Arlecchino, oder Die Fenster, op. 50, KV 270

Capriccio teatrale in un atto

Musica: Ferruccio Busoni (1866 - 1924)
Libretto: Ferruccio Busoni (originale in tedesco)

Personaggi: Organico: 2 flauti (anche ottavini), 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti (2 anche clarinetto basso), 2 fagotti (2 anche controfagotto), 3 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, glockenspiel, triangolo, tamburello, tamburo militare, grancassa, piatti, tam-tam, celesta, archi
Sulla scena: 2 trombe, timpani
Composizione: novembre 1914 - Zurigo, agosto 1916
Prima rappresentazione: Zurigo, Stadttheater, 11 maggio 1917
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1918 Dedica: Arthur Bodanzky
Sinossi

In una via della città alta di Bergamo, Arlecchino corteggia Annunziata mentre il marito Matteo si diletta alla lettura del canto di Paolo e Francesca dalla Divina Commedia, dandosi arie di fine erudito. Per disfarsene, Arlecchino dapprima inventa un'invasione della città da parte dei barbari, quindi si traveste da capitano per arruolarlo. Intanto Colombina, moglie trascurata di Arlecchino, cede alle lusinghe di Leandro. Arlecchino lo sfida a duello e lo uccide; ma è un'altra burla. Vedendo Leandro magicamente 'risorto', il dottore e l'abate chiedono soccorso al vicinato (le finestre popolate di teste curiose si aprono e subito si richiudono: «L'uomo», commenta amaro l'abate, «propende ad occultare la sua innata bontà»). Arlecchino ripudia Colombina, consentendole di sposare Leandro; ser Matteo torna alle sue dotte letture e Annunziata lo abbandona per Arlecchino, che commenta: «È successo qualcosa di nuovo? Nient'affatto! È la storia più vecchia del mondo».

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La duplice origine etnica di Ferruccio Busoni - italiano il padre Ferdinando ottimo clarinettista, tedesca e valente pianista la madre Anna Weiss - ebbe a riflettersi anche nelle sue scelte drammaturgiche. Al ricco filone di pretta ascendenza germanica culminante nel grandioso e incompiuto Doktor Faust si contrappone la luminosità mediterranea, il sorriso ironico e tagliente di Turandot e di Arlecchino . Prima di dedicarsi ad Arlecchino Busoni aveva vagheggiato, in un tentativo di collaborazione con D'Annunzio, un'opera dedicata alla figura di Leonardo da Vinci. Ma il progetto rimase tale, avendo l'Imaginifico poeta intuito, non a torto, l'assenza nella figura di Leonardo di quel tanto di 'materia lirica' necessaria a far lievitare un soggetto teatrale. D'altro canto l'idea di un'opera con caratteri 'nazionali' italiani, e scevra da quelle scorie di lirismo decadente cui D'Annunzio non avrebbe certo rinunciato, continuò a sollecitare il compositore finché prese forma nella sua mente a Bologna nell'aprile del 1912, dopo aver assistito a una commedia di fine Seicento, L'inutile precauzione. Vi si tentava, ricorda Busoni, «di far rivivere l'antica commedia dell'arte». A questo stimolo già di per sé rossiniano (Almaviva o sia L'inutile precauzione fu l'iniziale titolo del Barbiere di Siviglia del Pesarese) se ne aggiunse presto un secondo: «Circa a quel tempo feci la conoscenza del teatro di marionette di Roma (...) la cui rappresentazione di una piccola opera comica di Rossini ventenne, L'occasione fa il ladro ossia Il cambio della valigia, mi fece una forte impressione. Il mio 'capriccio teatrale' è nato da queste due esperienze, delle quali la prima esercitò un notevole influsso sul testo poetico, la seconda sulla composizione». Il tenue soggetto del 'capriccio', infatti, deve molto alla grazia esile di un gioco di marionette i cui fili sono tirati dal burattinaio con accorta coreografia.

