Compositore di confine, problematico, Ferruccio Busoni anticipa negli scritti teorici e in alcune opere le correnti più vive della musica del nostro secolo, ma rimane per certi versi ancorato al clima culturale tardo-ottocentesco. Il suo culto di Bach, condiviso con Reger ed esplicato in lavori monumentali come la Fantasia contrappuntistica e in altri di ascetica severità (Sonatina in signo Johannis Sebastiani Magni), se da una parte lo solleva dalla pletora dei cascami tardoromantici nel segno di un rigore di scrittura tutto novecentesco, dall'altra lo costringe in una sorta di gabbia intellettuale, lontanissima dal "grido" schönberghiano, come dall'ironia di Stravinsky o dalle ricerche ritmiche e timbriche di Bartók.
«Uomo nuovo nato nel secolo vecchio», Busoni rifiuta il bozzettismo sentimentale del suo tempo, quella poetica del frammento collimante col mileu crepuscolare e decadente di un'Italia sempre riconosciuta come patria naturale e ideale, ma in realtà piuttosto lontana dalla sua impostazione culturale profondamente tedesca.
Il celebre motto busoniano «solo chi guarda innanzi ha lo sguardo lieto» vale comunque a definire una personalità inquieta, faustiana, che si pone costantemente in discussione e periodicamente - come afferma in una lettera del 1894 - vuole «ricominciare tutto daccapo». Le attitudini teoriche lo vedono convinto assertore di un ampliamento del sistema temperato e lo avvicinano a Schönberg (che trascrisse per complesso da camera la sua Berceuse elégiaque del 1910).
Al centro del suo pensiero e del suo lavoro compositivo è l'idea di una «Nuova Classicità», priva affatto della prospettiva straniante del Neoclassicismo di Stravinsky e culminante nei due lavori teatrali rappresentati a Zurigo nel 1917: il capriccio in un atto Arlecchino e l'opera in due atti Turandot da Carlo Gozzi.
A quella stessa esigenza di forme liriche in sé conchiuse più che a un ritorno al foglio d'album di gusto romantico si deve anche la tarda Elegia per clarinetto e pianoforte (1920) in cui il sommo pianista Busoni, riducendo il ruolo del suo strumento al semplice accompagnamento, sembra piegarsi alle ragioni e alla forza del canto.
Giulio D'Amore