Dopo Vakula il fabbro ed Evgenij Onegin, capolavori della giovinezza, Cajkovskij vuol dare al suo teatro musicale un tono meno "nazionale", più europeo in senso francese, e si rivolge a Giovanna d'Arco (La fanciulla di Orléans, 1881) nel dramma di Schiller tradotto in russo da Zukovskij e variamente adattato a libretto d'opera da Barbier e Mermet; ma la sortita dal mondo russo non è felice, e Cajkovskij ritorna tosto a Puskin (Poltava) per la successiva Mazeppa (1884), lavoro ricco di pregi e di spunti originali, ma con dentro qualche cosa di non completamente armonizzato, soprattutto per via della figura non risolta del protagonista; altre corde ancora tocca L'incantatrice (1887), minata dalla difformità fra un primo quadro che è una grandiosa ricostruzione di vita nazionale ucraina e gli atti successivi dedicati a celebrare l'amore della donna come forza cosmica e in quanto tale positiva: tema, per altro, dal quale la musa cajkovskijana dell'amore come impossibilità e negatività rifuggiva intimamente. Dopo questo lungo percorso, Cajkovskij si ritrova compiutamente nella Dama di picche (1890), dove di nuovo materia, carattere dei personaggi e loro destino, tutti insieme si saldano con l'invenzione musicale in un solo atto della fantasia creatrice; che naturalmente recupera al nuovo fine anche alcuni spunti isolati affacciati nelle opere riuscite solo a metà: ad esempio, una certa inquietudine erotica in re Carlo nella Fanciulla di Orléans, l'apparizione della madre di Maria in Mazeppa, la musica rapida e lampeggiante che accompagna il notturno avvicinarsi dei sicari nell'Incantatrice (a parte l'autocitazione, ancora da Mazeppa, della ninna nanna di Maria demente nel canto delle nutrici nel primo quadro della Dama).
Molto provato dalla composizione del balletto La bella addormentata (1889), nel gennaio 1890 Cajkovskij secondo il suo costume se ne parte per un viaggio di isolamento creativo e si stabilisce a Firenze; da dove scrive a Nadezda von Meck: «Ho scelto Puskin... La donna di picche... tre anni fa mio fratello Modest si era messo a scrivere il libretto su richiesta di un certo Klenovskij, e adagio adagio durante questi tre anni ha messo assieme un libretto molto ben fatto». In realtà, l'idea di cavare un'opera lirica dal racconto di Puskin era stata di Ivan Aleksandrovic Vsevolozskij, direttore dei Teatri imperiali e grande innamorato dell'epoca di Caterina II e del Grand Opera francese; il quale, prima di pensare a Cajkovskij, si era rivolto a Klenovskij e poi ad altri librettisti e compositori oggi dimenticati; ma la cosa non ebbe seguito, un po' per l'inerzia degli interessati, un po' per la caduta d'interesse nello stesso Vsevolozskij.
È vero invece che Modest già nel 1888 aveva cercato di interessare il fratello alla Dama; ma senza successo. Si ripete in qualche modo la storia dell'Onegin: dapprima rifiuto, poca inclinazione per la proposta venuta da altri; poi l'improvvisa combustione, l'identificazione e la veloce stesura in uno stato d'animo vicino al rapimento. A Firenze, dopo sei settimane, l'opera aveva già preso forma; quindi, Cajkovskij parte per Roma, ma ai primi di maggio è di nuovo in patria e dopo altre sei settimane di lavoro a Prolovskoe nel mese di giugno l'opera è finita. La prima rappresentazione avviene al Teatro Mariinskij di Pietroburgo (città cui l'opera è consacrata) il 19 dicembre 1890, direttore l'eccellente e fidato Eduard Napravnik, protagonisti i coniugi Figner, Nikolaj e Medea; l'accoglienza fu calorosissima e l'opera entrava per sempre nel repertorio russo, oggetto di ammirazione di ogni generazione d'interpreti (si ricorda fra tante la regia di Mejerchol'd nel 1935 al Teatro Malyj di Leningrado, con trapianto della vicenda al tempo moderno); fuori dalla Russia l'opera esordì al teatro di Darmstadt nel 1900 e due anni dopo a Vienna diretta da Gustav Mahler; alla fine del primo decennio del 1900 la Dama aveva già fatto il giro del mondo.
