Sinfonia n. 8 in do minore


Musica: Anton Bruckner (1824 - 1896)
  1. Allegro moderato
  2. Scherzo. Allegro moderato
  3. Adagio. Feierlich langsam, doch nicht schleppend (Lento solenne, ma non strascicato)
  4. Finale. Feierlich, nicht schnell (Solenne, non veloce)
Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 3 oboi, 3 clarinetti, 3 fagotti (3 anche controfagotto), 8 corni, 4 tube wagneriane, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, triangolo, 3 arpe, archi
Composizione: Prima versione: 1884 - 1887; Seconda versione: 1889 - 1890
Prima esecuzione: Vienna, Großer Musikvereinsaal, 18 dicembre 1892
Edizione: Schlesinger, Vienna, 1892
Dedica: Francesco Giuseppe I
Guida all'ascolto (nota 1)

L'ultimo decennio della vita di Bruckner fu di lento declino ma di gloria crescente: e la sua fama, che già giungeva in America (con Theodore Thomas che dirigeva la Settima a New York nel 1886), lentamente conquistava anche Vienna, patria gloriosa e ingrata. Fuori dall'ambiente viennese la sua musica veniva accolta con favore dalla nuova intelligenza europea; così lo scrittore tedesco Paul Heise (futuro premio Nobel) gli scriveva dopo un concerto a Monaco: "Per voi, trascurato e misconosciuto per lunghi anni, l'omaggio della nostra buona città di Monaco è senz'altro un tenue risarcimento. Voi sapete che io appartengo a quelli che sono tutt'orecchio e tutt'anima quando uno dei grandi vati della musica viene a dire la parola necessaria. La vostra Sinfonia [la Settima] fa nascere nella sala quella specie particolare di raccoglimento che costituisce l'atmosfera esclusiva delle supreme manifestazioni del genio...".

A Vienna Hanslick, indeciso sulla Settima Sinfonia, elogiava il suo Te Deum; l'imperatore gli conferiva la croce di cavaliere dell'ordine di Francesco Giuseppe (9 luglio 1886); Brahms finiva di riconciliarsi con lui in un incontro conviviale all'"lstrice rosso" (25 ottobre 1889, quando Bruckner sblocca l'iniziale imbarazzo con una franca battuta di spirito: "C'è almeno un punto in cui ci capiamo!" disse vedendogli portare un piatto di Knödel). Ma i rapporti tra l'isolato compositore ("chiuso nella sua torre d'avorio" noterà il giovane Sinigaglia giungendo di lì a poco a Vienna) e il superbo direttore della "Gesellschaft der Musikfreunde" non hanno seguito, per i loro caratteri aspri e leali, per le loro tendenze artistiche troppo divergenti.

Bruckner si serba solitario, secondo un anacronismo umano che poi vale fedeltà alla vecchia provincia (a cui infatti sa tornare spesso), sede per eccellenza del pio e fedele patriottismo austriaco, confortato da un ideale feudale ormai decaduto che costituisce l'altra Stimmung del "filisteo" Biedermeier austriaco.

Il profilo generico di lui, la sua qualità umana quasi postuma, contrassegnata da una cifra personale quantomeno curiosa se non eccentrica, da un comportamento ingenuo ma oltretutto stupefacente, dall'invadenza quasi fastidiosa di un garbo manierato (che affascinava e poi indispettiva Liszt e Wagner, omaggiati d'una devozione esagerata dall"'umilissimo servitore" Bruckner), garbo evidente anche nell'antiquato stile epistolare (ma il tutto sempre a patto di una franca immediatezza); e insomma il suo ritratto di uomo tra immaturo e disimpegnato nonché di musicista ingenuo quello che corrivamente accetta o vuol ignorare consigli e modifiche di allievi o di "intermediari" (come benevolmente li chiama il Furtwängler) alla propria opera, se certo trae motivo di una passiva acquiescenza conseguita alla lunga frequentazione giovanile di cerchie ecclesiastiche, tuttavia trova ragione in quell'età precisa di rilassamento sociale che caratterizzava la crisi del mito absburgico.

Da questa visuale, la testarda insistenza e fiducia nei confronti dell'attestato professionale, che gli accresceva ufficialità ma non prestigio (da perfetto figlio, in ciò, della burocrazia austriaca) e più ancora certa sua meticolosa lentezza operativa, pare specchiare come nessun'altra espressione d'arte la sua patria nell'età giuseppina, retta da persone attempate e indugiante in una quiete priva di provocazioni: senza contare che in Bruckner (o meglio nelle sue opere) l'insicurezza, la suggestione, l'ansia di decadenza venivano dalla sua stessa formazione individuale, ritardata e come apprensiva, nonché dalla sua lunga informazione culturale, intenta alla ricognizione retrospettiva di gloriose età musicali passate, prima dell'adesione convinta e consentanea al neo-romanticismo europeo dei suoi tre "numi" (Berlioz, Liszt e Wagner).

