Concerto in do maggiore per pianoforte op. XXXIX, KV 247

con coro maschile nel finale

Musica: Ferruccio Busoni (1866 - 1924)
Testo: Adam Oehlenschläger
  1. Prologo e Introito: Allegro, dolce e solenne
  2. Pezzo giocoso
  3. Pezzo serioso:
  4. Introductio: Andante sostenuto
  1. All'Italiana: Tarantella: Vivace; In un tempo
  2. Cantico: Largamente (con coro)
Organico: pianoforte solista, coro maschile, 2 flauti piccoli, 3 flauti, 3 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo militare, grancassa, tamburino, triangolo, piatti, glockenspiel, tamtam, archi
Composizione: 1902 - 3 agosto 1904
Prima esecuzione: Berlino, Beethoven-Saal, 17 novembre 1904
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1904
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra op. 39 costituisce uno dei lavori più singolari e contraddittori nella produzione musicale di Ferruccio Busoni. Pur trattandosi della sua prima opera di grandi ambizioni e impegno compositivo, che racchiude alcuni dei caratteri fondamentali della personalità dell'autore, la diffusione di questo lavoro nelle sale da concerto è stata ancora minore rispetto ad altre importanti composizioni busoniane a lungo misconosciute. La scarsa fortuna dell'opera, tuttavia, dipende solo in parte dalle obiettive difficoltà esecutive della partitura, sia dal punto di vista dell'organico impiegato, sia da quello della scrittura pianistica, che richiede un autentico virtuoso della tastiera, caratteristiche, queste, comuni ad altre composizioni a cavallo fra XIX e XX secolo. Come ha osservato Sergio Sablich, probabilmente una delle ragioni della scarsa diffusione di questo come di altri lavori busoniani è da ricondursi all'impossibilità di affrontarlo per mezzo di schemi precostituiti "adatti a convogliare entro parametri di una qualsivoglia tendenza una partitura che nasce libera e gioiosa, se si vuole iperbolica o perfino ingenua, ma sempre e rigorosamente 'musicale', secondo i dettami più tipici della inconfondibile natura di Busoni". L'approccio busoniano alla musica, fatto essenzialmente di libera creatività, si realizza, nel caso del Concerto op. 39, in procedimenti compositivi in cui coesistono stilemi della più effettistica tradizione strumentale e mezzi espressivi più sottilmente moderni e avanzati. In tal modo si confrontano e fondono elementi puramente spettacolari e virtuosistici con spunti ironici e atmosfere magiche e mistiche, "in una specie di al di là dei sentimenti", secondo le parole dello stesso Busoni.

Il titolo completo che si legge sulla partitura risulta assai formale e un po' ampolloso: "Concerto - per un pianoforte principale e diversi strumenti ad arco, a fiato e a percussione - aggiuntovi un coro finale per voci d'uomini a sei parti - le parole alemanne del poeta Oehlenschläger, danese, la musica di Ferruccio Busoni da Empoli. Anno MCMIV, opera XXXJX".

II lavoro di composizione iniziò nell'estate del 1902 e procedette con grande rapidità, tanto che già alla fine di luglio era pronto un primo abbozzo dell'opera in cinque tempi di diverso carattere, come risulta dalla lettera alla moglie Gerda del 21-22 luglio 1902 da Berlino, in cui Busoni riassume la sua concezione del lavoro, paragonandola ad una figura "architettonico-paesaggistico-simbolica". Il Concerto poteva dirsi realizzato alla fine dell'agosto 1903, anche se Busoni continuò a curarne la strumentazione fino alla primavera del 1904, anno in cui l'opera fu eseguita per la prima volta a Berlino, precisamente il 17 novembre, con Busoni stesso in veste di pianista. Nelle intenzioni dell'autore, doveva trattarsi di un'opera di ispirazione italiana, basata su materiali tematici tipicamente mediterranei, come in effetti avviene nel secondo, terzo e quarto movimento del Concerto, mentre per il finale Busoni attinse ad un'altra fonte, quella del poeta danese Oehlenschläger, capovolgendo retrospettivamente il senso di tutta la composizione. Oehlenschläger, vissuto fra il 1779 e il 1850 e considerato uno dei massimi rappresentanti della letteratura romantica dei paesi nordici, fu una grande fonte di ispirazione per Busoni, che aveva persino progettato di comporre un pezzo teatrale basato sul dramma Aladino, opera che si rifà vagamente ai racconti della Mille e una Notte, pervasa di misticismo e panteismo e scritta in un linguaggio fortemente improntato al Faust di Goethe. Il lavoro teatrale non venne mai realizzato, ma se ne trovano tracce concrete proprio nel Concerto op. 39.