Sempre stupisce in questo lavoro, in cui culmina l'esperienza teatrale di Cajkovskij, il sostanziale adeguamento al supremo testo puskiniano ottenuto per una via tanto lontana dalla fedeltà letterale, circonvoluta e stipata di elementi estranei; a parte la differenza fra Cajkovskij, maestro dell'effusione elegiaca, e Puskin maestro della stringatezza e dell'ironia; ma già l'Onegin aveva fatto giustizia dell'opposizione. Il racconto di Puskin procede essenziale sulla linea di sei brevi paragrafi; l'opera musicale si distribuisce in sette quadri e si allarga in alcuni episodi che sono del tutto nuovi rispetto all'originale o rappresentano sviluppi autonomi di particolari colà appena accennati: così il primo quadro di natura nei giardini d'estate a Pietroburgo, dove Cajkovskij riversa il suo amore per la Carmen di Bizet (alla quale guarda anche il preludio sinfonico, con l'accostamento a pannelli, senza mediazioni, dei temi dell'opera); così l'apertura del secondo quadro, dove l'ambiente di Liza, appena adombrato da Puskin nel suo agucchiare guardando dalla finestra, si sviluppa in un ampio interno borghese, con duetti, romanze, ballo alla russa che suscita lo scandalo della governante (quadro di cui Mario Bortolotto, in un avvincente saggio sull'opera, indica le radici in Guerra e Pace, libro II, con Natasa nella tenuta dello zio dopo la caccia). Enorme diventa poi lo sviluppo della serata in cui Liza invita con un biglietto segreto Hermann in camera sua, con ballo in maschera e spettacolo nello spettacolo per l'allestimento di un intermezzo pastorale; del tutto nuovo, e fortemente difeso dal musicista contro il fratello che lo considerava indebito, il sesto quadro dell'opera sulla riva della Neva nelle cui gelide acque si precipita Liza (tutt'altra la conclusione in Puskin: la ragazza sposerà "un molto amabile giovanotto"); e infine diversa la fine di Hermann, con un melodrammatico suicidio e una ideale apparizione di Liza a mo' di Margherita nel Faust, al posto della pazzia indicata da Puskin in spoglio stile di referto medico.
Eppure tante componenti diverse, alla fine si ritrovano e si saldano nella coscienza artistica di Cajkovskij: alla fastosa ricostruzione di quell'età di Caterina cui tanto teneva Vsevolozskij, Modest attese con scrupolo storicistico impiegando testi di poeti contemporanei di Puskin, come Zukovskij, Batjuskov, Derzavin; ma questo sfoggio culturale (tipico in verità di tutta l'opera europea di fine secolo) viene superato dal settecentismo da sempre presente nell'animo di Cajkovskij, che qui può sacrificare liberamente al suo dio, Mozart; allo stesso modo, nell'interno in camera di Liza può ricreare, per l'ultima volta e con le lacrime agli occhi, quel folclore urbano che aveva radici dirette nella sua adolescenza, guardandolo come un mondo dorato destinato a scomparire; inoltre, la romanza di Pauline, nella sua incommensurabile tristezza, assomiglia terribilmente al brano ("Perdona, creatura celeste, se ho turbato il tuo riposo") che poco dopo canterà Hermann nel suo assalto a Liza. La scena sul canale della Neva completa Liza nella sua squisita capacità di soffrire; la natura notturna, il senso ineluttabile delle acque che scorrono, aprono uno spazio nel quale il musicista si avventura intrepido; il duetto d'amore finto (Hermann pensa solo al segreto delle carte) perfeziona tutta una serie di fraintendimenti amorosi allineati dal teatro musicale di Cajkovsicij; infine, la morte della ragazza sembra emanare in qualche modo dalla Contessa e sottostare senza scampo alla cupidigia di distruzione di Hermann, come benissimo ha visto Bortolotto.
Hermann è il personaggio che muta di più nel trasferimento all'opera. Nel racconto è figlio di un tedesco russificato, ingegnere militare, economo, calcolatore, amante della preci-sione (è preciso anche quando ammattisce, borbottando perennemente: "tre, sette, asso... tre, sette, asso"); ma è pure cinico (le lettere d'amore copiate da un romanzo), ambizioso, violento di chiuse passioni e ardente d'immaginazioni. L'opera invece ce lo presenta semplificato nel ruolo tradizionale del tenore amoroso; ma l'invenzione musicale lo modella e lo arricchisce e Cajkovsicij lo consegna subito al profilo musicale di Onegin, negato all'azione e deluso, già sconfitto in partenza; quindi nel duetto con Liza del secondo quadro, dove si presenta in perfetto assetto di amante wertheriano, con pistola per togliersi la vita, Hermann è già fissato in uno stato esaltato che lo predestina alla disperazione: e a quel punto la Contessa e il segreto delle tre carte avranno del tutto estromesso Liza dalla sua anima.
