Sestetto n. 5 in re maggiore per archi, op. 23 n. 5, G 458


Musica: Luigi Boccherini (1743-1805)
  1. Grave (re maggiore)
  2. Allegro brioso assai (re maggiore)
  3. Minuetto (re minore) - Trio (re maggiore)
  4. Finale: Allegro vivo assai (re maggiore)
Organico: 2 violini, 2 viole, 2 violoncelli
Composizione: 1776
Edizione: Sieber, Parigi, 1780 circa (come op. XXIV n. 3)
Guida all'ascolto (nota 1)

Cosa hanno in comune due film apparentemente agli antipodi tra loro come L'orgoglio degli Amberson (1942) di Orson Welles e La signora omicidi (1955) di Alexander Mackendrick con Alee Guinness? A questa strana domanda, che sembra uscita da un quiz per cinéphiles e quindi assai poco pertinente con il concerto di questa sera, verrebbe istintivamente da rispondere con decisione: «assolutamente nulla!». A torto. Perché a ben guardare - o meglio, a ben sentire - c'è un piccolo brano musicale che compare nella colonna sonora di entrambi i film: è un Minuetto di Boccherini, anzi è il Minuetto di Boccherini, dirà qualcuno, quasi che il povero compositore lucchese avesse scritto solo questo e non una serie sterminata di lavori cameristici. Questo Minuetto è infatti uno dei casi più eclatanti di un fenomeno molto diffuso nel campo della ricezione musicale, quello per cui un brano gode di una tale popolarità da sovrapporsi completamente al suo autore, diventando idealmente, nell'immaginario collettivo, il suo unico parto artistico, il solo fatto che ne legittimi l'esistenza in vita: "la" Toccata e Fuga di Bach, L'apprendista stregone di Dukas, Per Elisa di Beethoven, la Marcia Turca di Mozart... Nell'immaginario collettivo esistono questi autori al di fuori di questi brani? Mozart e Beethoven, forse. Boccherini, certamente no.

«Boccherini attende la sua ora, che sicuramente verrà», scriveva più di vent'anni fa Massimo Mila. L'attesa dura ancora, visto che nemmeno la recente occasione del duecentocinquantesimo anniversario della nascita, caduto lo scorso anno, è riuscita - al di là di alcune novità discografiche e bibliografiche e di qualche esecuzione pubblica in più - a dare un posto stabile nella vita musicale del nostro tempo al compositore lucchese. E così mentre ormai anche i più diffusi testi a carattere divulgativo e didattico parlano della «impeccabile sicurezza» di Boccherini nell'affermare «una concezione del gioco strumentale che fu poi presa a modello dai sommi della scuola tedesca» (Garzantina), e ce lo presentano come un musicista che «all'inizio degli anni Settanta [...] si pone ancora ad armi pari accanto a Haydn e a Mozart per dono melodico, maturità tecnica nel trattamento del quartetto, varietà linguistica, entusiastica apertura ai valori contemporanei» (Giorgio Pestelli, in Storia della musica, EDT, vol. 7), nella mente del grande pubblico Luigi Boccherini è ancora solo l'autore di quel Minuetto. Anzi Boccherini è quel Minuetto: rappresenta cioè l'esponente ideale di un Settecento galante, leggero e un po' vacuo, con tanto di parrucche, cipria e nei finti.

Anche i dati essenziali della sua biografia contribuiscono a confermare questa immagine: un tranquillo compositore di corte, impegnato a scrivere decine e decine di brani solo per soddisfare le richieste del suo nobile padrone, l'Infante di Spagna don Luis. È un'immagine che ha indubbiamente degli elementi di verità, ma che a un'analisi più attenta (costruita seriamente con lo studio e l'ascolto di un maggior numero di opere di Boccherini e sull'osservazione delle loro date di composizione) risulta inesorabilmente parziale e inadeguata, proprio come quella, per molti aspetti simile e altrettanto dura a morire, del bonario «papà Haydn».