Il carattere composito del Concerto non sfuggì neppure allo stesso Busoni, che così lo giudicava nella sua Autorecensione del febbraio 1912: "È un'opera che tenta di riassumere i risultati del periodo della mia prima maturità e che rappresenta la sua conclusione. Come ogni opera che sorge in quest'epoca dello sviluppo, è matura per esperienza personale e si basa sulla tradizione. Non indica certo il futuro, ma rappresenta il momento della sua nascita. Le proporzioni e i contrasti sono distribuiti con cura, e, per il fatto che il piano era stabilito definitivamente prima che ne incominciasse l'esecuzione, non v'è niente in essa dovuto al caso".

Alla struttura grandiosa dell'opera si affianca un virtuosismo strumentale che richiama la tradizione lisztiana e che pervade il Concerto quasi senza interruzione. Tuttavia il pianoforte non si contrappone dialetticamente all'orchestra, ma ne entra a far parte in qualità di primus inter pares, assimilandone temi e timbri.

Nel primo movimento, Prologo e Introito, una lenta introduzione orchestrale presenta il tema iniziale, suonato dalle viole, di chiara ispirazione brahmsiana. Si tratta di una melodia molto estesa e di ampio respiro che solo dopo 33 battute lascia spazio ad un altro motivo. In genarale, osserva Antony Beaumont, le immense proporzioni del Concerto sono dovute in parte alla notevole lunghezza di temi e motivi, per cui ogni esposizione ed elaborazione costituisce di per sé un ampio processo. Con l'entrata del pianoforte, che presenta un motivo tratto dal coro previsto originariamente per l'opera Aladino, tutti i temi acquistano progressivamente spessore nel dialogo con lo strumento solista. Questo procedimento raggiunge l'apice nella serie di variazioni del tema iniziale, di cui la prima, in mi maggiore, coinvolge l'oboe e il pianoforte, mentre nella seconda, in fa maggiore, risalta il virtuosismo del solista e nella terza vi è uno splendido intervento solistico del corno. La coda, con i tripli trilli del pianoforte e l'intervento della tromba, conduce alle battute conclusive ("religiosamente") in un riconciliante do maggiore.

Il Pezzo giocoso ("Giovanescamente giocoso e forte") che segue, ha il carattere di Scherzo ed è improntato ad una vena di briosa varietà ritmica e di effervescente virtuosismo. Caratteristica principale è l'impiego in funzione coloristica di una canzone popolare napoletana, Fenesta ca lucive, che emerge nel registro basso del clarinetto dopo una serie di accordi minori e maggiori e viene sottoposta ad una raffinata mutazione modale. Il motivo viene subito ripreso dal pianoforte che lo sviluppa in un movimento di danza, culminante in un Presto di selvaggia vivacità. La melodia ritorna poi immersa in un'atmosfera austera, mentre la conclusione del brano si riallaccia all'inizio, con il pianoforte impegnato in volate rapide e vorticose.

Il terzo movimento, Pezzo serioso, diviso in quattro parti (Introduzione, Prima pars; Altera pars; Ultima pars) è un Adagio di vaste proporzioni, in cui, fra l'altro, Busoni riutilizza materiale tematico tratto da una sua "opera romantica", intitolata Sigune, oder das stille Dorf, soltanto abbozzata fra il 1887 e il 1889, che a sua volta riprende un motivo di un inedito Studio per pianoforte. Il Pezzo serioso completa quell'autoritratto ideale iniziato nel Pezzo giocoso, con la giustapposizione di elementi seri e comici che rappresenta la cifra stilistica della personalità compositiva di Busoni.

