Trio per archi e pianoforte n. 7 in si bemolle maggiore, op. 97 "L'Arciduca"


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro moderato
  2. Scherzo. Allegro
  3. Andante cantabile me pero con moto (re maggiore)
  4. Allegro moderato
Organico: pianoforte, violino, violoncello
Composizione: Vienna, 26 Marzo 1811
Prima esecuzione: Vienna, Romisch-Könige Hôtel, 11 Aprile 1814
Edizione: Steiner, Vienna 1816
Dedica: Arciduca Rodolfo d'Asburgo
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Scritto nel mese di marzo 1811, lo stesso anino in cui furono iniziate la Settima e l'Ottava sinfonia, il Trio per archi e pianoforte in si bemolle maggiore op. 97 è generalmente considerato uno dei capolavori di questo genere. Dedicato da Beethoven& all'amico, allievo e mecenate Rodolfo d'Asburgo, da cui la sua denominazione, il Trio «Arciduca» è un'opera straordinaria per la grandezza e la varietà dell'impianto formale, per inventiva espressività e varietà timbrica, nella quale il genio dei suo grande compositore emerge a «tutto tondo» nel pieno della sua maturità.

II movimento iniziale (Allegro moderato) si apre sulle note del solo pianoforte, con un tema iniziale nobile ed elegante dalla cantabilità liederistica, sostenuto da un delicato impasto sonoro di accordi ribattuti sulla stessa nota di basso. Il violoncello fa il suo ingresso con breve stacco solistico, un gesto teatrale a cui fa eco il violino che, nelle battute successive riprende la melodia del tema, dando a esso un carattere meno aulico e più appassionato. Echi del primo tema, fatti risuonare dagli archi sopra un flusso di terzine del pianoforte, portano a un secondo gruppo tematico, costituito da un ricco insieme di idee ritmico-melodiche che si apre con un grazioso fraseggio a note ribattute, per poi sciogliersi in un reiterato inciso melodico del violoncello. Quando poi le terzine del pianoforte «rallentano» la velocità dell'accompagnamento, emerge un secondo soggetto tematico dolce e affettuoso che va a confluire nella coda conclusiva dell'Esposizione.

Nello Sviluppo, l'incipit del primo tema rimbalza tra i tre strumenti per poi ridursi a sole tre note (manca la nota iniziale). Gli archi ripropongono quindi la seconda metà del primo tema sopra un soffuso tappeto di ottave del pianoforte, fino a quando l'atmosfera diviene ancor più rarefatta e prende corpo un divertente gioco di trilli e scale staccate del pianoforte, che si intrecciano ai pizzicati degli archi. La Ripresa giunge con straordinaria leggerezza, quasi «galleggiasse nell'aria», grazie anche all'aggiunta degli archi, mentre la seconda esposizione del tema è affidata alla voce del violoncello. Al termine dell'intera riesposizione, nella quale il secondo gruppo tematico viene come sempre trasportato nella tonalità principale, un intenso e appassionato ritorno del primo tema (fortissimo) dà vita a un'ulteriore coda che conclude il movimento.

Lo Scherzo è collocato nell'insolita posizione di secondo movimento (Allegro); il suo tema nasce da un grazioso e divertito gioco contrappuntistico tra violoncello e violino, subito ripreso dal pianoforte con accompagnamento degli archi pizzicati: si tratta di una corsa leggera e scanzonata nella quale il tema trascolora continuamente in nuove forme. Il fraseggio diviene così più legato, evidenziando maggiormonlo la scansione ternaria della battuta, per poi intrecciarsi a un picchiettante controcanto a ottavi e passare infine ai toni più dolci e pacati della voce del violoncello. Nell'episodio centrale, un tortuoso profilo cromatico si snoda in una lenta imitazione a quattro voci per poi sciogliersi, dopo un deciso crescendo, in vigorosi stacchi accordali, con i quali il pianoforte si libera dal viscoso intreccio sonoro iniziale. Questa suggestiva alternanza viene riproposta, con delle varianti, altre due volte fino a che, all'ultima riproposizione degli stacchi accordali, il tessuto sonoro si assottiglia sempre di più per potersi collegare, senza soluzione di continuità, alla ripresa dello Scherzo. In coda al movmento vi è un imprevisto ritorno del motivo cromatico della sezione centrale, che non viene però interrotto dagli stacchi accordali, ma da uno scanzonato spunto conclusivo nel quale riechedgia il tema dello Scherzo.