Due momenti dunque si possono cogliere nell'umanità di Bruckner: l'uscire come stupefatto da un mondo stabilizzato ma arretrato, salvaguardato dall'autorità ecclesiastica, e poi il penetrare in una società cittadina, sì maliziosa e viva, ma tutta votata alla felicità immobile e fittizia, al benessere senza ambizioni, al legittimismo paternallstico e conservatore (il quadro fattone da Stefan Zweig in Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri, ci aiuta, è chiaro); per questo, il suo spirito non muta ed il mondo non lo intacca.

Solo inquadrato in questo suo tempo, situato in questo clima, Bruckner giustifica quella mancanza di una cifra artistica veramente stabile e reverenziale, quella sorta di irresolutezza piena di continui domani (le copiose revisioni di sue opere!), così innaturale proprio a confronto col modello di precoce maturità (anche e proprio fisica), fatto di tanti oggi, esibita dal più giovane eppur coevo Brahms, presto irrigidito ed imprigionato in una sorta di dignitosissima "maschera storica", in un'immagine d'autorità che la rispettabilità e l'investitura artistica invecchiavano anzitempo, pianificando anche differenze anagrafiche vistose, custodi di anime riservate di garbati idealisti. Ma in quel contesto, Bruckner, anche senza averci lasciato illuminati aforismi e pensieri, giustifica, con la forza evocativa e la spazialità interiore della sua arte, quell'evasione ormai congenita in un passato feudalistico tramandato e difeso, quel rimpianto di un mondo sicuro e saldo, confuso, nella rievocazione, con la nostalgia di ricordi ed età quotidiane (in cui risulta elemento essenziale la componente mistica, tra decadente e morbida, sia nella devozionalità umana contrita e rassegnata, sia proprio nella sua stessa proiezione naturalistica e geografica), perfino quell'odore "erariale", insomma, che ancora Zweig assegnava al lindo paesaggio della rustica provincia d'Austria. È vertigine, dietro l'accorata o rumorosa gioia di vivere, anche dietro l'ottimismo nativo, che può pretender molto spazio interiore e ridurre molto tempo fisico: vicenda che diverrà letteraria con Werfel e con Musil; ma, nella musica, itinerario all'innocenza che Mahler apprenderà da Bruckner per giungere alla poetica leggendaria della parola, nella dimensione sinfonica del suo Lied.

Tra le esecuzioni che si moltiplicano, Bruckner segue con interesse le corrette interpretazioni di Mahler che dal 1891, con la Prima Messa e la Terza Sinfonia (1895) ad Amburgo e poi le altre sinfonie a New York, prende a dirigere opere del maestro, mentre biasima l'allievo Franz Schalk che senza interpellarlo ha irriverentemente rimaneggiata (come farà anche Loewe) la sua Quarta Sinfonia a Monaco: tuttavia il compositore, consapevole della complessità delle sue opere, dà anche precisi consigli ai direttori, come quando scrive a Weingartner il 27 gennaio 1891: "Come va l'Ottava? Avete già fatto le prove? Per cortesia raccorci il Finale... perché sarebbe troppo lungo ed è riservato per il futuro e per una cerchia di amici e di conoscenti...". Ove sembra di cogliere l'eco dell'ultimo Beethoven. Ma Bruckner è altresì preciso nelle indicazioni espressive: e ancora nella lettera a Weingartner specifica il carattere di questa sinfonia detta "Tragica": «Nel primo movimento la parte delle trombe e dei corni esprime l'annuncio della morte che procede sempre più forte, prima di calare nella rassegnazione della chiusa».

Il 7 novembre 1891 è nominato dall'Università di Vienna dottore honoris causa, diploma ambitissimo perché già toccato a Brahms; e 11 dicembre i docenti (ma Hanslick è assente) e gli allievi organizzano un ricevimento in suo onore. Nel 1892 compie un altro congedo, con l'ultima visita a Bayreuth, nel decennale della morte di Wagner. A Vienna le ultime sue gioie: Joseph Eberle gli propone la pubblicazione delle sue opere inedite, mentre Richter, ora che Brahms si è ritirato da qualche anno dalla competizione sinfonica, gli programma l'Ottava Sinfonia. Hanslick, che se n'è andato prima del Finale, scrive il 23 dicembre: "Peculiare anche nella nuovissima sinfonia... è il tentativo di fusione di una asciutta erudizione contrappuntistica con una squilibrata esaltazione sonora. Così gettati qua e la tra ebbrezza e deserto, non raggiungiamo mai un'impressione stabile, un vero godimento artistico. Tutto scorre via senza sosta, disordinatamente, prolissamente... In ciascuna delle quattro parti, soprattutto nella prima e nella terza, c'è qualche spunto interessante, qualche lampo geniale che attrae, se non ci fosse tutto il resto! Può anche darsi che il futuro appartenga a questo frenetico stile... un futuro che certo non invidiamo».

