Sonata per violoncello e pianoforte n. 2 in sol minore, op. 5 n. 2


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Adagio sostenuto ed espressivo
  2. Allegro molto, piu tosto presto
  3. Rondò: Allegro (sol maggiore)
Organico: violoncello, pianoforte
Composizione: 1796
Edizione: Artaria, Vienna 1797
Dedica: Federico Guglielmo II di Prussia
Introduzione comune alle due sonate op. 5 (nota 1)

La composizione delle Sonate op. 5 fu dovuta a circostanze casuali. Nel giugno del 1796 Beethoven, che stava ancora pensando alla carriera concertistica, e che nei primi mesi dell'anno si era fatto sentire a Praga e forse a Lipsia e Dresda, si recò a Berlino. Il re di Prussia, Federico Guglielmo II, suonava il violoncello (per lui Mozart aveva scritto i Quartetti "Prussiani" e Boccherini molti Quartetti), ed aveva al suo servizio uno dei più abili violoncellisti dell'epoca, Jean-Pierre Duport, al quale si deve lo sviluppo della tecnica del capotasto. Beethoven, che suonò a corte, offrì al re violoncellista le due Sonate, e le eseguì insieme con Duport.

La Sonata per pianoforte e violoncello non esisteva ancora, alla fine del Settecento, come genere specifico e affermato. Il rapporto tra il pianoforte ed uno strumento di tessitura grave pone infatti problemi compositivi particolarissimi e di difficile soluzione, perché il suono del violoncello viene facilmente coperto dal suono del pianoforte. La Sonata per pianoforte e violoncello non era quindi ancora stata affrontata, ed era rimasto in vita, anacronisticamente, il vecchio genere della Sonata per violoncello e basso continuo (Sonate di J. B. Tricklir e di J. G. Ch. Schetky, 1785 circa, di J. P. Duport, 1788, di A. Kraft, 1790 circa). Ciò permise a Beethoven di muoversi con maggior libertà di quella che egli non si permettesse con altri generi. Beethoven sentiva infatti fortemente il problema dei generi, e cioè il problema della continuità storica tra sé e il passato. Il momento in cui Beethoven operava vedeva il trapasso della musica dalla dimensione dell'attualità alla dimensione della storia. Mentre in passato la musica, tranne che in rare eccezioni, era stata un prodotto di consumo, destinato a cadere con la generazione che lo aveva creato, gli ultimi decenni del Settecento vedono sorgere iniziative per l'esecuzione di musiche desuete: a Londra viene fondato nel 1776 il Concert of Ancient Music, che fa eseguire musiche composte da almeno vent'anni; a Vienna il barone van Swieten, protettore di Beethoven, fa eseguire Bach, Händel, Hasse, ecc. La rivoluzionaria conseguenza di questo nuovo indirizzo era inevitabile: il compositore avrebbe dovuto misurarsi, più che con i contemporanei, con i compositori del passato, e la definitiva consacrazione del valore di un artista sarebbe spettata, più che ai contemporanei, ai posteri.

Beethoven operò quasi sempre in funzione non della moda presente, ma dei risultati del passato che egli riteneva più validi e più avanzati, cercando di recuperare da una parte certi principi compositivi caduti in disuso, e di esplorare dall'altra, sistematicamente, le possibilità linguistiche offerte dal sistema musicale, basato sulla scala temperata allora vigente da meno di un secolo.

Il fatto che la Sonata per pianoforte e violoncello non avesse i suoi Haydn e i suoi Mozart permise a Beethoven di fare delle sperimentazioni arditissime. In particolare, la Sonata in due tempi, che per tradizione era piuttosto breve, venne da lui enormemente dilatata: i primi tempi di entrambe le Sonate op. 5 raggiungono dimensioni (400 e 553 battute) del tutto eccezionali. Se si considerano i due ritornelli, nella seconda Sonata si toccano una dimensione di 989 battute e una durata di circa 20 minuti, che superano i corrispettivi dati dell'Eroica (842 battute e 18 minuti circa). Anche l'introduzione in movimento lento, allora non comune, e comunque generalmente molto breve, viene ampliata (34 e 44 battute). Le due Sonate assumono così proporzioni che preannunciano le ricerche rivoluzionarie del 1803-1804. Anche il linguaggio armonico appare nettamente più avanzato di quello delle Sonate op. 2 per pianoforte.