Il tema dell'Andante cantabile, ma però con moto, che verrà ripreso in cinque variazioni, è un piccolo tesoro di sentimenti ed emozioni appena sussurrate, e viene disegnato dalla lenta scansione del pianoforte e quindi di tutto il Trio. Nella prima variazione, la tastiera tesse una delicata trama di arpeggi terzinati su cui gli archi intervengono in maniera frammentaria; è come se restasse il solo accompagnamento, mentre il tema viene suggerito implicitamente come ricordo affidato alla nostra memoria. La seconda variazione è invece caratterizzata da un dialogo tra violino e violoncello, nel quale si alternano leggeri fraseggi a note staccate con brevi incisi melodici assai più cantabili. La trama della terza variazione è fatta di leggeri accordi ribattuti dal pianoforte (con echi degli archi al termine di ogni frase), con cui Beethoven, attraverso una precisa alternanza tra valori terzinati e valori regolari, crea un delizioso effetto a «elastico» grazie al quale sembra che la velocità di esecuzione cambi a ogni battuta. Se nella precedente variazione ogni riferimento di carattere melodico rimane dissimulato nella trama degli accordi ribattuti, nella quarta variazione, con indicazione Un poco più adagio, ritroviamo il canto di pianoforte e violino, il cui profilo non scorre in maniera lineare, ma «pulsa» continuamente con scansioni regolari di ritmo sincopato. La quinta e ultima variazione ha più il carattere di uno Sviluppo, con il tema che ricompare nella sua struttura ritmica originale, variato però nell'andamento melodico-armonico; sul successivo accompagnamento terzinato del pianoforte, gli archi sembrano sospirare con delicati incisi melodici per poi dispiegarsi in un canto affettuoso e appassionato con cui portano a termine il movimento.

Il movimento conclusivo (Allegro moderato - Presto) è scritto nel tempo di rondò; il temna del ritornello, esposto dal pianoforte, procede con andatura moderata, secondo l'indicazione di tempo, risultando al tempo stesso guizzante e nervoso grazie a una notevole varietà di figurazioni ritmiche: staccati, acciaccature, accenti in levare, gruppi irregolari che si succedono trovando come unico contrappeso brevi incisi melodici degli archi. Uno stacco dal singhiozzante ritmo puntato porta quindi a rapide scale ascendenti con note staccate, mentre la successiva reiterazione di una particolare figura ritmica fa da collegamento con il ritornello del tema. L'episodio centrale è una elaborazione dell'incipit del tema che assume il carattere dello Sviluppo, mentre la successiva Ripresa ripropone il tema affidato agli archi. Il finale è una rapida corsa verso la cadenza conclusiva con la quale si chiude l'intera composizione: per questo Beethoven opera un cambiamento di tempo, passando a un Presto in 6/8, nel quale gli. archi si liberano in una serrata tarantella sottesa da lunghi trilli del pianoforte. I ruoli degli strumenti si invertono, ed è quindi il pianoforte a condurre la galoppata finale che, dopo un evidente cambiamento di scansione ritmica, rallenta e si ferma per dar spazio agli accordi della cadenza conclusiva.

