Sonata per pianoforte n. 11 in si bemolle maggiore, op. 22


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro con brio
  2. Adagio con molta espressione (mi bemolle maggiore)
  3. Minuetto
  4. Rondò. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1799 - 1800
Edizione: Hoffmeister, Lipsia 1802
Dedica: Conte von Browne-Camus
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Beethoven fu soprattutto e innanzitutto un grande pianista e nel corpus delle sue 138 composizioni numerate le trentadue sonate per pianoforte occupano una posizione importante per capire le caratteristiche dell'artista. Esaminando questa formidabile costruzione di suoni costituita dalle sonate pianistiche, e in base anche ad alcune testimonianze dei contemporanei, è possibile rendersi conto di alcuni aspetti fondamentali della tecnica pianistica beethoveniana nell'ambito della forma della sonata classica, anche se sensibilmente modificata nella sua struttura architettonica. Ciò che colpisce subito del suo pianismo è la grandiosità e robustezza di suono, quale non si era avvertita prima in altri autori, a cominciare da Haydn e Mozart. Poi va messa in evidenza la dialettica fra il piano e il forte in una stretta connessione di schiarite melodiche e di impennate ritmiche, insieme alla tensione espressiva raggiunta attraverso lo studio attento della frase nel cantabile e nel legato e infine l'uso originale del pedale di risonanza, così da raggiungere spesso effetti di straordinaria purezza psicologica nel gioco dinamico delle sonorità. Ad esempio, proprio sull'uso del pedale di risonanza si possono citare alcuni esempi significativi. Il primo movimento della Sonata "Al chiaro di luna" reca questa semplice indicazione: «Si deve suonare questo pezzo delicatissimamente e senza sordino», cioè con il pedale di risonanza abbassato per imprimere all'Adagio sostenuto un particolare timbro su cui si staccano i vari accenti del tema. E ancora. Nella Sonata op. 31 n. 2, il primo Allegro è spezzato tre volte da un episodio in tempo Largo: sull'ultimo si ascoltano due recitativi di sei battute, per i quali l'autore indica che il pedale di risonanza deve restare abbassato. L'effetto è quanto mai poetico, in quanto dal recitativo si sprigiona un suono proveniente da molto lontano.

Ma al di là di queste considerazioni resta il fatto che nelle sonate pianistiche Beethoven è riuscito ad imprimere una ricchezza di fantasia e una varietà di temi da superare a volte i confini della semplice espressione strumentale, quasi a risvegliare un mondo di sentimenti e di passioni sconosciuto prima di lui. In tale contesto dire sino a che punto Beethoven sia un compositore - e nella fattispecie un pianista - classico o romantico non è una questione rilevante, perché nei trentadue poemi per la tastiera ci possono essere anche i richiami alla scuola di Mannheim e agli esempi di Bach, di Haydn, di Mozart e di Clementi, ma quello che conta è lo stile e la qualità dell'invenzione creatrice in cui si configura un modo nuovo di costruire e concepire la musica, in cui ogni idea melodica e ogni energia ritmica è dominata da un pensiero coordinatore e regolatore verso una più alta concezione spirituale. Sotto il profilo filologico e strutturale, va osservato che tredici sonate sono in quattro tempi, fra i quali l'Adagio può mancare (op. 31 n. 3) oppure costituire una specie di introduzione al Finale ( op. 27 n. 1 e op. 101). Altre tredici sonate sono costruite in soli tre tempi; mancano del Minuetto o dello Scherzo, due dell'Adagio e una (op. 27 n. 2) addirittura del primo tempo in forma di sonata. Sei risultano articolate in soli due tempi, cioè le due dell' op. 49, l'op. 54, l' op. 90 e l'op. 111, alle quali si aggiunge la Sonata in do, scritta nel 1791 e senza alcuna numerazione. Il che vuol dire che le sonate riflettono una notevole varietà di impostazione e di soluzione di problemi non soltanto tecnici e di scelte linguistiche, la cui necessaria messa a punto è indispensabile per capire la poliedrica personalità del musicista rivolta ad una definizione dell'arte nel senso di una più attenta analisi "dal di dentro" e oltre qualsiasi schematismo formale. È vero che non tutte le sonate possono essere collocate sullo stesso piano estetico per felicità creativa, ma ciò non toglie che ognuna di esse offra lo spunto per riflettere e rendersi conto del grandioso cammino compiuto dal compositore in fatto di sviluppo stilistico e di maggiore e più intima aderenza tra l'idea e la sua rappresentazione musicale.