Ma soprattutto quella strana e innegabile convergenza di Puslcin e Cajkovskij si convalida nella scena capitale dell'opera musicale, in quel quarto quadro (stanza da letto della Contessa) che con geniale intuito Cajlcovskij colloca al cuore del lavoro, come suo baricentro morale. Per una volta, la prediletta forma discontinua, a numeri o pezzi chiusi, qui è messa da parte dal tempo che incalza in una sola gittata. Già l'introduzione strumentale ci dice che Hermann, credendo di toccare una meta col penetrare nella stanza della Contessa, in realtà è finito in trappola: un ostinato ronzio ritmico, un sordo pulsare dei bassi, un interrogare via via più ansioso degli archi (tema in si minore, come nella Sinfonia "Patetica"), danno il senso di un ambiente chiuso, imporrato, con motivi che si aggirano su se stessi, come incubi o animali in gabbia. L'incontro fatale, diretto, fra Hermann e la Contessa, già preparato nel quintetto del primo quadro, poi alla fine del secondo atto nella stanza di Liza, è ancora dilazionato con sottilissime graduazioni: dapprima con l'intermediaria presenza del grande ritratto che campeggia magnetico nella stanza: "viso terribile e magnifico", secondo la leggiadria del terrore di marca romantica; quindi con il coro delle cameriere, luogo tìpico di tutto il teatro di Cajkovskij, ma qui trasfigurato in una canzone di subdola pervasività, che pare un balletto dannato e un poco pazzo; infine con il grande monologo della Contessa, con lo sprofondare nel passato, l'elencazione dei nomi d'un tempo, fino all'affiorare, sulle labbra della moritura, della melodia di Gretry, "Je crains de lui parler la nuit", lugubre di tanti anni accumulati: il vecchio trucco operistico dell'"aria del sonno" non poteva trovare applicazione più palpitante di questa, più cucita a doppio filo sulla situazione e sulla sorte dei personaggi: in realtà la Contessa si canta la sua "ninna nanna di morte", non lasciando a Hermann folle di rabbia altro che due occhi terrorizzati, subito vitrei nella morte per sincope. Come nelle creazioni più alte di Cajkovsicij la verità drammatica è ottenuta qui con la massima leggerezza di tocco, per sottrazione di suoni, a fissare nel modo più netto i movimenti più labili della coscienza.
Giorgio Pestelli
L'Introduzione (Andante mosso in 12/8) si basa sull'intarsio di elementi melodici che saranno presenti in diverse forme in tutta l'opera. Tra essi si evidenziano con sbalzo più netto l'ossessivo tema delle carte e la frase dell'amore di Hermann e Liza nel suo anelito tristaneggiante che, in modo estenuato, tornerà nelle ultime battute della Dama di picche. Al culmine del crescendo tale frase d'amore si unisce al motivo che sorregge l'aria di Hermann nella seconda scena del primo atto, creando una contrapposizione in modo contrario tra l'inciso più stretto in moto ascendente e quello più largo in moto discendente. Verso la fine i valori si allargano e il rapido preludio si allontana in dissolvenza.
L'opera si apre (Allegro
comodo) su una vasta scena d'insieme (n. 1) con
l'intervento del coro articolato in varie sezioni ove primeggia il coro
dei ragazzi che giocano ai soldati sulla falsariga dell'avvio della Carmen. Si entra
subito nel tema del dramma con Cekalinskij e Surin (n. 2) che
s'informano (Moderato)
sullo stato anormale del protagonista, Hermann. Quest'ultimo presto
compare con l'amico Tomskij e la sua apparizione è
anticipata dall'assolo del violoncello: il medesimo assolo strumentale
ritorna quando Hermann racconta in tono esaltato il suo amore
ossessivo. Nulla di più congeniale agli accenti
cajkovskijani di questo senso wertheriano dell'amore impossibile e
della follia latente. La musica ritrova un incedere realistico quando
spetta agli altri personaggi di intervenire, e qui il senso
melodrammatico dell'autore, come abbiamo sempre notato, è
straordinario nell'aderire al carattere delle varie figure, passando
dall'esaltazione romantica alla chiarezza di chi, invece, non
è emotivamente coinvolto nella vicenda. Ricompare la scena
d'insieme (n. 3) sul totale del coro nel clima tipico di un giorno di
festa, nel felice contrasto tra la generale gioia della primavera e il
clima psicologico del protagonista che da essa si sente escluso. Dopo
l'arrivo del Principe Eletskij, neìl'Andante non tanto i
due personaggi rivali cantano a parte il diverso loro stato d'animo.
Dopo l'entrata in scena delle due donne, la Contessa e Liza, sul ritmo
scandito e drammatico dei corni, si giunge al Quintetto (n. 4) ove
tutti sembrano consapevoli del fatto che sta per incombere un dramma
con l'incontro fatale tra Hermann e Liza. L'episodio successivo (n. 5)
è dominato dal racconto di Tomskij (Quasi
andante)
sulla vicenda magica delle tre carte: in questo brano dall'andamento di
ballata, efficace ma piuttosto convenzionale, in corrispondenza delle
parole "tre carte" c'è una cadenza su un motivo discendente
che è molto simile a quella che accompagna l'aria di Lenskij
nel secondo atto dell'Onegin,
ed assai prossima ad una frase che caratterizzerà l'avvio
dell'ultimo movimento della Patetica.