L'integrazione di pianoforte e violoncello è perseguita con molta attenzione. I moduli più tipici sono i seguenti: 1) violoncello in funzione melodica, in registro medio-acuto, con pianoforte in registro medio e grave; 2) violoncello in registro grave, pianoforte in registro medio-acuto; 3) violoncello e pianoforte nello stesso registro, con ritmi molto differenziati. La parte del violoncello, tuttavia, non è sempre all'altezza della parte del pianoforte, e talvolta ha semplicemente funzioni di riempitivo, tanto da far pensare che Beethoven si appoggiasse inconsciamente ai moduli del Concerto per pianoforte e orchestra. Si può però notare come Beethoven progredisca nettamente, in questo senso, dalla prima alla seconda Sonata.


Guida all'ascolto

Come abbiamo detto anche a proposito della prima Sonata, la novità e l'originalità dell'op. 5 non esclude un rapporto con esperienze compositive del passato. Nel primo tempo della prima Sonata, Beethoven aveva sviluppato ulteriormente un impianto architettonico già esperimentato nell'op. 2 n. 3; nel primo tempo della seconda Sonata si stabilisce indubbiamente un rapporto con il Mozart tragico della Fantasia K. 396 e della Sonata K. 457. Le battute 22-27 dell'Adagio introduttivo stanno in diretto rapporto con le battute 34-46 della Fantasia K. 396. Nell'Allegro Beethoven ripensa la forma del primo tempo della Sonata K. 457, con i due ritornelli tradizionali, ma con un'ampia coda, del tutto insolita, dopo il secondo ritornello. Anche il carattere espressivo dell'Allegro, ci sembra, risente della Sonata di Mozart: in questo caso, del finale, che era stato uno dei primi esempi di espressione tragica in un ritmo ternario.

Abbiamo già fatto notare le proporzioni grandiose del primo tempo. Le riassumiamo ora in uno specchietto:


Introduzione 44 battute
Esposizione 171 battute
Sviluppo 99 battute
Riesposizione 166 battute
Coda 73 battute

È interessante osservare che Beethoven, pur derivando da Mozart una parte dello schema compositivo, non ripete le proporzioni mozartiane, perché l'aggiunta dell'Adagio introduttivo provoca importanti modificazioni nei rapporti dell'esposizione con lo sviluppo e con la coda: in Mozart, infatti, lo sviluppo è lungo il 33,7% e la coda il 24,2% dell'esposizione, mentre in Beethoven lo sviluppo è lungo il 58,5%, e la coda il 42,6%.

L'inizio dell'Allegro, confrontato con l'inizio dell'Allegro della prima Sonata, mostra il progresso di Beethoven. Nella prima Sonata veniva adottato lo schema comune della Sonata concertante per pianoforte e violino, con esposizione del primo tema all'uno, poi all'altro strumento; la necessità di concludere armonicamente l'ultima battuta dell'Adagio introduttivo faceva però sì che il violoncello accompagnasse il pianoforte nelle prime battute dell'Allegro, e questa soluzione sapeva veramente di ripiego. All'inizio della seconda Sonata, i due strumenti vengono invece perfettamente integrati, e gli schemi della Sonata concertante vengono superati mediante una serie di domande e risposte che simulano una esposizione di fuga a due voci. Si tratta veramente di un'idea di grandissima genialità, che non trova un'attuazione perfetta - se vogliamo essere ipercritici - soltanto perché un tratto troppo lungo (battute 59-66) è affidato al solo pianoforte; non ci pare improbabile che un Beethoven più maturo avrebbe potuto eliminare le battute 63-66, per reintrodurle invece alla riesposizione, dove la loro presenza vale in funzione della successiva modulazione. L'integrazione melodica tra i due strumenti viene mantenuta per tutto il primo tempo. L'integrazione ritmica non è invece completa, perché il ritmo di terzine di crome è riservato al solo pianoforte, in quanto non sarebbe stato eseguibile, alla fine del Settecento, dalla tecnica d'arco del violoncello: ma il materiale melodico viene distribuito con tale perfezione da far apparire accademico e astratto qualsiasi appunto sulla non completa integrazione del ritmo. È da notare un particolare della scrittura pianistica: alle battute 466-470, raddoppiando le note ribattute del violoncello, Beethoven impiega al pianoforte le ottave alternate, molto sonore, e destinate a diventare un luogo comune della tecnica pianistica del romanticismo; per un effetto analogo, nel primo tempo dell'op. 2 n. 3, Beethoven aveva invece impiegato ancora (battute 85-88 e 252-255) le settecentesche ottave spezzate.