Carlo Franceschi de Marchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Trio in si bemolle maggiore op. 97 è dedicato (donde il nome) all'arciduca Rodolfo, fratello minore dell'imperatore e nipote del principe elettore di Bonn, Massimiliano Francesco. L'arciduca conobbe il compositore nei primi anni dell'800 e divenne suo allievo, prima di pianoforte e poi di composizione. Ben consapevole del grande talento del suo maestro, lo aiutò più volte, non solo assicurandogli una pensione annuale dal 1809 sino alla morte, ma anche intervenendo in suo favore ogni qualvolta il difficile carattere del maestro entrava in conflitto con la società circostante. In cambio di tutto questo Beethoven doveva dargli lezioni, e oltre al Trio gli dedicò le Sonate per pianoforte op. 106 e op. 111 e la Missa Solemnis.

Il Trio fu abbozzato nel 1810, e composto in meno di un mese nel marzo del 1811, l'anno in cui Beethoven cominciò a lavorare alla Settima e all'Ottava Sinfonia. Questa composizione viene considerata come una delle più «felici» della sua musica da camera con pianoforte («È il miracolo della musica d'assieme per piano - scrive il Lenz - una di quelle creazioni complete che appaiono nell'arte di secolo in secolo») ed è legata ad un particolare momento della vita di Beethoven in quanto, nel maggio 1814, eseguendolo, l'autore appariva per l'ultima volta al pubblico come pianista, impedito in seguito dalla sordità.

La struttura tonale generale (I e II tempo in si bemolle maggiore, III tempo in re maggiore e IV di nuovo in si bemolle), nonché quella interna ad ogni singolo movimento, riflette l'interesse sempre più accentuato del compositore nell'opporre, alla tonalità d'impianto, tonalità a distanza di terza piuttosto che utilizzare il tradizionale rapporto di quinta. Questa ricerca rappresenta una delle strade intraprese da Beethoven nel tentativo, pienamente realizzato in seguito, di ampliare la forma.

Quanto il primo movimento dell'op. 70 n. 1 era compresso nell'esposizione dei temi, così l'Allegro moderato che apre il Trio op. 97 è esteso e sciolto nella struttura. Sulla prima idea esposta dal pianoforte si innestano gli archi che, introducendo un nuovo inciso tematico, rendono ancor più arioso l'inizio. Il secondo soggetto si presenta in una tonalità inusuale (sol maggiore) a cui Beethoven accede direttamente, senza impegnare la sua estrema abilità di modulatore. Nella ripresa, il primo tema ritorna in una versione delicatamente variata, uno dei tanti espedienti per superare un architettura che al compositore doveva apparire sempre più rigida.

Come più tardi nella Nona Sinfonia, Beethoven pone al secondo posto, nell'ordine dei movimenti, un tempo veloce anziché un tempo lento. Questo fattore e la particolare ampiezza rendono lo Scherzo estremamente sorprendente dal punto di vista formale e contenutistico. La varietà dei temi (dal valzer al fugato), la sonorità imperiosa del pianoforte (aggredito a piene mani con accordi ripetuti), la girandola delle tonalità sono il segno dello spirito di rinnovamento che caratterizzerà l'ultima produzione di Beethoven.

Il movimento lento, un Andante cantabile in re maggiore, è costituito da una serie di variazioni su uno dei temi più semplici e allo stesso tempo grandiosi di Beethoven. Le «variazioni rimangono a lungo in una sfera di decorazione puramente intellettualistica» (Riezler) fino alla ripresa del tema, sottoposto questa volta a mutamenti di carattere armonico.

Beethoven non crea una netta cesura tra gli ultimi due movimenti come se l'Allegro moderato conclusivo fosse la naturale continuazione dell'Andante, un'ulteriore variazione che presto si spinge verso nuovi confini (l'incipit tematico, del resto, non è altro che l'inversione delle note del tema dell'Andante). Un momento di particolare carica espressiva è nel Presto conclusivo in cui il tema principale, trasformato in un tempo di 6/8 e armonicamente decentrato (la maggiore), è affidato agli archi su un lunghissimo trillo del pianoforte, come se arrivasse da molto lontano. Si prepara così un'irruente e prolungata coda, necessaria ad equilibrare il Trio che, a livello temporale, supera i normali canoni di sviluppo.