Per iniziare a ridimensionare questa immagine leziosa e limitante può essere utile leggere un brano di una lettera scritta da Boccherini all'editore Pleyel negli ultimi anni della sua vita. Controbattendo con fermezza al suo editore che lo esortava a comporre brani più semplici e brevi, il musicista dimostra una coscienza dell'autonomia creativa del compositore non comune a quel tempo, specie in un uomo di quasi sessant'anni, unita però a una notevole saggezza nel prestare attenzione alle esigenze del mercato editoriale:

«Sono presto 40 anni che sono scrittore, e non sarei Boccherini se avessi scritto come voi mi consigliate, né voi sareste Pleyel, e quel Pleyel che siete: siane una prova la vostra opera di Quintetti dedicata al Re di Napoli, che io ascolto sempre con molto piacere, al di più di alcune altre opere vostre veramente magistrali e bellissime. Non si puote in queste mantenere il vostro consiglio, cioè la facilità e la brevità; in questo caso addio modulazioni e intreccio delle idee prescelte, etc. etc. In poco, poco si suol dire e meditare. Dall'altra parte mi faccio una ragione, che i poveri dilettanti rare volte possono riuscire nelle produzioni studiate, per la difficoltà del tempo, dell'intonazione ed altri motivi; per il che vi dò parola di compiacervi anche in questo, posto che lo richiede ancora la speculazione mercantile. Ma non volendo perdere la reputazione che tengo e quel nome che tanto di fatica mi ha costato acquistare nel mondo, resteremo d'accordo che nell'opera di Quartetti e in tutte le altre che scriverò, due saranno secondo il mio stile e 4 secondo il vostro desiderio: ma tenete presente che non vi è cosa peggio che legare le mani ad un povero autore, cioè metter limite all'idea e immaginazione di questo, assoggettandolo a precetti».

Queste parole si possono adattare anche ai Sei Sestetti per archi scritti da Boccherini nel 1776, 23 anni prima della lettera a Pleyel. Anche questi Sestetti - catalogati dall'autore fra le sue «opere grandi» come op. 23, dedicati a don Luis, Infante di Spagna, di cui era compositore di camera dal 1770, e pubblicati poi a Parigi da Siéber come op. 24 - non hanno tutti lo stesso tono e lo stesso peso specifico. Non sappiamo esattamente che cosa spinse Boccherini a dedicarsi per la prima volta nella sua vita a un genere allora nuovissimo e inusuale come quello del sestetto per archi: forse fu solo per soddisfare la sua aspirazione a non «metter limite all'idea e immaginazione». Ma è significativo che questi Sestetti siano rimasti i suoi unici lavori del genere: già allora, evidentemente, il compositore aveva imparato a coniugare le sue idee con le richieste della «speculazione mercantile».

Il Sestetto in re maggiore op. 23 n. 5 G. 458 (la «G» della sigla è quella del cognome di Yves Gerard, il musicologo francese che ha curato il catalogo delle opere complete di Boccherini) è sicuramente il più "impegnato" e riuscito della raccoltale il suo ascolto può contribuire non poco a incrinare la solidità dell'identità Boccherini-Minuetto. Il Sestetto si apre con un intenso Grave dall'andamento cullante e vagamente malinconico - da suonarsi «grave, sottovoce, con sordina» - in cui assumono particolare rilievo i toni scuri della viola e del violoncello, appena illuminati dagli interventi più fioriti del violino. Il Grave è seguito da un Allegro brioso assai, caratterizzato dagli ampi salti di registro del primo violino; l'evidente contrasto fra l'andamento e il carattere dei due brani è però mitigato dall'indicazione «dolce» apposta alla parte del primo violino. Prima di concludersi con un breve e vivace Allegro vivo assai, in cui il primo violino si contrappone gioiosamente al gruppo degli altri strumenti, il Sestetto ha la sua pagina più sorprendente proprio nel Minuetto (potere della Nèmesi): anche se il tono generale del movimento viene riequilibrato dai luminosi staccati del Trio in re maggiore (ancora le ragioni della «speculazione mercantile»?), il Minuetto è in re minore ed è pervaso da un'intensa malinconia, in sommo spregio a qualsiasi convenzione galante.

Carlo Cavalletti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 24 novembre 1994

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Ultimo aggiornamento 24 aprile 2014