Sonata per pianoforte n. 17 in re minore "La tempesta", op. 31 n. 2


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro vivace
  2. Adagio grazioso (do maggiore)
  3. Rondò. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1802
Edizione: Nägeli, Zurigo 1803
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

È importante ricordare il momento spirituale in cui le Sonate op. 31, fra il 1801 e il 1802, vennero sotto la penna del loro creatore: momento di fermento, di pienezza inventiva e di spirito critico che è usanza veder condensato in una coeva affermazione di Beethoven tramandata dal suo scolaro Czerny: «Non sono soddisfatto dei lavori che ho scritto fino ad oggi; d'ora in poi voglio incamminarmi per un'altra via». Era la via che in breve avrebbe portato alla Sinfonia Eroica; ma prima, sul terreno privato, confidenziale del pianoforte, l'impulso produce un'ondata di scoperte nelle direzioni più varie, anche in contrasto fra loro sul piano del carattere, dell'"affetto", ma tutte comunque sia segnate da una prodigiosa plasticità di rappresentazione. Il talento creativo di Beethoven è preso da una sorta d'ingordigia di fissare sulla tastiera ogni flessibilità e mutevolezza del linguaggio musicale; tale spinta all'originalità non si orienta sulla macroforma, come nelle Sonate "quasi una fantasia" di poco prima; la forma di sonata è ripristinata in piena regola; ma resta sullo sfondo; ora a Beethoven interessa la microforma, battuta per battuta, nota per nota, dove tutto deve assumere vivacità di significato.

Un processo così profondo di sommovimento non può trovare soddisfazione solo nelle tre Sonate op. 31, ma secondo l'abitudine di Beethoven che lavorava a gruppi di opere, dilaga in altri lavori vicini e ritorna indietro in un sistema di vasi comunicanti; già i quaderni di schizzi e abbozzi documentano le interferenze, ma bastano le opere compiute a rivelare analogie e rispecchiamenti: attorno all'op. 31, nello stesso biennio 1801-2, son le tre Sonate per pianoforte e violino op. 30, le Bagatelle op. 33, le Variazioni op. 34 e 35, tutte segnate da estrosità, esperimenti e da un altro lato comune, un senso arioso del gioco, del capriccio, in una ilare, umoristica positività; cui non contrasta nemmeno la violenta espressività della Sonata in re minore op. 31 n. 2 (che ha il suo pendant nella seconda, in do minore, dell'op. 30): in cui la capricciosità si capovolge in drammaticità, incanalandosi tumultuosa nelle sponde del genere patetico e debordandone per lo slancio vitale che la anima. Tanta positività affermativa non ha mancato di sollecitare gli studiosi a rilevare il contrasto con l'angoscia che circondò nello stesso tempo Beethoven uomo e artista: il 1802 è infatti l'anno in cui la sordità e il connesso destino di solitudine accerchiano il compositore che ne lascia testimonianza nel famoso "Testamento di Heiligenstadt"; Beethoven si aggrappa al suo talento creativo e ne acuisce la potenza realizzativa foggiandosi uno strumento espressivo senza eguali.

La seconda Sonata, op. 31 n. 2, in re minore è dalla sua apparizione una delle più eseguite, discusse e amate in tutta la serie delle Sonate di Beethoven. Alla sua fama ha contribuito il racconto di Anton Schindler che nel 1823, quindi vent'anni dopo la sua composizione, aveva chiesto a Beethoven una chiave per intendere e interpretare questa Sonata e l'op. 57 in fa minore; dalla risposta - «leggete la Tempesta di Shakespeare» - l'op. 31 n. 2 avrebbe ricevuto il soprannome di "Tempesta" che l'accompagna tuttora (mentre l'op. 57, una volta battezzata "Appassionata" si è svincolata dal riferimento) nonché un primo , promettente quadro di riferimento (si può ricordare che una nuova attenzione a questa vecchia allusione si trova oggi in un ingegnoso articolo di Theodore Albrecht che riconduce la Sonata non solo, genericamente, a una suggestione di natura, ma a varie scene particolari e a situazioni rispondenti con la biografia di Beethoven nel periodo in cui fu concepita).

Di certo l'opera è di quelle che più sollecitano a squarciare i veli della forma, a spiccare il salto dal puro "musizieren" verso le soglie arroventate dei contenuti psicologici. Ma questa istanza è in realtà provocata dalla rappresentazione di puri gesti musicali resi pregnanti da quella stessa icasticità dell'"altra via", da quel linguaggio musicale colto sul fatto che è la grande scoperta di tutta l'op. 31. Basta il proverbiale esordio a dare il senso d'un atto davvero creativo, di un fiat miracoloso; poi tutto è movimento "in avanti", con idee e figure che dell'impeto sembrano l'incarnazione musicale. Il brano è regolato dalla legge del contrasto, dell'opposizione, di accento, dinamica e disegni; anche incidendo nel più piccolo composto di melodia e accompagnamento, si riconosceranno elementi che "si sentono" fra di loro, attirandosi e respingendosi.

