Sonata per pianoforte n. 30 in mi maggiore, op. 109


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Vivace, ma non troppo
  2. Prestissimo (mi minore)
  3. Andante molto cantabile ed espressivo
Organico: pianoforte
Composizione: 1820
Edizione: Schlesinger, Berlino 1821
Dedica: Maximiliane Brentano
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Le ultime tre Sonate per pianoforte di Beethoven nacquero quasi contemporaneamente tra il 1819 e il 1822 in un prodigioso fiotto di unitaria ispirazione, e la loro elaborazione si svolse parallelamente a quella dei due colossi sinfonico-vocali della Nona Sinfonia e della Missa Solemnis. La prima di esse, op. 109 in mi maggiore, la tonalità dolce e iridescente dell'Heimlichkeit beethoveniana, apparve nel novembre 1821 e fu dedicata dal musicista con una lettera affettuosa a Fraulein Maximiliana, figlia diciannovenne di Franz Brentano, l'amico provvido e generoso che in quegli anni difficili era diventato per il maestro (ma con una liberalità e una sollecitudine ben maggiori) ciò che il commerciante framassone Michael Puchberg era stato per Mozart. La ricerca di una nuova razionalità strutturale e dialettica nella successione dei brani che costituiscono la Sonata, sembra essere qui il principale problema formale che assilla Beethoven e che egli risolve a favore di una geniale asimmetria di strepitosa novità: non più tre o quattro movimenti distribuiti secondo il tradizionale principio dell'equilibrio interno, né due Allegri monumentali collegati da un breve e succoso tempo lento, come nell'Aurora; ma il modernissimo, apparente "squilibrio" tra il Vivace, ma non troppo e il Prestissimo iniziali, brevi e straordinariamente concisi, e la grande espansione del «Tema con variazioni», chiave di volta su cui è spostato il baricentro della Sonata e attorno alla quale gravitano gli altri due movimenti. Carattere introduttivo e quasi improvvisatorio, col suo incipit preludiante su un basso che procede per armonie volutamente "ingenue" e "convenzionali", possiede il primo tempo: un vero movimento in forma-sonata (e non una fantasticheria rapsodica, come è stato spesso interpretato) sia pure trasfigurato nella nuova dimensione strutturale che è tipica dell'ultima maniera beethoveniana. Qui il secondo tema appare infatti addirittura come un organismo a sé stante e completamente indipendente per tempo (Adagio espressivo), ritmo e materiale tematico dal resto del brano: una vera e propria "immagine" musicale autonoma e strutturalmente integrata, così come ne troveremo, con il salto di un secolo e di tutta la civiltà strumentale romantica, fedele ad ogni costo al principio della "unitarietà" sonatistica, in certa musica del Novecento: pensiamo agli altri ultimi tre Quartetti di Bartók, alla Sonata per pianoforte e violoncello di Debussy o addirittura al "dialogo" delle "figure" sonore nella Serenata o nel Quartetto di Petrassi. Anche il Prestissimo in mi minore si articola nelle strutture di un movimento in forma-sonata; ma quanto il tempo precedente appariva vario, fluttuante e dai contorni imprecisi, altrettanto questo è meravigliosamente unitario e stringato; e se il primo era avveniristico, il secondo è solidamente impiantato nella temperie espressiva cavalieresca e appassionata di un Romanticismo già schumanniano.

Come si è detto, entrambi i movimenti iniziali introducono e preparano al mirabile edificio del «Tema variato», primo esempio, e tra i più insigni, di ciò che l'arte della variazione è divenuta per il Beethoven degli ultimi capolavori. Il tema, sorta di sarabanda angelica dall'arco armonico e melodico della più ortodossa purezza (modulazione dalla tonica alla dominante nella prima parte, ritorno alla tonalità fondamentale nella seconda, il tutto nella sacramentale quadratura delle otto battute più otto) raggiunge, attraverso le sei variazioni, una progressiva sublimazione e smaterializzazione. Lungo il suo cammino si aprono giardini dove sbocciano le più pure melodie sul nudo stelo di radi ed elementari accordi, come nella prima variazione; o sentieri già sperimentati, ma ripercorsi con l'entusiasmo del pioniere, come nella terza, in buona parte della quarta e nella quinta variazione, nelle quali Beethoven riscopre e fa suo il Bach delle Variazioni Goldberg. La sesta variazione, di gran lunga la più geniale e importante, porta alla polverizzazione del materiale tematico attraverso una straordinaria proliferazione di note nelle parti intermedie, che finiscono per dissolversi nel magico alone timbrico di un doppio trillo sulla dominante. Da questo luminoso barbaglio alla fine il tema riemerge, con un liquido scampanìo nelle zone più acute della tastiera e sopra il fluttuare delle rapide figurazioni di biscrome della mano sinistra, per poi placarsi nella sommessa e nuda umiltà originaria dell'epilogo. Non si tratta, però, di un ritorno puro e semplice del tema, come avviene nelle Variazioni Goldberg: lievi ritocchi alla struttura primitiva, qualche raddoppio di ottava nel registro grave bastano per calare un'ombra crepuscolare su questo struggente congedo, per fare intendere attraverso quali avventure nel mondo del suono sia passata questa melodia piena di pace.