Gli elementi di straniamento propri del 'teatro nel teatro' (Arlecchino, velata proiezione dell'autore, più che parte in causa è regista e distaccato commentatore degli avvenimenti), il gusto per la parodia delle convenzioni teatrali (l'opera è tutta costruita a settecenteschi numeri chiusi) e per una musica 'al quadrato' intessuta di citazioni colte, il tono di scettica ironia e di Singspiel che guarda per un verso a Così fan tutte e a Zauberflöte , per l'altro è contiguo ai 'ritorni' al comico e al meraviglioso di Strauss (Ariadne auf Naxos) e in parte anticipa quelli di Stravinskij (Pulcinella) e di Gian Francesco Malipiero (L'Orfeide), non hanno certo agevolato la popolarità di questo come degli altri titoli teatrali di Busoni. Il suo motto era «dire cose importanti in forma divertente»; e la 'cosa importante' sottesa alle buffonerie del 'capriccio' è la difficoltà, per il teatro musicale del nostro tempo, di continuare a esistere senza smarrire quel senso di totalità e di classica perfezione che Busoni vagheggiava nei modelli supremi di Mozart e di Rossini. Denunciando l'inadeguatezza del teatro naturalista e di sentimenti con l'ingannevole levità di una giocosa burla, Arlecchino ci addita sotto la luce di una gelida ironia l'innocenza irrecuperabile di quei modelli. La nota fondamentale del 'capriccio' resta dunque quella dell'amarezza e dello smarrimento scettico: un «riso doloroso» (Sablich), cui Busoni cercherà di offrire la speranza di una risposta in positivo nel Doktor Faust.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

In un articolo comparso nel 1940 sulla «Rassegna Musicale», Vittorio Gui osservava: «Che Ferruccio Busoni fosse anche un compositore di musica, fino a qualche tempo fa la più gran parte degli italiani ignorava perfettamente, e parecchi ancora oggi purtroppo lo ignorano; che egli occupi poi un posto altamente importante nella storia della composizione italiana, credo che sia ancora da rivelare». Da allora, purtroppo, la situazione non è molto cambiata se Luigi Dallapiccola, inaugurando nello scorso agosto ad Empoli le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della morte del maestro, dopo aver ricordato alcune sporadiche esecuzioni italiane delle sue opere, affermava: «Busoni dev'essere ancora scoperto. In Francia è pressoché del tutto ignorato sia dal pubblico che dalla critica; nei miei periodi d'insegnamento negli Stati Uniti, ogni qual volta ho fatto il nome del Maestro c'è stato qualche scolaro che mi ha ribattuto: "Da noi è sconosciuto". In casi del genere la mia risposta è stata sempre una e la stessa: "Peggio per voi"». Proprio ad Empoli, città natale del musicista, la ricorrenza celebrativa ha consentito la ripresa, insieme con altri lavori di Busoni, dell'opera «Arlecchino» che, dopo un'esecuzione alla Settimana Musicale Senese, viene ora opportunamente presentata al Teatro Comunale nella stessa edizione almeno per quanto si riferisce all'aspetto registico e scenografico. C'è da augurarsi che questa volta Busoni sia davvero «tornato per rimanere» stabilmente nei cartelloni delle istituzioni musicali, dal momento che ogni esecuzione delle sue opere costituisce un contributo al superamento dei pregiudizi e della pigrizia intellettuale che troppo spesso sono alla base delle scelte dei teatri e fanno velo alla comprensione di una larga parte del pubblico abituato a indirizzi tradizionali.

Anche da questo punto di vista, «Arlecchino» costituisce una lezione che, a sessant'anni di distanza, non ha perduto niente della sua pungente modernità. Composto fra la fine del 1914 e l'agosto 1916, questo «capriccio teatrale» fu rappresentato per la prima volta a Zurigo l'11 maggio 1917 insieme con la «fiaba musicale» «Turandot». Erano quelli gli anni del volontario esilio di Busoni in Svizzera, dove si era recato per non dover risiedere in uno dei paesi belligeranti che, come l'Italia e la Germania, gli erano ugualmente cari; viene molto citato a questo riguardo, e testimonia bene dello stato d'animo del maestro, ciò che scrisse Stefan Zweig su Busoni: «"A chi appartengo?" mi domandò una volta. "Quando la notte sogno, mi accorgo al destarmi di aver parlato in sogno in italiano. Ma se poi scrivo, penso parole tedesche"».