Il tempo che segue, All'italiana (Tarantella), è il più caratteristico e forse il più problematico movimento del Concerto, con la sua ridondanza tematica e sonora. Fu anche quello che più impegnò ed entusiasmò Busoni, come si desume da alcune lettere alla moglie scritte nel corso dell'estate del 1902: "...sono immerso fino al collo nella Tarantella ...nuoto in un mare di terzine, suono il tamburello, salto su un piede solo ... - questa Tarantella che segue l'Adagio dà la stessa impressione che si prova quando si esce dal Foro e ci si trova in una strada popolare di Roma. O di una festa popolare che prende l'avvio dal Pantheon. Anche la bella canzone "e sì, e sì che la porteremo, la piuma sul cappello"... ci sta benissimo.... Nella Tarantella c'è una notte d'amore con una serenata - e anche in un'eruzione del Vesuvio". Dunque, un ritratto esuberante dell'Italia che si traduce in una vera e propria vorticosa Tarantella napoletana in 6/8, ispirata, oltre che a Fenesta ca lucive, parafrasata in stile di canzone a ballo, anche ad altre due canzoni popolari: la prima è la famosa Canzone dei bersaglieri di Lamarmora, ricordata nella citazione precedente, mentre l'altra è una Canzone popolare "la dis, la dis, la dis che l'è malata...", impiegata in un crescendo di furiosa baldoria. Nonostante le accensioni coloristiche e l'esuberanza espressiva, nel movimento prevale un senso di transitorietà: la forma è strutturata in episodi, mentre i centri tonali si stabilizzano solo per poco tempo, prima di svanire assorbiti dal vortice sonoro.

Preceduto da tre lievi accordi pizzicati, "senza tempo", della conclusione della Tarantella, il Cantico finale costituisce una brusca frattura espressiva rispetto al movimento precedente. Il Cantico utilizza, come già detto, l'Inno in lode di Allah di Oelenschläger per il Coro maschile, impiegato come pura fonte sonora di ampio respiro melodico e teso a trascendere tutto ciò che i precedenti movimenti avevano espresso: in questo senso, la prescrizione che "il coro sia lasciato internamente e non visibile" risulta particolarmente significativa. Dal punto di vista tematico il Finale si ricollega in particolare al Pezzo serioso e al Prologo, elaborandone il materiale all'insegna di una notevole instabilità tonale, in un clima espressivo austero e di impronta prettamente "germanica". L'entrata del Coro introduce un'ampia melodia con carattere di Corale, "molto solenne", che si distende poi nel canto dei violoncelli. Dopo la conclusione radiosa del coro interviene il pianoforte, che riprende le ondate di arpeggi del Prologo, riproponendo l'incipit di Fenesta ca lucive in una maestosa scala per toni interi. Un immenso crescendo orchestrale sfocia infine nell'Allegro con fuoco conclusivo, che con le sue fanfare in do maggiore costituisce un esito piuttosto effettistico e pomposo.

Anna Ficarella

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

All'appuntamento col Novecento Ferruccio Busoni si presentò con la coscienza di avere ormai raggiunto sufficienti certezze circa i propri compiti e fini, sia come pianista sia come compositore. L'opera di revisione e di trascrizione dei lavori di Bach e Liszt cominciava a produrre sostanziosi risultati, ma per il momento Busoni si sentiva spinto verso ulteriori tentativi di ampliare i confini della sua ricerca: anzitutto lo tentava sempre più l'avventura dell'opera lirica, dopo alcune prove lasciate a metà, mentre anche la "musica italiana" cominciava a far sentire concretamente il suo richiamo. Nato in questo periodo di trapasso, il ciclopico Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra op. XXXIX (la numerazione in cifre romane è dell'autore) può essere visto come un compendio di tutto ciò che si agitava allora nella mente fertilissima di Busoni: più propriamente questo lavoro di ambizioso impegno, unico nella sua produzione, rappresenta lo sforzo immane di riunire e far emergere in un sol colpo un coacervo di elementi eterogenei e diversissimi sia per carattere sia per forma.