Giovanni Carli Ballola

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Beethoven concepì la Sonata in mi maggiore op. 109 nel 1819, la elaborò nel 1820 per pubblicarla poi nel novembre 1821, con dedica a Massimiliano Brentano. In questa, che è la prima del gruppo delle ultime tre Sonate pianistiche di Beethoven, si definiscono nel modo più evidente taluni connotati del cosiddetto terzo stile di Beethoven: assoluta libertà fantastica che trascende i limiti della tradizionale forma di sonata; tendenza ad una rinnovata linearità del discorso per cui l'armonia da un lato viene costituita spesso come risultante di moti contrappuntistici, mentre dall'altro si dissolve in un disegno rabescato, per stemperarsi o polverizzarsi altre volte in atrnosferiche fluttuazioni. Alle più audaci arditezze morfologiche e sintattiche si contrappone in queste tarde opere beethoveniane il ricorso frequente alle formule più schematicamente convenzionali, che appaiono qui in una singolare funzione privativa, poiché si intuisce che esse sono adoperate per espellere dalle immagini sonore ogni residuo gesto drammatico, indifferenziando in un certo senso la materia musicale e conferendole un senso dì superamento, di liberazione da ogni passione contingente. In virtù di questo procedimento i fondamentali motivi del mondo interiore di Beethoven non compaiono più in drammatica opposizione dialettica, ma si placano e si trasfigurano liricamente sul piano altissimo di una distaccata, seppur intensissima contemplazione. Ed è in questa sublimazione lirica delle risultanti emotive della drammatica esperienza umana di Beethoven che si devono ravvisare i risultati espressivi di questi suoi capolavori, senza ricorrere a nessuna di quelle interpretazioni e metafore con le quali gli esegeti hanno cercato di definirne verbalmente le qualità poetiche, parlando della Sonata op. 109 come di una «visione aerea, soave, degna di accompagnare il corteo di una fata» (Wartel), o come fece il Lenz, di musica da suonarsi «sotto le volte di qualche cattedrale gotica spagnola», o trovandovi addirittura, come fece altri, un clima da camera mortuaria, visione che non impedì poi a Romain Rolland di scorgere nella stessa musica «un giuoco del sogno e dell'amore» e al Bruers di sentirvi delle note «che risaltano come perle, come gocce di una misteriosa fontana». Fatto sta che ogni tentativo di definire mediante impossibili equivalenti il significato di questa, come di altre musiche altissime, oltre ad essere esteticamente illegittimo, non può avere efficacia alcuna dato che il mondo di codeste musiche si realizza, al di là del limite oltre il quale parole ed immagini esauriscono il loro significato. Ci limiteremo dunque ad annotare che la Sonata si articola in tre movimenti: un ondeggiante e carezzevole Vivace ma non troppo, un fantastico Prestissimo che tiene il luogo dell'abituale Scherzo e, al posto del finale in forma di rondò che Beethoven abbandona in tutto il gruppo delle sue ultime Sonate, un Andante molto cantabile ed espressivo che nel corso di sei successive Variazioni, più che «variato» nel senso consueto della parola, viene gradatamente trasceso, dissolto e sublimato, fino a risorgere apparentemente uguale a se stesso, ma in realtà avvolto in una sublime luce trasfiguratrice.

Roman Vlad

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il panorama storico-musicale che vede nascere i capolavori della tarda produzione beethoveniana è simile a un deserto, in cui quelle opere nate dalla pura contemplazione del suono si levano a distanza inattingibile per tutte le altre composizioni del periodo, con l'unica eccezione di quelle di Schubert, che però era una figura ancor pili isolata e impopolare del pur solitario Beethoven. Il cammino di totale rigenerazione stilistica che ha portato alle ultime Sonate, alla Missa Solemnis, alla Nona Sinfonia e agli ultimi Quartetti segna anche il totale isolamento di Beethoven nei confronti del proprio tempo, di quello che era stato il suo pubblico negli anni della costruzione dell'edificio sinfonico e dello slancio contenutistico delle opere di maggior impegno ideale: il compositore si è ormai totalmente rifugiato in un consapevole solipsismo in cui è la sola musica a dettare le ragioni. L'attività creatrice del Beethoven degli ultimi anni può pertanto essere definita come una speculazione esclusiva del mondo dei suoni, delle forme, sezionate sempre più criticamente, dell'espressione musicale allo stato puro. L'annullamento di ogni influenza temporale, il distacco nei confronti del presente, ha portato quelle opere al di sopra del tempo e dello spazio, ponendole idealmente in un colloquio diretto con i grandi architetti del suono prima di Beethoven e dopo di lui.