La guerra dunque, vissuta da Busoni come un'ossessione è probabilmente una delle chiavi che ci aiutano a comprendere la composizione di «Arlecchino» anche se l'occasione esterna sembra sia da ravvisarsi, a detta di alcuni biografi, nella rappresentazione di una commedia, «L'inutile precauzione», centrata sulla maschera di Arlecchino, da parte della compagnia di Armando De Rossi, alla quale il compositore aveva assistito nel 1912 a Bologna. Un'altra ragione probabile è il desiderio di comporre un'opera comica italiana che, richiamandosi alla Commedia dell'Arte, costituisse una decisa presa di posizione antiromantica ed antiveristica, contro il clima cioè che dominava allora la vita musicale del nostro paese. Non a caso del resto anche «Turandot», al contrario dell'omonima opera pucciniana, prevede la presenza delle maschere italiane come nell'originale di Carlo Gozzi.

Il ritorno all'opera in forme chiuse e l'introduzione di un personaggio che parla e non canta, ed è per l'appunto il protagonista, consentono a Busoni di compiere una satira piuttosto pungente su tutta una serie di convenzioni, da quelle del melodramma tradizionale a quelle, molto più opprimenti, della vita sociale; nel microcosmo di una Bergamo di fine Settecento, si specchia in realtà il nostro mondo con tutte le sue assurdità, i suoi pregiudizi, le sue crudeltà.

Basti pensare, solo per fare un esempio, all'ironia, ma anche all'amarezza di queste parole di Arlecchino: «Cosa è un soldato? Qualcosa che rinuncia a se stesso. Una veste diversa dalle altre ... L'uomo artificiale... Cosa è il diritto? La cosa che si vuole strappare agli altri... Cosa è la patria? La discordia in casa propria... Voi siete dei soldati e combattete per il diritto e per la patria. Ricordatevene!». O, ancora, alla partecipazione morale che si avverte dietro il distacco ironico (non per niente Kurt Weill fu allievo di Busoni) alle vicende di personaggi ognuno dei quali rappresenta un tipo umano abbastanza comune: Ser Matteo, il pedante che ripete all'infinito brani della «Divina Commedia» senza comprenderli, il dottor Bombaste più attendibile come bevitore che come medico, così come l'Abate Cospicuo, religioso poco probabile costretto ad affidarsi alla provvidenza «che arriva in forma d'un asino».

La profonda umanità dei contenuti si rivela del resto proprio nella costruzione musicale, nel programmatico rifiuto del sentimentalismo conseguente ad una dimensione fonica che tanto nell'orchestra quanto nella vocalità si basa su una lineare polifonia e su un impiego calibratissimo ed equilibrato degli elementi melodici ed armonici. C'è in tutto questo un richiamo alla tradizione dell'opera italiana che da Cimarosa e Rossini giunge fino a Verdi; ci sono anche un equilibrio ed una trasparenza che richiamano Mozart, uno dei grandi amori di Busoni; c'è, infine, una modernità perfino sorprendente che recupera la classicità erodendone al tempo stesso con spirito corrosivo i tradizionali nessi espressivi.

Via via che l'azione procede, la caratterizzazione psicologica dei personaggi e delle situazioni si fa sempre più pungente mediante un impiego ricco e variato di effetti ritmici e timbrici in orchestra e una condotta delle voci agile e trasparente.

L'opera è suddivisa in quattro quadri. Prima dell'alzarsi del sipario, quattro battute della tromba introducono Arlecchino che viene al proscenio e recita il prologo.