Il secondo tempo è in complesso meno interessante, perché il pianoforte prevale quasi ovunque; si devono eccettuare l'episodio centrale (battute 100-166), molto ampie, e la ripresa, variata e ampliata, del primo tema, con bellissime combinazioni timbriche dei due strumenti. La parte del pianoforte è molto varia e assai difficile: in realtà, il secondo tempo parrebbe pensato, inizialmente, come Rondò per pianoforte e orchestra.


Guida all'ascolto n. 2 (nota 2)

Le due Sonate op. 5, dunque, segnano l'apertura di un vero e proprio nuovo corso nella storia dello strumento ad arco. Il decisivo inserimento di Beethoven negli eventi relativi allo strumento avvenne grazie all'incontro con uno straordinario virtuoso, Jean-Louis Duport, uno dei protagonisti della diffusione europea del violoncello; Duport aveva raggiunto a Berlino nel 1789 (in seguito ai fatti rivoluzionari) il fratello Jean-Pierre, anch'egli violoncellista e direttore presso la cappella di Friedrich Wilhelm II. L'incontro fra compositore e strumentista avvenne appunto nella capitale prussiana, dove Beethoven si era recato nella primavera 1796, nel corso di una tournée, compiuta soprattutto nelle vesti di pianista. Ad informarci che le due Sonate op. 5 furono scritte proprio in questa occasione «per Duport (primo violoncellista del re)» è Ferdinand Ries - allievo e biografo del maestro -, secondo il quale inoltre Beethoven suonò di fronte a Friedrich Wilhelm, ricevendo come ricompensa una tabacchiera d'oro. Alla loro pubblicazione - avvenuta per i tipi di Artaria a Vienna nel febbraio 1797 - le Sonate furono dedicate appunto al re prussiano, egli stesso violoncellista dilettante.

Il fatto che le due Sonate siano state scritte in stretto contatto con Jean-Louis Duport è stato confermato, in anni recenti, dallo studio degli abbozzi (oggi conservati a Londra e Bergamo), redatti su carta di tipo berlinese. Proprio la vicinanza di Duport ebbe peraltro una sicura ripercussione sul contenuto delle composizioni. Già negli anni di Bonn e nei primi anni viennesi Beethoven era entrato in relazione con diversi solisti di violoncello (fra cui il celebrato Bernard Romberg). Tuttavia - come ha dimostrato Lewis Lockwood («Beethoven's early works for violoncello and contemporary violoncello technique» in Beethoven-Kolloquium 1977) - le Sonate op. 5 contengono molte peculiarità tecniche nell'uso del violoncello che sono direttamente ascrivibili a Duport, e che dovevano essere poi infatti codificate nell'Essai sur le doigté du Violoncelle et la conduite de l'archet, edito nel 1806 ma maturato dallo strumentista nel corso di oltre un ventennio.

Le due Sonate op. 5 ci mostrano dunque Beethoven impegnato in modo "militante" nell'impiego delle più recenti risorse della tecnica violoncellistica. Ma c'è un aspetto ancora più importante che proietta le due Sonate all'avanguardia, e riguarda l'equilibrio strumentale. Fino allora la letteratura violoncellistica aveva offerto sonate che vedevano in rilievo assoluto solamente uno dei due strumenti (violoncello o pianoforte) mentre l'altro si limitava ad "accompagnare". Nelle Sonate op. 5 invece gli strumenti assumono un ruolo fra loro assolutamente paritario: obiettivo ambiziosissimo - soprattutto se si considera che l'op. 5 rappresenta il primo esempio di sonate "a due" del compositore - quanto avveniristico.

