Completato nel luglio 1882, il Canto delle Parche intona i versi che chiudono il quarto atto di Ifigenia in Tauride di Goethe, il monologo della protagonista turbata da un atavico ammonimento a rispettare l'infinita distanza fra gli dèi e gli umani. È possibile che uno stimolo alla composizione sia venuto dall'ammirazione di Brahms per l'attrice tragica Charlotte Welter, grande protagonista del dramma di Goethe; e in effetti una certa teatralità distingue il Canto delle Parche dagli altri brani corali, un gestire spettacolare già presente nell'impiego del coro a sei parti, tre maschili e tre femminili, spesso contrapposti con simmetriche rispondenze. Il metro scandito e ossessivo della ballata romantica adottato da Goethe è tradotto nella musica di Brahms in un'aura leggendaria e minacciosa, che sembra muovere da mitiche lontananze, incupite dal nero scintillamento dei timpani; l'ammonimento a non sentirsi simili agli dèi, specie se questi per qualche loro disegno o capriccio innalzano l'uomo al loro livello, è esemplato sul mito di Tantalo (progenitore di Ifigenia) precipitato dalle mense olimpiche all'oscurità del mondo sotterraneo. La battaglia fulminea fra Titani e Olimpici, l'ebbrezza delle mense celesti, la caduta di Tantalo e l'attesa del terribile giudizio dominano le prime quattro strofe della composizione; ma la durezza di questa primitiva barbarie, con intervento della peculiare sensibilità di Brahms, s'intenerisce nella quinta strofa, dove la solitudine dei colpevoli viene consolata dal tocco della musica più affettuosa; gesto che ad alcuni critici era parso un arbitrario travisamento della inesorabile concezione del destino classico; mentre è il segno tangibile di come Brahms rivivesse l'antico come eterno presente del sentimento umano.
Giorgio Pestelli
Es fürchte
die Götter Das Menschengeschlecht! Sie halten die Herrschaft In ewigen Händen Und können sie brauchen, Wie's ihnen gefällt. Der fürchte sie doppelt, Den je sie erheben! Auf Klippen und Wolken Sind Stühle bereitet Um goldene Tische. Erhebet ein Zwist sich, So stürzen die Gäste, Geschmäht und geschändet, In nächtlicheTiefen Und harren vergebens, Im Finstern gebunden, Gerechten Gerichtes. Sie aber, sie bleiben In ewigen Festen An goldenen Tischen. Sie schreiten vom Berge Zu Bergen hinüber: Aus Schlünden der Tiefe Dampft ihnen der Atem Erstickter Titanen, Gleich Opfergerüchen, Ein leichtes Gewölke. Es wenden die Herrsche Ihr segnendes Auge Von ganzen Geschlechtern Und meiden im Enkel Die ehmals geliebten, Still redenden Züge Des Ahnherrn zu sehn. So sangen die Parzen; Es horcht der Verbannte In nächtlichen Höhlen, Der Alte, die Lieder, Denkt Kinder und Enkel Und schüttelt das Haupt! |
Quanto timore degli
dèi ha il genere umano! Gli dèi tengono il potere su tutto nelle eterne mani loro e possono impiegarlo come loro piace. Doppiamente dovrà temerli chi fu un tempo da loro esaltato! Sulle vette e sulle nubi sono disposti in ordine gli scanni attorno ai tavoli in oro. Se s'innalza una voce discorde, gli ospiti, oltraggiati e disonorati, vengono precipitati negli abissi notturni e attendono, ma invano, avvinti alle tenebre, il giudizio dei giusti. Gli dèi però continuano ad assistere a feste eterne ai loro tavoli d'oro. E procedono da una vetta all'altra dei monti sottostanti: Dalle voragini degli abissi giunge loro il respiro dei Titani soffocati e l'odore del sacrifìcio come una lieve nuvola. I Dominatori distolgono il loro sguardo benedicente da intere generazioni ed evitano di riconoscere nel nipote i tratti un tempo amati e ancora parlanti degli antenati. Così cantarono le Parche; l'ascolta l'esule nelle caverne notturne, l'ascolta il vegliardo, tale canto, pensa ai suoi figli e ai suoi nipoti e scrolla il capo. |
(Johann Wolfgang von Goethe) | (Traduzione: Luigi Bellingardi) |