Il pianoforte ha rappresentato il primo gradino di quest'indagine nell'assoluto della musica. E infatti con le Sonate opp. 90 e 101 che si suole far iniziare il cosiddetto 'terzo stile' beethoveniano. Attraverso le ultime sei sonate per pianoforte l'autore ha rimesso in discussione tutto il proprio universo stilistico, e ha gettato le basi più sicure per la scalata ai grandi capolavori sinfonico corali e per il distillato spirituale dell'estremo testamento quartettistico. La classica forma-sonata era già stata da Beethoven stesso violentemente minata nei suoi aurei equilibri, attraverso una radicale contrapposizione tematica e un progressivo ingigantimento della sezione di sviluppo. Nelle sonate dall'op. 90 in poi, è la sintassi stessa della forma a subire le più radicali trasformazioni, nel tentativo di liberare dai vincoli della grammatica e delle regole settecentesche la libera espansione dell'idea musicale e della dialettica degli stati d'animo. Per contro, di fronte a una tale rivendicazione della libertà compositiva, Beethoven si riaccosta con venerazione d'artista alle grandi forme del passato più glorioso, alla fuga, alle variazioni, tramite un'immersione totale nella sapienza contrappuntistica degli spiriti magni della musica europea: Palestrina, Bach, Händel, Haydn. Senza più avere bisogno di richiami esterni, filosofici, politici, morali, ideali, mondani, Beethoven si affida tutto allo spirito della musica, destinando il frutto delle sue composizioni a un più consapevole pubblico di posteri. Le novità formali, armoniche e contrappuntistiche dell'ultimo Beethoven troppo a lungo sarebbero rimaste incomprensibili; qualcuno, come il Lenz, avrebbe addirittura attribuito gli inafferrabili monumenti sonori alla «demenza del genio». Si può dire, infatti, che soltanto la fine dell'Ottocento e il nostro secolo abbiano saputo far tesoro di questo altissimo testamento.

Le ultime tre Sonate sono incorniciate da due opere che, in differenti settori, rappresentano il non plus ultra del pianismo beethoveniano. Da un lato, la ciclopica Sonata op. 106 Hammerklavier indica una via di non ritorno nel totale esaurimento del costruttivismo sonatistico, espanso con sovrumana determinazione in ogni sua componente formale e contrappuntistica; dall'altro, ancora a venire, le Trentatré Variazioni su un Valzer di Diabelli esprimono il monstrum della più capillare ed estesa indagine sulle possibilità della tecnica della variazione, il supremo virtuosismo compositivo dimostrato su un tema di banale irrilevanza. Strette fra queste colonne d'Ercole, le tre Sonate opp. 109-111 segnano un momento di trapasso decisivo. Dopo la rigorosa campata architettonica della Hammerklavier, la forma-sonata si presenta a Beethoven non più come un'esigenza di quadratura formale, già esaurita con mezzi totali ed estremi, bensì come lo stimolo liberamente assunto per la definizione di una dialettica che genera la forma e non è più da essa generata. La gabbia formale si riduce qui a mero contenitore di un materiale che serva da introduzione solenne o fantastica, e comunque liberissima, all'evoluzione espressiva della variazione o a quella più salda e rigorosa della costruzione contrappuntistica. Ma il carattere che più d'ogni altro informa queste Sonate è il lirismo, l'abbandono al canto più terso, nella ricerca dell'unità espressiva al di là dei confini formali di ciascun movimento e degli schemi ereditati dal settecentesco temperamento degli affetti.

È notevole considerare come in questi stessi anni, dal 1819 al 1822, che videro la nascita dei tre capolavori pianistici, Beethoven stesse parimenti elaborando e costruendo i due grandiosi edifici della Missa Solemnis e della Nona Sinfonia. Le tre Sonate potrebbero allora anche apparirci come una sorta di esercizio spirituale, affrontato nel mondo conchiuso e meccanico di una tastiera a martelli, prima dell'ultima vertiginosa celebrazione dell'umanità attraverso lo spirito della musica, e con ben altri mezzi oratori.