I molteplici commenti di questo autorevole critico in fondo presentano sempre qualche motivo di validità, ad onta dell'avversione sistematica verso contenuti che nega aprioristicamente: vedi la fusione di spirito beethoveniano e wagneriano nella Terza Sinfonia, vedi l'individuazione di Bruckner come enigma di uomo pacifico e di artista progressivo, dopo il Quintetto e la Quarta Sinfonia: vedi ora questo spiraglio di "futuro" che indubbiamente prospetta un indirizzo estetico proseguito da Mahler. Per contro, Hugo Wolf scrive all'amico Kauffmann il 28 dicembre: "Questa Sinfonia è la creazione di un gigante e supera per afflato mistico, abbondanza di idee e grandezza tutte le altre opere del maestro. Il successo fu quasi senza confronto, nonostante la funesta voce di Cassandra. Fu una completa vittoria della luce sulle tenebre e con elementare potenza prorompeva la tempesta dell'entusiasmo, quando le singole parti finivano. In breve, un trionfo che un imperatore romano non poteva augurarsi più bello".

In questa opposizione di concezioni, ossia tra la denunciata incoerenza e disordine (ovvero eccessiva libertà) formale da un lato, e la fantasia e la forza inventiva dall'altro (anche Mahler, con Wolf, diceva che Bruckner era il musicista che sapeva ancora «esultare» dopo le tenebre, ossia esprimere una certezza che l'imminente espressionismo doveva sconfessare, proprio muovendo dalla dialettica espressiva di Wagner e di Bruckner), in questo divario valutativo si intuisce e si definisce tutta la saliente fortuna artistica del nostro musicista. La cui vantazione si può compendiare presso i paesi tedeschi ed anglosassoni con l'ormai celebre definizione di "quarto B" della storia musicale, dopo Bach, Beethoven e Brahms; e nei paesi latini come epigono wagneriano. Per quanto riguarda l'Italia, ove era sconosciuto prima che misconosciuto fino al sessantesimo anniversario della sua morte (quando fu fondata a Genova una associazione aderente alla "Internationale Bruckner-Gesellschaft" di Vienna), il musicista austriaco, da poco uscito alla ribalta concertistica, ha superato due luoghi comuni, recati dall'abbondante letteratura soprattutto germanica e mutuati convenzionalmente: vale a dire la definizione di sinfonista "wagneriano" e la natura unicamente religiosa riconosciuta alla sua musica. Due referenze, a ben vedere, limitative e pregiudiziali, giacché a Bruckner viene così negata la personalità prima ancora del valore musicale, e ciò dietro una deduzione gratuita ed un'illazione impropria: che cioè a quella umiltà umana che siamo venuti ora evidenziando debba necessariamente conseguire una mediocrità artistica, ed inoltre che dalla sua forzata solitudine operativa derivi un'inattualità, quindi una mancata "presa di coscienza" storica ed espressiva. La musica di Bruckner fu invece esperienza geniale, anche se corredata da una vita senza storia, anche se attuata da un uomo semplice, antiintellettuale ma non inintelligente che, nella sua tozza figura contadina contraddetta dal profilo da "imperatore romano", rimase umile, mai orgoglioso di investigare realtà spirituali misteriose ed eterne: come ansiosamente sorpreso della sua stessa dote primaria di musicista, fervido ed acceso di mistica gratitudine, conscio che la complessità e la contraddittorietà non andavano disgiunte dalla semplicità del suo spirito.

* * *

L'Ottava Sinfonia, la più vasta ed ambiziosa opera concepita da Bruckner, gli richiese l'impegno creativo più strenuo: sei anni, dal 1884 alle revisioni del 1887 e del 1890 (significativa l'annotazione apposta sullo schizzo del Finale: "Alleluja!"). Era forse la concomitanza di Brahms nell'ambiente artistico viennese a sollecitargli cimenti più meditati, ma lo spingeva altresì l'ambizione nei confronti di un'opera che voleva e sentiva grande (anche dal punto di vista tecnico: bisognerà arrivare a certo Mahler per sorpassare questo gigantesco organico strumentale).