Analoga per le due composizioni è la forma scelta da Beethoven: appena due movimenti (anche se di vaste dimensioni), un primo tempo in forma sonata, preceduto da un'introduzione lenta, ed un secondo tempo in forma di rondò. Si tratta di una forma eccentrica, che rinuncia al tradizionale movimento lento in posizione centrale; forse per la difficoltà incontrata nello sfruttare le capacità cantabili dello strumento ad arco.

Ambiziosa - anche nelle dimensioni complessive - ed omogenea la Sonata in sol minore, aperta da un Adagio sostenuto ed espressivo di grande profondità concettuale, con le interlocutorie scale per moto contrario dei due strumenti. L'Allegro molto piuttosto presto è il fulcro della composizione: anche qui manca una vera dialettica tematica (i due temi sono derivati l'uno dall'altro), ma il ruolo del violoncello è molto più autonomo, concentrato in espressioni cantabili, mentre sono lasciate al pianoforte le agitate terzine di accompagnamento che percorrono l'intero tempo. Brillante, scorrevole, variato negli episodi, il Rondò è fra le pagine umoristiche più compiute del giovane Beethoven, e vede un pieno impegno tecnico anche del violoncello.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto n. 3 (nota 3)

La Sonata in sol minore, seconda delle due composte nel 1795 per Duport e Federico Guglielmo, presenta rispetto alla sorella (probabilmente più anziana) in fa maggiore caratteri di maggiore interesse. Anche in essa, naturalmente, permangono le ipoteche storiche della sudditanza del violoncello, non ancora completamente emancipato dal ricordo dell'antico ruolo di basso continuo, rispetto al pianoforte, vero dominatore della composizione perché veicolo principe delle istanze espressive, destinatario del maggior peso virtuosistico e colonna portante dell'intero discorso musicale. Ma è indubbio che in questo secondo confronto con il duo violoncello-pianoforte Beethoven prova di aver compiuto più di un passo avanti: sul piano dell'integrazione cameristica, anzitutto, giacché fra i due strumenti tende sempre di più a instaurarsi un dialogo attivo, attribuendosi maggiore importanza sia costruttivamente che espressivamente alle proposte del violoncello. Ma principalmente i meriti della Sonata in sol minore paiono affermarsi sul terreno puro e semplice della creazione artistica. L'ampio Adagio che introduce il primo tempo (anche qui Beethoven rinunzia alla suddivisione classica in quattro o almeno tre movimenti, impiantando l'opera su un tempo di Sonata seguito da un Rondò) è pagina di grande intensità espressiva, capace di accogliere in movenze di elegante politezza formale le istanze di un patetismo composto e severo, scandito sul solenne incedere dei ritmi puntati e su brevi effusioni cantabili dove il violoncello dimostra di aver forse qualcosa in più da dire rispetto al pianoforte. L'Allegro vero e proprio non tradisce il carattere annunciato dall'introduzione lenta, limitandosi ad alleggerirne l'intensità, e ampliandone semmai la gamma espressiva con la grazia di certe pieghe melodiche. Sicché par d'obbligo ripetere con Giovanni Carli Ballola come questo primo tempo sia «una delle creazioni più affascinanti della giovinezza beethoveniana: una di quelle opere la cui irripetibile felicità è raggiunta attraverso il ricorso ingenuo ed entusiastico a un linguaggio avuto in eredità, nel quale l'artista attinge a piene mani, come ad un tesoro di cui ancora non si preoccupa di far maturare gli interessi». Il Rondò finale consegue una piena coerenza con il clima del primo movimento, pur orientandosi in diversa direzione, con i larghi spazi dedicati alle sortite virtuosistiche del violoncello, cui si propongono, almeno qui, non lievi difficoltà tecniche, e con l'adozione di un andamento decisamente brillante, non privo di una manierata eleganza quasi popolaresca.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 1 Febbraio 1991
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 14 febbraio 1995
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentono,
Firenze, Teatro della Pergola, 2 giugno 1988

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Ultimo aggiornamento 31 marzo 2016