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Al Beethoven brillante e di gusto virtuoslstico appartiene la Sonata in si bemolle maggiore op. 22. Essa fu scritta nel periodo 1799-1801 e pubblicata nel 1802 e si distingue per la sua spigliata e fresca musicalità, avvertibile sin dall'Allegro con brio costruito su un tema gioioso e ricco di piacevoli modulazioni. Particolarmente espressivo è l'Adagio del secondo tempo con quel canto delicatamente malinconico che sembra evocare una visione di sogno, qua e là interrotta da qualche voce dissonante che però non riesce ad incrinare l'equilibrata armonia dell'intero movimento. Il Minuetto si richiama al primo tempo e si snoda secondo un gioco sonoro di luci e ombre ingegnosamente distribuito con molta misura. Nel Rondò finale si respira un po' l'ultima eco dello stile rococò, elegante e grazioso, leggermentc segnato e irrobustito da un tema fugato. Ma l'atmosfera di fondo non viene affatto incrinata e deformata.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Composta nel 1800, all'apice della carriera concertistica di Beethoven, la Sonata op. 22 riflette la gioia di vivere del giovane romantico. Il primo tempo rifulge di invenzione virtuosistica, in un continuo rinnovarsi di felicità cantabile. La prima idea impostata, come sovente in Beethoven, sull'arpeggio ascendente di tonica, stabilisce lo spirito dionisiaco del pezzo, ed anche il secondo tema, anziché propendere al lirico, tocca diverse corde del canto a fanfara. L'adagio in mi bemolle maggiore conta fra i tempi lenti più sereni di Beethoven. Lasciate da canto le corde patetiche, la melodia si distende nel lirismo sinuoso, anticipando gli incanti dei futuri notturni romantici. Un capriccioso minuetto è posto in antitesi ad un trio, scandito robustamente sulle quartine del basso. Il Rondò si intona alla serenità campestre del primo Beethoven: una linea cantabile delicatamente ornata, sulla più semplice struttura armonica, inframezzata da couplets scanditi, e di piglio virtuosistico. E' la linea dell'affabilità beethoveniana, quella che culmina nel rondò dell'op. 90.

G. Lanza Tomasi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nell'ambito delle trentadue Sonate per pianoforte di Beethoven, l'op. 22, composta fra il 1799 e il 1800, è da considerarsi come la pagina conclusiva di un primo grande capitolo, che aveva veduto, inaugurando una sorta di politica di equilibri destinata a ricomparire spesso nel prosieguo dell'esperienza artistica di Beethoven, l'affermarsi di rotture laceranti con il passato (e con lo stesso presente, considerando quel che offriva la piazza al momento), com'era stato con la Patetica (1798-99), e al tempo stesso il recupero di dimensioni espressive più tranquille, come nelle due Sonate dell'op. 14, scritte in quello stesso periodo. A questo secondo aspetto, in un certo senso, sembra ricollegarsi l'op. 22, con la quale Beethoven si congedò dal Settecento, prima di avviare, con la Sonata op. 26, la serie delle Sonate della seconda maniera, caratterizzata dalle più sconvolgenti avventure formali e dalla sublimata perfezione costruttiva che via via sarebbe nata sulle macerie degli schemi e dei moduli linguistici ereditati dalla tradizione e travolti dalla violenza individualistica di un pensiero formale e di un impeto espressivo nuovissimi, e destinata a concludersi nel 1814, con la Sonata op. 90. A questa fase centrale della creatività beethoveniana l'op. 22 sembra guardare abbastanza poco, meno comunque che non le tre Sonate dell'op. 10, composte fra il '96 e il '98, e della stessa op. 7 ('96-97), per non parlare della Patetica, e almeno esteriormente appare lontana di molto dalla rivoluzionaria op. 26, che pure fu creata, si può dire, di seguito (1800-1801); e anche uscendo dal campo delle Sonate pianistiche, è indubbio che in quei medesimi anni Beethoven stava spingendosi verso il futuro con maggior decisione di quanto non riveli questa pagina: basterebbe pensare alla Prima sinfonia, al ciclo dei sei Quartetti op. 18, al terzo Concerto per pianoforte, completati appunto all'alba del nuovo secolo. D'altro canto, è impossibile ricondurla al settecentismo, del resto più epidermico che sostanziale, di un lavoro come il Settimino op. 20, dove il prorompere vitalistico della densa e robusta musicalità del primo Beethoven parve, nel 1799, volersi cacciare a forza in schemi e modi di dire di un haydnismo di riporto. Se il Settimino infatti lascia una curiosa impressione, come se un bel pezzo di giovanotto avesse voluto infilarsi un abito di due o tre taglie inferiore alla sua, con il risultato di far saltare tutte le cuciture, e mantenendo con le buone o con le cattive la necessaria libertà di movimenti, nella Sonata op. 22 un siffatto squilibrio fra la sostanza compositiva e le forme e i linguaggi in cui essa era calata non sembra certo verificarsi.