Busoni cominciò a interessarsi al progetto di un Concerto per pianoforte nella primavera del 1901; il lavoro di composizione ebbe inizio solo nell'estate del 1902 e procedette con rapidità e facilità, tanto che già alla fine di luglio il primo abbozzo era ultimato. Ripreso nell'estate del 1903 (Busoni in quegli anni poteva dedicarsi alla composizione soltanto d'estate, quando i suoi viaggi per concerti venivano interrotti), il Concerto fu compiuto alla fine d'agosto; anche se fu ritoccato, soprattutto nella strumentazione, fino alla metà del 1904. La prima esecuzione avvenne a Berlino il 10 novembre di quelo stesso anno nell'ambito del ciclo di musiche contemporanee "nuove o raramente eseguite" organizzato da Busoni stesso, con la direzione di Karl Muck e l'autore al pianoforte. Sempre con Busoni solista e con Bruno Mugellini come direttore, il Concerto fu poi eseguito per la prima volta in Italia a Bologna nel 1906, nel corso di quel viaggio che tanto entusiasmo per le sorti della musica italiana fece nascere in Busoni, sì da fargli desiderare di stabilirsi nel suo paese natale (italiano di nascita, Busoni era ormai tedesco per formazione e cultura).

Nel Concerto Busoni si serve di ritmi, melodie e forme caratteristicamente italiane. In italiano sono non soltanto i titoli dei cinque movimenti, ma anche il titolo completo, che suona assai solenne: "Concerto - per un pianoforte principale e diversi strumenti ad arco, a fiato e a percussione - aggiuntovi un coro finale per voci d'uomini a sei parti - le parole allemanne del poeta Oehlenschlaeger, danese, la musica di Ferruccio Busoni da Empoli. Anno MCMIV, opera XXXIX".

Ma se italiani sono l'assunto programmatico e buona parte del materiale, l'impianto dell'opera è invece solidamente puntato sulle fondamenta della tradizione tedesca, come ideale prolungamento della forma sette-ottocentesca del Concerto per pianoforte. L'ultimo tempo, poi, sembra addirittura capovolgere, teatralmente, il segno globale della composizione, introducendo un coro maschile invisibile che intona le parole misticheggianti di un Inno in lode di Allah, tratto dall'Aladino di Oehlenschlaeger.

Costui, Adam Gottlob Oehlenschlaeger (1779-1850), di origine tedesca, è considerato uno dei massimi rappresentanti della letteratura fiabesca romantica, letteratura molto amata da Busoni fin dai tempi del suo soggiorno in Finlandia. Da una lettera alla moglie Gerda datata 10 febbraio 1902, antecedente dunque all'inizio vero e proprio della composizione del Concerto, si ricava che Busoni voleva scrivere un lavoro teatrale sul testo dell'Aladino di Oehlenschlaeger; se questa idea non arrivò mai a compiersi, pure una traccia di quel progetto rimase appunto nel Cantico finale del Concerto. Espressamente Busoni scriveva che il Coro di Oehlenschlaeger "simboleggia il misticismo della natura"; e verso una dimensione effettivamente mistica e trascendente, di misurata interiorità, esso tende, con notevole scarto rispetto alle parti che lo precedono. Musicalmente, egli se ne servì in maniera strumentale, intendendo fornire con il Coro una nuova fonte sonora, che esprimesse in un respiro melodico ampio una sorta di "al di là dei sentimenti": in questo senso, la prescrizione che "il coro sia lasciato internamente e non visibile" è indubbiamente significativa. Ma anche la scelta del testo rientra nel quadro della spiritualità busoniana, proiettata verso una eterna trascendenza, rivelata e rappresentata dalla musica.

Da ciò si capisce che un'opera complessa e singolarmente contraddittoria come il Concerto offre lo spunto per molteplici riflessioni, e non pochi problemi interpretativi. Anzitutto, esso rappresenta una specie unica di grandiosa ricapitolazione del genere concertistico, ma è anche, rispetto alla sua tradizione, un'opera postuma. Il suo carattere composito fu ben definito da Busoni stesso in uno scritto di alcuni anni più tardi, Autorecensione (febbraio 1912): "È un'opera che tenta di riassumere i risultati del periodo della mia prima maturità e rappresenta la sua conclusione. Come ogni opera che sorge in tale periodo di sviluppo, è matura per esperienza acquisita e si basa sulla tradizione. Non indica certo il futuro, ma rappresenta il momento della sua nascita. Le proporzioni e i contrasti sono distribuiti con cura, e, per il fatto che il piano era stabilito definitivamente prima che ne incominciassi l'esecuzione, non c'è niente in essa di casuale".