Al centro dello sviluppo, l'introduzione del "recitativo" crea un culmine emotivo che condiziona tutta la struttura della Sonata; quella ricerca della parola ivi registrata pone in quel punto il cuore del pezzo; in quel centro il quadro armonico è cromatico e improvvisatorio, con improvvisi confini spalancati da arpeggi dolcissimi in tonalità lontane; mentre esposizione e conclusione si agitano e cozzano entro un quadro ristrettissimo di tonica e dominante, sbozzate in rapida, quasi rozza sobrietà. Vastissima è poi la gamma affidata alla fantasia sonora, timbrica; d'ora in poi non si potrà più parlare di uniformità sonora del pianoforte; il vibrato degli strumenti ad arco è battuto in breccia da una serie di infinite gradazioni di attacco e pressione, non più affidabili a segni che, a volerli annotare tutti, sarebbero continui perché legati al respiro stesso della musica; al tocco è data via libera e il concetto stesso della moderna interpretazione musicale sembra nascere a contatto con questa pagina.

Il secondo movimento (Adagio) è regolato come il primo dal contrasto e dal dialogo, inseriti in una forma mista fra il Lied con variazioni e la forma sonata, e naturalmente rallentati entro un tempo vasto e spazioso dove ogni idea, anche il misurato rullo dei bassi, quasi timpani, ha qualcosa d'infallibilmente calcolato; l'apertura di certi squarci melodici ricorda la cantabilità giovanile del Lied Adelaide e ancora si noterà, in tutto l'Adagio, un senso di attesa aurorale (poi rimesso in opera nell'introduzione al finale della Sonata op. 53), nel contrasto fra addensamenti neutri nel registro basso e luminosità di arpeggi o di singole note svettanti di trepida chiarezza. Al principio del contrasto rinuncia per programma il Finale con il suo andamento da "moto perpetuo"; ma Beethoven non sarebbe lui se anche questa superficie lineare, già resa inquieta dal suo ironico guizzare, non fosse ogni tanto turbata da sforzati, ottave massicce, capricciosi mordenti; in qualche modo drammatizzata, sia pure con la misura necessaria a non togliere a questa conclusione della Sonata il carattere di una danza misteriosa e leggera, quasi vaporando dai roventi solchi del primo movimento.

Giorgio Pestelli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Si dice che non esiste nulla di più diverso da una Sonata per pianoforte di Beethoven che un'altra Sonata per pianoforte di Beethoven. La boutade è vecchia ma ancora buona, purché non si pensi a un'esteriore ricerca di varietà, quando quella serie di trentadue capolavori è il banco di prova scelto per le sue più ardite esplorazioni da un musicista che compì un percorso artistico intenso e complesso come forse nessun altro, sempre alla ricerca di soluzioni nuove a problemi nuovi, tali da investire profondamente le strutture della sonata e il modo stesso di pensare e comporre la musica: né l'appiattimento della prospettiva dovuto ai due secoli di distanza né il logoramento d'una familiarità indiscreta sono riusciti ad offuscare la forza di novità della musica beethoveniana.

Il 1801 e il 1802, gli anni in cui nacquero le tre Sonate op. 31, segnarono per Beethoven una prima grande crisi, un punto di rottura da cui il suo linguaggio uscì profondamente trasformato e piegato a soluzioni di radicale novità e d'impressionante evidenza espressiva. Questo periodo di crisi squisitamente musicale coincise con una non meno profonda crisi psichica e morale, che può aver contribuito ad alcune scelte del compositore, senza per questo travasarsi direttamente nella sua musica, perché un tale soggettivismo romanticheggiante era totalmente estraneo alla sua estetica classicistica: è comunque impossibile dimenticare che per Beethoven quelli furono gli anni della scoperta della sua progressiva e incurabile sordità, della disperata confessione contenuta nel testamento di Heiligenstadt, delle passioni brucianti e umilianti per le contessine Therese Brunswik e Giulietta Guicciardi.

Che in quegli anni Beethoven fosse consapevolmente determinato a cercare nuove vie e che l'op. 31 sia una risposta a questa ricerca, viene testimoniato anche da un passo delle Memorie del suo allievo Cari Czerny: «Quando aveva appena compiuto la Sonata op. 28, Beethoven disse al suo intimo amico Krumpholz: "Sono ancora poco soddisfatto delle opere che ho scritto finora, d'ora in poi voglio seguire una nuova strada". Poco dopo furono pubblicate le tre Sonate [op. 31], nelle quali si può riconoscere il parziale compimento della sua decisione». Di queste tre Sonate è indubbiamente la seconda a presentare le più radicali novità: la tradizionale successione dei tre movimenti viene mantenuta (quanto a ciò, le Sonate op. 26 e op. 27 si erano spinte più lontano) ma al loro interno Beethoven opera alcune formidabili innovazioni. Secondo il generoso, servizievole e petulante allievo e amico Anton Schindler, quando gli venne chiesto quale fosse il significato di questa Sonata, Beethoven avrebbe risposto: «Leggete La tempesta di Shakespeare». Bisogna ammettere che questa è un'ottima risposta, proprio perché è vaga e non è di grande aiuto per chi vuole assolutamente trovare un "significato" extramusicale a questa Sonata.