Non si può non riconoscere che la Sonata op. 22 rappresenta, com'è stato detto, un passo indietro rispetto alle sorelle più progressive di questo primo periodo. È però altrettanto vero che questo passo non avviene in direzione «viennese», ossia ritornando alla quieta dimensione strumentale delle «piccole» Sonate settecentesche, bensì verso quel virtuosismo (per i tempi alquanto spinto) che anche altrove Beethoven aveva raccolto dal pianismo di Muzio Clementi, per superarlo presto nelle accensioni della Patetica o nell'introspezione dolorosa dell'op. 10 n. 3. L'op. 22 riesce così una «Grande Sonata» da concerto, non esente da una certa politezza neoclassica, ricca di spunti virtuosistici e deliberatamente provvista di effetti per consentire all'esecutore di far buona figura: tutti connotati che tendono a conferirle una fisionomia certo meno «beethoveniana» di altre opere di questo periodo. Ma da qui a farne un'opera minore ci corre: se l'impegno formale è qui meno incisivo che altrove, se l'approfondimento espressivo è relativamente contenuto, se non mancano, come s'è detto, concessioni vistose a una dimensione abbastanza esteriore del concertismo, resta il fatto che la Sonata op. 22 realizza una profonda coerenza stilistica e di contenuti, e che la tecnica compositiva di Beethoven (che prima di questa aveva già al suo attivo altre dieci Sonate, quasi tutte di grande peso) appare in essa in tutta la sua splendida maturità; e il suo assunto poetico è nutrito di una tale consapevolezza che anche questa evidente escursione in terreni non esattamente consoni alla più autentica ispirazione beethoveniana avviene sotto il segno di una dignità e di una «serietà» tutt'altro che epidermiche.

Il primo tema dell'Allegro con brio sembra proporre la Sonata come una pagina brillante e gradevole: il motto iniziale, ripetuto due volte, si trasforma in una scalata in crescendo sfociando in un motivo cantabile, che scorre sopra un accompagnamento sterotipato in accordi sciolti; il moderato virtuosismo di questo primo gruppo tematico è interrotto dall'entrata del secondo tema, più robusto nella sua struttura accordale, ma ritorna nelle ornamentazioni della parte conclusiva dell'esposizione, le «codette». Da queste e da elementi del primo tema è ricavato il materiale che dà origine allo sviluppo, che sfoggia ancora una volta modi di dire tipici del pianismo clementino, mantenendo peraltro una densità compositiva assai approfondita: la ripresa è annunciata da una sospensione sulla dominante, e si svolge senza riserbare sorprese. L'Adagio è anch'esso in forma di sonata: il primo tema, di un patetismo amabile e contenuto, è presto fiorito di colorature quasi belcantistiche; il secondo è di carattere sostanzialmente affine, e si scioglie anch'esso in eleganti arabeschi ornamentali («la mano destra», nota Carli Ballola, «gareggia in virtuosità con l'ugola di una primadonna in una cavatina all'italiana». Segue un breve sviluppo, basato su trasposizioni e fioriture del primo tema, poi la ripresa, ulteriormente arricchita di colorature. Il terzo tempo è un vero e proprio Minuetto: della forma settecentesca già abbondantemente sepolta proprio nelle prime Sonate pianistiche di Beethoven non resta qui solo il nome, come in certe Sonate precedenti: l'andamento ritmico del motivo principale, sostenuto dai movimenti convenzionali del basso, ricorda senz'altro gli esempi più scontati di questa danza; a cambiare le cose interviene però il Trio, in minore, assai più intenso, con le sue scorrevoli quartine di sedicesimi. Dichiaratamente virtuosistica la scrittura del Rondò, dove il tema principale, di carattere amabile e brillante, si alterna a episodi di sicuro effetto, con passaggi di ottave, svolazzi di arpeggi, rapide fioriture in ambedue le mani: una costruzione ampia e di solida fattura, degno coronamento di una Konzertsonate in piena regola.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 27 febbraio 1987
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 2 marzo 1976
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro della Pergola, 14 maggio 1980

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Ultimo aggiornamento 19 ottobre 2018