Una tranquilla introduzione apre poi il primo quadro: ser Matteo legge la «Divina Commedia» e commenta a modo suo il Canto di Paolo e Francesca finché il suo canto si distende spiritosamente su un tema del «Don Giovanni» di Mozart. Intanto Arlecchino, che sta alla finestra con la moglie del sarto, annunzia a questi l'arrivo dei barbari; il carattere prevalentemente ritmico della musica sottolinea lo spavento di Matteo finché, chiuso quest'ultimo in casa, Arlecchino declama su un tema saltellante che ne sottolinea la baldanza.

Il successivo duetto dell'Abate e del Dottore si svolge su un tema pacato che si distende liricamente soltanto all'evocazione della Toscana, per dar luogo poi ad un andamento più spigliato e ad un vivacissimo giuoco vocale nel terzetto in cui i due e ser Matteo si intimoriscono a vicenda nell'evocare le ipotetiche gesta dei barbari.

Il secondo quadro si svolge interamente su una spiritosa marcetta interrotta solo dal recitativo di Arlecchino che, travestito da capitano, comunica a ser Matteo l'ordine di arruolamento.

Un tempo di minuetto sostenuto, annuncia nel terzo quadro l'entrata di Colombina e accompagna il suo dialogo con Arlecchino. Una voce interna che canta una serenata da melodramma preannuncia l'arrivo di Leandro che rappresenta infatti il tipo del tenore tradizionale; il suo duetto con Colombina si svolge molto spiritosamente con l'andamento di una scena d'opera nella quale, ad un certo punto, si inserisce una cabaletta in pieno stile ottocentesco. La «stretta finale» viene turbata dall'arrivo di Arlecchino e la musica riprende il tema dell'andantino sul quale Arlecchino conduce Colombina alla locanda. Il suo duello col cavaliere si svolge senza musica.

Il quarto quadro si apre con un breve tema affidato ai bassi su cui si svolge tutta la prima parte del terzettino fra l'Abate, il Dottore e Colombina; un altro tema più brillante guida i tre verso il corpo del presunto assassinato. Il loro imbarazzo è reso da un tremolio degli archi; le finestre intorno si aprono fino al bisticcio dei tre e al tempo di marcia funebre sul quale l'Abate chiede invano aiuto. Un allegretto sostenuto annuncia l'arrivo dell'asino «della provvidenza»; il morto si alza e s'inizia così un geniale quartetto in cui l'equilibrio delle voci e delle sonorità raggiunge momenti di altissima perfezione contrappuntistica. Un tema allegro segue poi la fuga di Arlecchino e di Annunziata, la bella moglie di ser Matteo. Quest'ultimo rientra infine sul tema di marcia con il quale era partito, diventato però ora ilare e tranquillo: un po' di turbamento è dato dal biglietto della moglie, ma poi la consuetudine riprende il sopravvento e ser Matteo toma a declamare la «Divina Commedia». Cala il siparietto e un ritmo di polacca introduce la processione dei vari personaggi che salutano il pubblico; per ultimi, sul tempo di minuetto sostenuto già accennato nel duetto fra Arlecchino e Colombina, giungono ora Arlecchino e Annunziata. Arlecchino presenta la sua nuova sposa e rivolto al pubblico enuncia la morale dell'opera: «Chi sa farsi valere alla fine? Solo colui che con le proprie forze seguendo i suggerimenti del cuore e con vigile mente sceglie la via diritta; chi si accontenta di restare fedele a se stesso; chi anche in vesti rattoppate serba la sua interezza e non si inchina a nessuno».

Un presto di poche battute conclude l'opera. Il siparietto si rialza e appare ser Matteo che continua a leggere e attendere.

Mario Sperenzi


(1) "Dizionario dell'Opera 2008", a cura di Piero Gelli, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Firenze
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino, Firenze, Teatro Comunale, 16 gennaio 1975

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Ultimo aggiornamento 1 novembre 2019