Fabrizio Scipioni

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Ultimato nel marzo 1811, il Trio in si bemolle maggiore op. 97 fu eseguito per la prima, volta, nel 1814, con lo stesso Beethoven al pianoforte, in un tragico concerto in cui, secondo la testimonianza di Louis Spohr, "nei passaggi in forte il povero sordo picchiava sui tasti finché le corde emettevano suoni stridenti, mentre nei passaggi in piano suonava così delicatamente da omettere interi gruppi di note, tanto che la musica risultava inintelleggibile".

La pubblicazione avvenne solo nel 1816, presso l'editore Steiner, con la dedica all'Arciduca Rodolfo d'Austria; tale dedica, oltre ad aver fornito alla composizione l'epiteto di "Trio dell'Arciduca", è significativa della considerazione in cui l'autore teneva il brano. Infatti all'Arciduca Rodolfo, fratello cadetto dell'Imperatore Francesco I, allievo dal 1803 e poi protettore di Beethoven, il musicista dedicò solo opere di sicuro rilievo, fra cui il 4° e il 5° Concerto per pianoforte, la Sonata op. 106 e la Missa Solemnis.

In effetti, se fin dalle prime prove nel campo del Trio per pianoforte (pubblicate nel 1795 come opera 1) Beethoven aveva preso le distanze dai brillanti ma limitati modelli haydniani, è con il Trio op. 97 che egli lasciò la sua pagina più importante in questo genere (anche se a quest'opera alcuni esegeti preferiscono i risultati meno appariscenti ma forse più equilibrati dei due Trii op.70); il Trio "dell'Arciduca" emerge infatti nella produzione cameristica del cosiddetto "secondo periodo" per la felicità dell'invenzione, per le dimensioni imponenti e di respiro sinfonico, per la scrittura equilibrata e concertante dei tre solisti.

Tali caratteri di grandiosità emergono già dalla dolce spaziosità del tema iniziale, enunciato dal pianoforte solo e poi ripreso con gli altri strumenti; più che sulla seconda idea - il cui carattere esitante ricorda l'inizio del 4° concerto - è sul primo tema che si fonda lo sviluppo, ricco di soluzioni timbriche e armoniche inedite e stimolanti. Un particolare rilievo assume lo Scherzo, sia per la posizione di secondo tempo che per la vastità della concezione (che prevede l'intera ripetizione di Scherzo e Trio); esso è basato sulla contrapposizione fra la giocosità iniziale e l'oscuro, serpeggiante motivo del Trio, in minore, che riecheggia nella coda.

Ma la pagina chiave della composizione è l'Andante cantabile ma però con moto, un tema con quattro variazioni che preannuncia la grandiosa ricerca sulle tecniche della variazione operata dal maestro negli ultimi anni di vita. Il tema, di carattere innico, enunciato dal pianoforte e ripetuto con l'aggiunta degli archi, aumenta progressivamente la propria densità ritmica, secondo la prassi consueta; tuttavia lo scambio di ruoli fra gli strumenti conduce ad una inedita ed esaustiva esplorazione delle risorse timbriche e dinamiche del tema, fino alla sua conclusiva riproposta, di disarmante semplicità.

Segue, senza soluzione di continuità, il Finale, un Rondò brillante e vitale, con una stretta trascinante; si tratta tuttavia di una pagina che è stata spesso considerata sbrigativa rispetto alle dimensioni dell'intera composizione; essa proietta così sul Trio un'ombra di ambiguità, eludendo, sul finire, la grandiosità dei primi tre movimenti.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal libretto allegato al CD AM 125/1-2 allegato alla rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 20 Novembre 1992
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 13 gennaio 1986

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Ultimo aggiornamento 4 aprile 2014