La tonalità è il re minore, che Mozart aveva usato nel Concerto per pianoforte e orchestra K 466, una delle sue opere più oscure e demoniache, e che Beethoven impiegò molto raramente, e solo in composizioni di particolare rilevanza, quali questa Sonata e la Nona Sinfonia. L'eccezionaiità di questa Sonata si rivela fin dall'attacco del primo tempo: due battute di Largo, consistenti solo in un tenebroso arpeggio che sale dal registro basso della tastiera «come cerchi concentrici di onde che muovano dalle profondità d'uno specchio d'acqua livido e oscuro» (Giovanni Carli Ballola). Subito gli si contrappone un Allegro di quattro battute, con una scala discendente frammentata in affannose figurazioni, che si spegne in una battuta di Adagio. Il Largo e l'Allegro vengono ora ripetuti una seconda volta. L'ascoltatore è spaesato e, cercando d'orientarsi con quanto conosce di Haydn, Mozart e Beethoven, è portato a pensare di trovarsi di fronte a un'introduzione che preceda l'esposizione dei temi d'un consueto Allegro iniziale in forma-sonata: ma questi schemi e queste stesse denominazioni non hanno più ragion d'essere. L'arpeggio e la scala non costituiscono né un'introduzione né una vera e propria esposizione dei temi, eppure contengono già in nuce i temi, che appariranno solo più tardi, con un profilo evidente e rilevato ma reso ambiguo dall'instabilità armonica: il primo deriva dall'arpeggio del Largo e sale dal basso accompagnato da un'ostinata figurazione in terzine, il secondo è un affannoso passaggio cromatico che deriva dalla scala discendente dell'Allegro. Il tema derivato dal Largo predomina totalmente nell'esposizione e nello sviluppo (ma non viene ripreso nella parte conclusiva del movimento) e il Largo stesso ritorna più volte, all'inizio del conciso sviluppo e all'inizio della ripresa: quest'ultima volta si prolunga in due brevissimi e accorati recitativi «con espressione semplice», in cui (come in analoghi passaggi della Sonata op. 110 e della Nona) Beethoven sembra voler carpire alla parola le sue inflessioni e la sua espressività e tentare di riprodurle con gli strumenti. Secondo Czerny questo recitativo «deve risuonare lamentoso, come da una grande lontananza», mentre Beethoven stessoavrebbe detto che subito dopo, nel crescendo e nei cinque accordi fortissimo all'inizio della ripresa «il pianoforte deve spezzarsi». La coda, col suo intenso impatto drammatico, riesce in quello che sembrerebbe impossibile, portando ancora oltre la curva espressiva ascendente di questo potente movimento.

L'Adagio, in un luminoso si bemolle maggiore, offre un pressoché totale contrasto col tormentato movimento iniziale: ha una forma nitida e simmetrica e il tono raccolto d'una meditazione dolce e nobile, sostanzialmente serena, ma a tratti minata dal senso di minacciosa inquietudine emanato dagli «attutiti rulli di timpano che punteggiano, come tuono in lontananza, la malcerta "quiete dopo la tempesta" dell'Adagio» (Carli Ballola).

Come il primo movimento, l'Allegretto è in forma-sonata con entrambi i temi in tonalità minore, ma i contrasti violenti sono ora scomparsi, mentre emerge piuttosto un senso d'ansia affannosa, portato al parossismo in una corsa inesorabile, incessante e senza respiro fino alla fine, che giunge semplicissima, spoglia, impreparata e imprevedibile, senza alcuna retorica. Czerny sostiene che Beethoven compose questo movimento dopo aver visto passare un cavaliere al galoppo nella nebbia, all'ora del crepuscolo, mentre stava affacciato a una finestra della sua casa di Heiligenstadt: se è così, il galoppo del cavallo apparirebbe completamente trasfigurato nel violento moto perpetuo delle ondeggianti semicrome che percorrono l'Allegretto dall'inizio alla fine, ma effettivamente si ha l'impressione che una sottile nebbia veli il profilo di questa musica, che solo a tratti appare nettamente delineato.

Mauro Mariani


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 28 Aprile 1995
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 19 marzo 1998

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Ultimo aggiornamento 26 febbraio 2013