La caratteristica essenziale dell'Ottava consiste proprio in questa dilatazione e quindi nello smantellamento di una concezione sinfonica esperita nelle opere precedenti. Da cui questa Sinfonia non si allontana quanto ad impostazione formale: ma ne esaspera anzi tutto la suddivisione dei tre temi, che qui prendono a configurarsi in gruppi, in coordinazioni motiviche atte a cementare maggiormente il discorso musicale, ad accrescerne anche l'intensità espressiva, nonché, innegabilmente, a debilitarne la logica costruttiva. Ma questo frazionamento minuto del materiale tematico, questa sorta di mosaico che accerta le vecchie simmetrie strutturali, tende a superare nettamente l'impiego del Leitmotiv wagneriano: i recuperi incessanti del materiale musicale si fanno cifre quasi gestuali, condotte su continue "varianti", come poi avverrà nel sinfonismo di Mahler. Le innovazioni tematiche avvengono così all'interno di battute costantemente uguali, ove la simmetria è simbolo di libertà, anche se spesso attentata da infiltrazioni fin onomatopeiche, come nel passo regolare del "Michele tedesco" (nello Scherzo) o nel fastidioso ansito dell'Adagio.

Proprio in questa costanza, in questo ordinato inserimento nella tradizione, Bruckner attua una prassi liberatoria dei temi e quindi della forma: ove è chiaro che l'ampiezza non deriva da un eccesso esasperato di retorica narrativa né da inceppi ed arresti inventivi: anzi, tutto pare svolgersi in un campo più vasto, in un disteso clima creativo, elementare e logico. Ancor più che nella Nona Sinfonia, qui notiamo il trapasso da una sensibilità prettamente romantica (presente nella Settima) ad un'espressione liberamente primigenia, impietrita o lacerata, ma sempre generosamente aperta, come conscia di un tramonto: avvertibile nell'incantato favoleggiare (nei primi due movimenti) o meglio in certe estenuazioni (nell'Adagio e nel Finale) che rispecchiano l'entropia cosmica, ma anche in certi minuti ritmi naturali, quali il battito cardiaco che chiude il primo tempo: insomma, tutti distacchi verso il "negativo", salvo che la musica crea sempre distanze, dischiude sempre attese, oltre le conclusioni pacificate o vittoriose, ma provvisorie. Proprio perché Bruckner non risolve l'aporia formale della Sinfonia, non la compromette: l'aggrava semmai di pesi dottrinali (scientia inflat, si sa), ma la sua incorruttibile sincerità non gli consente intonazioni uniformi, così egli articola il fatale fondo "tragico" (uno degli appellativi correnti di quest'Ottava) con cadenze ottimistiche, discrete od effusive. Quindi rappresenta integralmente il suo temperamento come non mai: secondo coscienza e proprietà di giudizio veramente nuovi, quasi inattesi. Una dimensione spirituale, questa, ben colta da Hugo Wolf dopo la prima esecuzione viennese di Hans Richter nel dicembre 1892, impressionato da questa "creazione di un gigante".

Il primo Allegro moderato enuncia un tema fosco e minaccioso, proposto sommessamente dai bassi sotto un tremolo di violini, ove il vuoto delle pause accentua questo avvio contrastato e tormentoso, tosto ripreso dal violento peso drammatico di tutta l'orchestra. Qui l'atmosfera tesa ed irrequieta scopre, proprio nei silenzi, una lotta sotterranea elementare, una vibrazione ancestralmente immaginosa. La componente lirica del secondo tema non acquieta la precedente tensione, anzi intensifica, nella linea ascendente della melodia, un clima d'ansia implacata. Che porta al cupo e concitato terzo tema, ove l'aspro e contrastato impasto timbrico è coadiuvato da una tessitura di ardite dissonanze. Proprio nell'acme di questo episodio, la fanfara apparentemente liberatrice vale l'annuncio preciso di morte, come ha spiegato l'autore scrivendone al grande direttore Weingartner nel gennaio 1891. Questo è il movente ineluttabile di tutto il pezzo, come già la continua scansione ritmica all'inizio della Sesta Sinfonia: esso ritorna nell'elaborato sviluppo, forse il più magistrale passo sinfonico di Bruckner, e riappare perentorio nella conclusione, fatale marcia sul rullar di timpani. Ma il dramma ha il suo epilogo nella dissolvenza e nel silenzio, per la prima ed unica volta nell'intero sinfonismo bruckneriano: scandito da spezzati respiri sul ritmo del "Totenhur" (notava lo stesso musicista), si spegne nella desolazione, quasi notturno espressionista spopolato di romantici astri.