Non bisogna dimenticare che, negli anni immediatamente precedenti il Concerto, Busoni aveva eseguito come pianista, anche in cicli organici, tutti i maggiori lavori della letteratura concertistica da Bach a Liszt; come compositore, intendeva ora dimostrare che il genere del concerto per pianoforte poteva avere sviluppi e arrichimenti ulteriori, moderni: a patto di rinunciare agli stilemi convenzionali per puntare con decisione verso una forma aperta, composita, di dimensioni e caratteri più liberi, onnicomprensiva, anche nel rapporto fra pianoforte e orchestra. Le note illustrative dettate da Busoni per la prima esecuzione sono a questo proposito una fonte preziosa anche per comprendere la struttura del lavoro:

"La parola "concerto" è usata qui nel suo significato originale, intendendo una cooperazione di mezzi diversi di produzione del suono. Questo Concerto differisce da quelli che lo hanno preceduto anzitutto per la forma esterna, che per la prima volta è estesa a cinque movimenti. I primi a essere composti sono stati i numeri 1, 3, e 5, che nel sentimento di fondo sono movimenti tranquilli; gli altri due naturalmente hanno portato al Concerto ritmi più vivaci. Di questi il secondo celebra la vivacità dell'immaginazione, il quarto quella del temperamento, e quest'ultimo raggiunge un così alto grado di energia che l'ispirazione fondamentale del lavoro sarebbe stata distrutta se il quinto movimento non l'avesse ricomposta. Questo quinto movimento è pertanto indispensabile; esso completa il cerchio attraverso cui siamo passati e unisce la conclusione all'inizio. E la musica ha percorso una così multiforme varietà di sentimenti umani che le parole di un poeta si rendevano necessarie per riassumerli in una conclusione. L'aggiunta di un coro di voci maschili è la seconda novità di questo lavoro. Il coro non si distacca dallo stato d'animo di ciò che lo precede per tendere all'estremo opposto del sentimento, come accade nella Nona Sinfonia; esso somiglia piuttosto a qualche qualità originale e innata in una persona che nel corso degli anni si manifesta e viene fuori raggiungendo l'ultimo stadio della sua evoluzione. Terza caratteristica di questo lavoro è l'insistenza sulle melodie e i ritmi italiani. Accanto a tre autentiche canzoni popolari italiane vi sono parecchi giri di frase decisamente di sapore italiano. Il quarto movimento - una specie di carnevale napoletano - è una forma di trantella altamente sviluppata".

La prima delle tre canzoni popolari si presenta nel secondo movimento, Pezzo giocoso, un intermezzo scherzoso di effervescente vivacità e energia ritmica. Qui Busoni cita, come secondo tema affidato al pianoforte, la famosa canzone napoletana Fenesta ca lucive, sottoponendola sì a una raffinata mutazione modale e poi cromatica, ma senza privarla del suo carattere melodico, immediatamente riconoscibile. Il quarto movimento è addirittura emblematico nel titolo, All'Italiana. Si tratta di una vorticosa tarantella napoletana costruita, oltre che su Fenesta ca lucive, ora genialmente parafrasata a mo' di canzone a ballo, su due motivi popolari molto noti: quello dei bersaglieri di Lamarmora, sulle parole "e sì, e sì che la porteremo, la piuma sul cappello, davanti al colonnello, giuriam la fedeltà", e l'altro della canzone popolare La bella gigogin, sulle parole "la dis, la dis, la dis che l'è malata..."; essa segue alla prima in un crescendo di concitata e quasi furiosa baldoria fino all'acme impressionante, anche se di effetto discutibile, della stretta finale ("a passo a passo infuriando"). "La Tarantella" - scriveva Busoni alla moglie nell'estate del 1902 - "deve diventare Napoli stessa; solo un po' più pulita, ma non così pulita come gli altri tempi"; e ancora: "Questa Tarantella che segue l'Adagio dà la stessa impressione che si prova quando si esce dal Foro e ci si trova in una strada popolare di Roma. O di una festa popolare che prende l'avvio dal Pantheon". L'uso che Busoni fa qui del materiale popolaresco italiano è in funzione principalmente coloristica: esso mira cioè a ricreare una istintiva e fresca musicalità di segno immediatamente positivo. Non si apparenta perciò minimamente all'impiego delle fonti originali del folklore in Bartók, o dei motivi canzonettistici in Mahler.