La prima Sonata, in si maggiore, fu pubblicata nel novembre 1821 come op. 109 e con la dedica a Maximiliane Brentano, figlia diciannovenne dell'amico Franz, che in tante occasioni era venuto incontro alle necessità economiche dello sprovveduto maestro. Tutta la Sonata si muove alla ricerca di un nuovo ordine formale, all'interno sempre di una totale libertà espressiva, incapace ormai di piegarsi a forme prestabilite. Pertanto, la struttura fortemente unitaria della Sonata è, a ben vedere, generata da un ribaltamento gerarchico degli equilibri classici: all'inizio due movimenti veloci, piuttosto brevi, un anomalo Allegro di sonata e uno Scherzo; quindi, ben altrimenti dilatato e importante, un Andante con sei variazioni diviene il polo espressivo della composizione. Il tempo lento, qui continuamente cangiante attraverso la variazione, ha insomma soppiantato la preponderanza classica degli 'allegri', dando vita a una forma nuova, che scaturisce spontaneamente dall'esaltazione dei contenuti lirici. Il primo movimento, a prima vista, sembrerebbe non possedere i tratti della forma-sonata; il carattere fantastico, improvvisatorio del tema d'apertura, l'iterata risposta di un intervallo discendente di quarta a uno ascendente di terza, lascierebbe pensare a un preludiare estraneo agli schemi formali, tanto pili quando il tempo d'inizio, Vivace ma non troppo, cede il posto a un altro andamento, molto più calmo, Adagio espressivo, che segna l'arrivo di un diverso materiale tematico. In realtà questo repentino cambiamento di stati d'animo, di sapore già schumanniano, porta con sé la presentazione dei due gruppi tematici di una forma-sonata interpretata con estrema libertà, al punto di cambiare il tempo a seconda del carattere delle melodie. Praticamente senza soluzione di continuità, subentra quindi il Prestissimo in mi minore, anch'esso in forma-sonata, ma con ben altro rigore, del resto giustificato dal carattere fiero e virile del nuovo tema. La linea del basso che accompagna il tema d'apertura servirà più avanti come tema per un canone a due parti nella sezione di sviluppo. Il secondo tema ha invece un aspetto più misterioso, e subisce maggiori interventi cromatici, che ne aumentano l'inquietudine. Concluso con una brusca coda il Prestissimo, si apre la sezione maggiore della Sonata, l'Andante molto cantabile ed espressivo, organizzato in forma di tema con sei variazioni. Il tema è una sorta di sarabanda bipartita perfettamente simmetrica, un momento di massima concentrazione spirituale: al fine di rendere più chiare all'esecutore le sue intenzioni, Beethoven ha anche tradotto in tedesco («Gesangvoll, mit innigster Empfindung») l'indicazione di tempo e d'espressione. Di variazione in variazione, il puro incanto del tema acquista una sempre maggiore carica emotiva. Nella prima, prende l'aspetto beato di una danza lenta, scandita da morbidi accordi della mano sinistra in un andamento quasi di mazurca, ricca di abbellimenti e appoggiature. Nella seconda, si rarefà in una sequenza di accordi spezzati, in note sempre staccate e leggere, fino a un crescendo sincopato di fortissima carica emotiva, che si scioglie solo nella terza variazione, rigorosamente contrappuntistica, in forma di invenzione a due voci e in ritmo binario. Torna il ritmo ternario, ma composto (9/8) nella quarta variazione, di nuovo espressiva e di nuovo indirizzata al climax risolto dall'ingresso della quinta variazione, una marziale fuga a tre voci, di andamento mosso. L'ultima variazione, la più lunga della serie, ritorna al tempo meditativo del tema. Questo vero e proprio congedo rinuncia a ogni soluzione melodica o contrappuntistica per mostrare il tema avvolto da un pulviscolo sonoro di trilli sulla dominante, quasi un gorgo armonico in cui si percepisce appena l'eco dell'angelica sarabanda. Beethoven esplora qui, come mai prima era avvenuto, l'universo timbrico del pianoforte, creando grappoli indistinti di sonorità in sorda ebollizione, sopra i quali, nelle regioni sovracute della tastiera, cadono come gocce argentee le note distillate del tema. Bisognerà aspettare Debussy per ritrovare una simile abbagliante fascinazione timbrica.

Alberto Batisti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 10 ottobre 1996
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 7 marzo 1968
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro della Pergola, 14 maggio 1988

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Ultimo aggiornamento 13 aprile 2016