia se non una metafisica trasfigurazione del buon umore della «Settima» e dell'«Ottava»? Cosí, i quattro tempi di cui l'opera si compone sembrano scandire le tappe di un itinerario che dalla iniziale radiosità, colta per cosí dire di soprassalto, del primo tempo, «Allegro vivace e con brio», giostrato su un'unica figura tematica che si espande inarrestabile, giunge fino al calor bianco dell'ultimo tempo, spalancando profondità improvvise e inattese aperture di grande pathos, in un subbuglio di forme, ora Sonata ora Rondò, con due sviluppi e due riprese, e una finale, estesa coda, la quale finisce per proiettare la sua luce sull'intero movimento, anzi sull'intera opera. Proprio per preparare il contrastante squarcio di questo movimento finale, che dura da solo quasi quanto gli altri tre messi insieme, Beethoven alleggerisce il peso dei due tempi centrali, legandoli a un materiale tematico e a una temperie espressiva burleschi e ironici, ma soavemente leggeri. È noto che il secondo movimento, il celebre «Allegretto scherzando», si basa sul tema di un canone composto da Beethoven per Johann Nepomuk Mälzel, il perfezionatore del metronomo, in cui si allude, appunto, per burla, all'implacabile ticchettio del metronomo. Sull'accompagnamento «meccanico» dei legni, gli archi ricamano una linea melodica ora incisiva ora grottesca, come di chi perdesse e ritrovasse la strada, in continua variazione. Qui ogni riferimento al Settecento è francamente escluso: l'«Allegretto» - se ne accorse Berlioz - «è una di quelle creazioni alle quali non si può trovare né modello né corrispondente», il parto di una fantasia scatenata e allo stesso tempo controllata. Metteteci un po' di teatrale serietà, e di tragedia vera, e avrete le Burlesche di Mahler.

Anche il terzo tempo, «Tempo di Menuetto», non nasce dalla volontà di riesumare una forma che, nella Sinfonia, Beethoven aveva già da tempo superato e sostituito con il piú moderno Scherzo. Il musicista ne accentua maliziosamente l'incedere pomposo e nel Trio crea un piccolo capolavoro dove la parodia si eleva inconsapevolmente a poesia: su un accompagnamento in terzine, vecchiotto e asmatico, dei violoncelli, i corni e il clarinetto risuscitano la melodia di un minuetto scritto da Beethoven nel lontano 1792. Va dato atto a Carli Ballola, la cui monografia beethoveniana sempre piú col tempo riluce, quando stupendamente aggiunge e conclude: «Il vecchio motivo, nella seconda parte, ci riserva la sua sorpresa piú incantevole, colorandosi magicamente d'iridescenze armoniche quasi brahmsiane: un intenerimento improvviso, quasi uno struggente e fuggevole senso di rimpianto per il ragazzo scontroso in codino e calze di seta della piccola Bonn, apparso per un istante alla memoria dell'uomo maturo e amareggiato».

Sergio Sablich

Spigolature d'archivio

L'Ottava Sinfonia di Alberto Savinio

Sei tu cabalista, o lettore? Se ancora non lo sei, certamente lo diverrai considerando e interpretando il significato "numerale" delle sinfonie di Beethoven. Tre, Cinque, Sette, Nove: numeri dispari e "fatali", segnano le sinfonie "fatali" di Beethoven: Napoleone rivoluzionario e liberatore, Colpi alla porta del Destino, Apoteosi della Danza, Inno alla Gioia (e non si tratta, com'è facile capire, di una danza semplice e "spensierata", ma di quella perlomeno che sognava di danzare Zaratustra). E dall'altra parte: Due, Quattro, Sei, Otto: le sinfonie piane di Beethoven, le sinfonie bianche, le sinfonie "senza destino"; non perché "prima del Destino", sì perché hanno varcato la porta del Destino, questa "cosa" umana e mortale (tutta l'arte "vera" del resto è di là del destino) e una, la Sesfa, è addirittura naturalistica, di quel medesimo naturalismo delle tende di una volta, che calate alle finestre mostravano in trasparenza paesaggi ameni e gaiamente tinteggiati, che pur nel cuore più duro dell'estate e nella stessa bocca infocata del cane, trasformavano l'interno di una camera in una fresca arcadia. E sono le sinfonie bianche che noi preferiamo: quelle nelle quali Beethoven dimette le sue ingenue e incaute ambizioni demiurgiche e sale alla calma di un'arte divina.

Queste sinfonie, e particolarmente l'Ottava, si distinguono pure per un che di maggiormente meccanico, di più "fatto", di più artefatto, e del compiacimento dell'artista nel fabbricare questi giochi sonori con mani espertissime e leggere. Non un solo pensiero nero traversa la mente di Beethoven nella scrittura di questa sinfonia, non un solo sguardo torbido, o appena cupo, o troppo imperativo nei suoi occhi. E neppure si lascia rapire dai sogni nel sogno, ed essa stessa è sogno. La fronte gibbuta di Beethoven si spiana. Beethoven qui è ragazzo: ritrova l'arte migliore e più confortante: l'arte come "una lunga infanzia". Aggiungo che questa sinfonia è più "tedesca" delle altre: più antica tedesca: Altdeutsch; più nella germanità gotica, lucida, metafisica di Bach. Tedesco il tema iniziale, tedesco il secondo tema che si apre sulla battuta 37 e che veramente non è se non una variante del primo tema, con in più qualcosa dell'esercitazione scolastica e dell'anticipazione della macchina da cucire; mirabili le ultime 12 battute del Primo Tempo: forse la musica più chiara e leggera che Beethoven abbia mai scritto.

Segue l'Allegretto Scherzando, questo gioco di angioli tra bianche nuvole globose, ma qui pure il meccanico dell'arte superiore, avvalorato dalla leggenda che questo scherzo è stato ispirato dal tic tac del metronomo: clessidra dei musicisti.

Nel Tempo di Minuetto poi la mente musicale di Beethoven si sfronda anche più e si assottiglia, finché arriva del tutto purificata al finale: al finale così squisitamente povero d'invenzione, così parco di temi - questo finale che si direbbe scritto solo perché, nell'economia di una sinfonia, finale ci vuole - e che in molte sue parti, e soprattutto nel finale di lui finale, non è altro che note. E che altro è la musica che note? Gl'ignari, i rozzi, i d'insana fame affamati trovano nella nota quello che nella nota naturalmente non c'è né ci può essere: un valloncello, un fiume, gli occhi della donna amata, una nuvola che passa, il mare in burrasca, le voci dell'uragano; mentre "chi sa" non chiede alla nota ciò che la nota non può dare, ma ne accetta il suono soltanto e al più considera la nota e l'ama come segno sulla carta: la nota con la sua testina ora bianca e ora nera, ora con l'asticciola al fianco ora senza; e di questa scritta strategia si appaga.

Alberto Savinio, Scatole sonore, Milano, Einaudi 1955
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 4 Aprile 1993
(2) Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto delMaggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 8 marzo 1980

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Ultimo aggiornamento 2 gennaio 2015