Del tutto opposto è il carattere dei tempi dispari. Il primo, Prologo e Introito, è una solenne introduzione nella quale due temi principali, ambedue presentati dall'orchestra, acquistano un progressivo e ampio sviluppo nel dialogo con il pianoforte: mentre il primo per la sua classica epicità richiama alla mente Brahms, il secondo ha una tendenza eroica e iperbolica, di sapore quasi skrjabiniano. Procedimenti contrappuntistici assai estesi, in una dinamica orchestrale inquietamente cangiante, contribuiscono alla solidità della architettura musicale. Il terzo tempo, Pezzo serioso, diviso in quattro parti (Introductio; Prima pars; Altera pars; Ultima pars), è un Adagio di vaste proporzioni e di problematica definizione. Busoni vi riutilizzò, oltre a uno Studio inedito, spunti della sua "opera romantica" incompiuta Sigune, oder das stille Dorf (Sigune, ovvero il villaggio silenzioso), cui lavorò negli ultimi anni Ottanta. Un certo clima wagneriano è evocato dal tema che apre la Introduzione, tutto pervaso da una espansiva ansia cromatica. Fra il virtuosismo timbrico di Liszt e l'intimismo lirico di Chopin si colloca l'ampio svolgimento, basato sulla reiterata successione di slanci e sospensioni, sapientemente guidata dalla presenza del pianoforte. Al Pezzo serioso si collega anche tematicamente l'ultimo tempo. Esso presenta fin dall'inizio una instabilità tonale che si allarga anche a squarci politonali, e ha un'impronta decisamente "tedesca" e nordica, austera e riservata, fino all'entrata del coro maschile, con carattere di Corale. Lo svolgimento conduce ad un crescendo di nobile intensità, che si distende poi in orchestra nel bellissimo canto dei violoncelli; la didascalia, "Molto solenne", indica perfettamente il carattere della sezione finale di questo tempo, pervasa da un sentimento intimo cui il Concerto sembra da ultimo tendere.

Sergio Sablich

CANTICO
INNO IN LODE DI ALLAH

Hebt zu der ewigen Kraft Eure Herzen
Fühlet Euch Allah nah'. Schaut seine Tat!
Wechseln im Erdenlicht Freuden und Schmerzen
Ruhig hier stehen die Pfeiler der Welt.
Tausend und Tausend und abermals Tausende Jahre
So ruhig wie jetzt in der Kraft,
Blitzen gediegen mit Glanz und mit Festigkeit
Die Unverwüstlichkeit stellen sie dar!

Herzen erglüheten, Herzen erkalteten,
Spielend umwechselten Leben und Tod.
Aber in ruhigem Harren sie dehnten sich,
Herrlich, kräftiglich, früh so wie spät
Hebt zu der ewigen Kraft Eure Herzen
Fühlet euch Allah nah'. Schaut seine Tat!
Vollends belebet ist Jetzo die tote Welt
Preisend die Göttlichkeit, schweigt das Gedicht!
INNO IN LODE DI ALLAH

Alzate i vostri cuori verso la Forza Eterna
Sentitevi vicini ad Allah, guardate la sua opera!
Nella luce terrestre cambiano gioie e dolori
Tranquillamente stanno qui i pilastri del mondo.
Mille e ancora migliaia d'anni
Con la forza tranquilla di ora
Resistenti ai lampi con lucente fermezza
Essi rappresentano l'indistruttubilità!

Cuori s'infiammarono, cuori si raggelarono.
Giocando si alternavano vita e morte
Ma in calma attesa essi si estendevano
Splendidamente e gagliardamente mattina e sera.
Alzate i vostri cuori verso la Forza Eterna
Sentitevi vicini ad Allah, guardate la sua opera!
Interamente animato è ora il morto mondo.
Lodando la divinità, tace la poesia!

tratto da L'Aladino di Adam Gottlob Oehlenschläger

(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 25 marzo 2006
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Orchestra sinfonica e Coro della Rai di Torino,
Auditorium "G. Agnelli" Lingotto di Torino, 29 aprile 1988

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Ultimo aggiornamento 5 agosto 2014