Sonata per pianoforte n. 3 in do maggiore, op. 2 n. 3


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro con brio
  2. Adagio (mi maggiore)
  3. Scherzo. Allegro (la minore)
  4. Allegro assai
Organico: pianoforte
Composizione: 1794 - 1795
Edizione: Artaria, Vienna, 1796
Dedica: Franz Joseph Haydn
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La terza delle Sonate op. 2 (che Beethoven portò alla stesura definitiva tra il 1794 e il 1795, ma che risalgono addirittura agli anni di Bonn negli abbozzi di taluni movimenti) compendia, nell'equilibrio qualitativo e nell'unitarietà stilistica dei suoi quattro tempi, i caratteri del linguaggio pianistico maturato dal compositore nel periodo dell'apprendistato viennese: che è dire il linguaggio in senso assoluto del primo Beethoven, dal momento che il pianoforte ne diviene il quasi esclusivo banco di prova, nell'esercizio quotidiano della pratica concertistica come negli esordi editoriali. L'op. 2 n. 3 è un'ambiziosa e imponente Sonata da concerto, verosimilmente concepita come cavallo di battaglia per le "accademie" (i recitals, diremmo oggi) del giovane virtuoso renano. Per tacere della scrittura pianistica ostentatamente brillante che si avvale, soprattutto nei tempi estremi, di tutto il formulario già instaurato da Muzio Clementi nel proprio repertorio sonatistico (si pensi soprattutto alle op. 32 n. 3 e 34 n. 1 entrambe in do maggiore e quasi coeve dell'op. 2 beethoveniana), elemento rivelatore della destinazione "pubblica" del lavoro sono le due cadenze contenute nel primo e nel quarto tempo: particolare tipico del concerto, ma infrequente nella sonata da camera. D'inconfondibile matrice clementina sono pure, sempre nei tempi estremi, i passi in ottave e seste spezzate, le scale di terze e seste parallele nonché la cellula caratterizzatrice del tema fondamentale del primo Allegro, basato ancora su quelle terze parallele, le quali, al dire di Mozart, erano una "specialità" del maestro anglo-romano. All'euforica estroversione del concertista che padroneggia con gioia quasi proterva le difficoltà della tastiera; al gusto, rivelatore dei nuovi tempi, per un virtuosismo che incanta ed ammalia le platee, si contrappone l'assoluta interiorità dell'Adagio, stupenda pagina turbata, nella parte centrale, dall'oscura inquietudine di una melodia sincopata e protesa nell'estrema zona acuta della tastiera. Dopo uno Scherzo giocato sull'effetto dell'entrata delle varie voci in serrate imitazioni, il luminoso Finale, con i suoi splendori timbrici e il suo slancio ritmico, è come l'epifania trionfale del do maggiore beethoveniano, che per la prima volta appare in tutta la sua ottimistica forza persuasiva.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I primi anni viennesi di Beethoven, cui appartengono le tre Sonate op. 2, sono contraddistinti da una attività intensissima e frenetica, con un accavallarsi di concerti pubblici, accademie private e impegni mondani a ritmo serrato. Tutta la buona società, e in genere i dilettanti di musica della capitale asburgica, erano rimasti affascinati dalla potente originalità del musicista di Bonn, il quale, per suo conto, si dimostrava particolarmente abile nel promuovere la sua immagine di bel tenebroso, capace di colpi di testa a dir poco bruschi, come quando, presentando in pubblico le tre Sonate op. 2, si rifiutò di considerarle frutto dell'insegnamento di Haydn, dichiarando che da lui non aveva imparato un bel niente.

Se di Haydn e Mozart la fatica giovanile beethoveniana risente qualcosa, questo è da ricercarsi nella dimensione, tutto sommato abbastanza superficiale, di alcuni tratti melodici e ritmici di matrice comune, ma non certo nell'impianto complessivo o nella scrittura pianistica. La Sonata in do maggiore, in particolare, è improntata a un tipo di virtuosismo pianistico quanto mai lontano dalla scrittura dei classici viennesi e invece molto affine alla tecnica robusta e vistosa di Muzio Clementi. Passaggi in terze, seste e ottave sono profusi in abbondanza, principalmente nei due movimenti estremi.

L'Allegro con brio iniziale ha una esposizione imponente che si avvale di tre temi invece dei consueti due. Uno sviluppo modulante derivato da una cellula secondaria e con una piccola sezione contrappuntistica conduce alla ripresa, culminante in una virtuosistica cadenza - elemento assai raro in una Sonata.

Il successivo Adagio è nella lontana tonalità di mi maggiore ed ha una struttura tripartita. Alla prima sezione, intima e serena, fa contrasto l'ampio episodio centrale in mi minore, dal colore cupo e l'incedere agitato. Lo Scherzo è uno dei primi esempi del genere in Beethoven. Una piccola cellula ritmica, condotta inizialmente in stile fugato, è alla base della composizione.

L'atmosfera brillante del primo movimento ritorna nel luminoso finale - Allegro assai - in un trascinante ritmo di 6/8.

Giulio D'Amore


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 7 febbraio 1986
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 12 aprile 1989

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Ultimo aggiornamento 24 gennaio 2014