Il carattere fantasioso dello Scherzo (anteposto all'Adagio, come nella Nona) ha anch'esso, nel suo caparbio moto quadrato ed elementare, una destinazione naturalistica: ma più chiaramente allusiva, se le linee discendenti dei violini sul motivo disteso delle viole, poi i richiami lamentosi e sperduti dei corni e più avanti gli umori bandistici degli ottoni qualificano un paesaggio silvestre e fin alpestre, nel gioco misterioso di echi rarefatti e spezzati. Il tema, inoltre, trasfigura affettuosamente la cifra dell'individuo tedesco, onesto e corrivo, saggio e fantasticante, il "Deutsche Michel". Da questi tratti di acuta ironia (o forse autoironia), la musica trae una qualità maliziosa ma anche sanguigna, placata nel Trio da un'ispirazione sognante e mistica, come favola pastorale del simbolico personaggio: ove cadenze liederistiche commentano un movente immaginario (forse, il doppio ritratto del musicista e della critica).

Il grande Adagio, nella sua quasi assillante necessità di confidenza, si costituisce ad ampio diario di solitudine e di passione, di rassegnazione e di speranza: ove l'inquietudine deriva dalla tonalità tormentata ed instabile, dall'emotività repressa e spesso evasa dalle frasi principali, dal respiro faticato e gigantesco di ogni proposizione importante. La timbrica incupita dagli ottoni, accresciuti dalle tube, intensifica il discorso di riflessi passionali, di espressioni liricamente violente e drammatiche. Già presentite dalle lunghe volute melodiche degli archi nel primo tema meditativo ed immobile, quindi nel moto di lenta e continua ascesa del secondo soggetto che conduce il discorso, sempre più lussureggiante, verso scansioni anche prepotenti, anche ad apostrofi imperiose. Ma di più contano, in un contesto cromatico di chiara reminiscenza wagneriana, le continue suggestive divagazioni che attuano un nuovo e tutto personale respiro sinfonico; più contano, dei mostruosi orgasmi o delle fin terroristiche apoteosi, certe dilaniate cupezze di temi dilatati su solenni accenti di corale, come poi solo negli ultimi Adagi di Mahler. Tutto un itinerario spirituale è evidente: ma nell'autobiografia circostanziata vedi l'anamnesi di un idealismo incrinato, di un eroismo offeso, di un'umanità debilitata. Ove i vertici sonori chiariscono il diagramma fisso d'una fuga dalla solitudine, dalla clausura, per ricadere poi in altro spazio chiuso. Ove l'alto splendore è dolorosa testimonianza dell'esistenza, affacciata al lento corrompersi del tempo che brucia e disgrega la materia sonora, quasi a specchio del cosmo. La vera grandezza di questo pezzo sta in questo fitto gioco di interni ed esterni, chiarito dal ricchissimo avvicendamento spirituale, dall'incedere accidentato, faticato, sentimentalmente accaldato ma virilmente dolente.

L'enorme Finale è ampio poema a sfondo eroico, che ambisce ad inquadrare il dramma personale dell'artista in una dimensione universale: meno convincente quanto più si affida a gagliarde e pittoresche fanfare (come quella iniziale) o a ritmati episodi marziali (come nel terzo tema). Invece, sono proprio i momenti più raccolti di questo imponente movimento, come il riflessivo episodio tematico centrale, ad aprire, oltre le monumentali ed artificiose decorazioni, preziose scheggiature arcaizzanti, capaci di ripristinare l'ordine naturale della forma sinfonica. Proprio questo secondo tema, infatti, ricupera quello conclusivo della Jupiter di Mozart: e questo rispetto normativo dei maestri maggiori fa del materiale musicale un dato perenne, una sorta di cifra cosmica. Circoscritte certe note aneddotiche (il galoppo iniziale vorrebbe illustrare, con fin barbarica enfasi, l'incontro fra lo Zar e il Kaiser), nell'ampiezza anche dispersiva di questo Finale si scopre così l'assunto sincero ed innocente di una convergenza storica: anche se in questa vasta e complicata struttura Bruckner anticipa terribilmente la musica futura con i mezzi passati e logorati. A sanzionare quest'impegno, spirituale prima che strutturale, interviene, dopo la ricapitolazione tematica, il gruppo dei principali motivi dell'intera opera nella "coda" conclusiva: ma in disposizione non giustapposta (come nella Nona di Beethoven) ma sovrapposta, verticale. Secondo un esito ciclico, dunque, dopo la laboriosa "conquista del campo sonoro" che gli riconobbe Webern.

Sergio Martinotti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 17 marzo 2012

I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 21 giugno 2012