Un motivo che Cajkovskij sembra associare all'idea della morte. Nello
stesso modo è presente in questo brano un preciso disegno,
su un ritmo ripetuto tra una semiminima e due crome, che era stato
già ascoltato nell'Introduzione: esso pure associato
all'idea ossessiva della morte. La presenza del Maligno e la sfida di
Hermann alle forze che si oppongono al suo amore dominano il finale del
primo quadro e dipingono a forti tinte (Allegro moderato)
l'erompere (n. 6) del temporale, a cui si contrappone soltanto la
tempesta del cuore di Hermann: una situazione teatralmente pericolosa
che Cajkovskij controlla da par suo, con stringatezza.
All'avvio della scena il duetto di Liza e Pauline (n. 7)
è un delizioso brano di raffinata poesia (Andantino mosso).
La semplicità della melodia, unita alla
preziosità armonica, fa di questa pagina un momento colmo di
magia. Il suono del pianoforte poco più avanti (n. S)
accompagna la canzone, di intonazione popolare russa, di Pauline "A me
nemico è il ciel" che entra nell'atmosfera disperata di una
storia di amore e di morte. Ad essa si contrappone una canzone-danza,
allegra e vivace, intonata dalla stessa Pauline e dalle amiche, "Vien
lo sposo e batte all'uscio". Segue un brioso movimento orchestrale sul
recitativo della Governante (n. 9) che trascorre a scena ed arioso sino
a giungere alla confessione di Liza a se stessa (n. 10), quando si
troverà sola, di esser perdutamente innamorata. In questo
alternarsi di sentimenti, tra la malinconia e la passione, tra la gioia
dell'amore e il senso di sgomento di un'anima in preda a sensazioni
misteriose, la musica di Cajkovskij si insinua tra le pieghe del testo
con grande elasticità, modernità e
libertà di atteggiamenti. Alla fine della straordinaria
confessione di Liza, con l'apparizione di Hermann, dopo una breve
parentesi, ritorna il fuoco dei sentimenti estroversi nel lungo assolo
del tenore sull'ostinato dei pizzicati dei violoncelli e contrabbassi.
Questo brano, se all'inizio risulta un po' volgare, nel successivo suo
procedere sul medesimo tema, attinge nell'Andante, in tempo
di "valse triste", una sublimazione di straordinaria efficacia. In un
rapido improvviso intervento, la Contessa, che batte all'uscio,
interrompe sinistramente il clima di una quasi raggiunta
felicità. Sulle strappate del ritmo ostinato della Contessa,
Hermann ricorda la predizione delle tre carte, mentre l'orchestra
anticipa il senso dell'abisso mortale del Finale della Sesta Sinfonia. E
alla conclusione, nel momento in cui la passione vince e diviene
completa realtà, si pongono le premesse della equazione
simbolica "amore-morte".
Il secondo atto, prima scena, inizia con un Interludio e con un coro (n. 11) di impostazione accademica e volutamente classicheggiante: una forma chiusa che evita all'autore il rischio di compromettersi in una scena di massa. L'episodio successivo (n. 12) è imperniato sulla bella aria del Principe Eletskij (Andantino mosso) ove la musica ben interpreta la nobiltà degli accenti di questo personaggio, ispirato da un amore devoto e rispettoso, in netta antitesi al demone che attanaglia l'altro amante. La scena seguente (n. 13), per contro, cambia subito registro nella sottolineatura della fosca e contorta personalità di Hermann che, nell'accostarsi di Surin e Cekalinskij in maschera, crede di avvertire, nella ossessiva sua psicologia, una misteriosa presenza spettrale che si fa beffa di lui.
Ritorna il clima aristocratico nell'Intermezzo (n. 14) che si
articola in una pagina corale, seguita dalla danza dei pastori e delle
pastorelle, dal duetto tra Prilepa' e Milovzor e dalla conclusione con
Zlatogor, sullo stile mozartiano. Una zona classicheggiante come
questa, fa l'effetto di un mondo alienato, quale potrebbe esser visto
dagli occhi di Hermann, con estremo distacco. È
un'intuizione psicologica di spiccata modernità: un
procedimento che si ritroverà nel teatro verista. La
medesima atmosfera caratterizza, in particolare, il tempo di minuetto
che corona l'Intermezzo. È chiaro che Cajkovskij aderisce al
testo con la sua musica più originale solamente quando i
personaggi hanno un senso, una pregnanza sintomatica nel divenire del
dramma. Per le altre figure o situazioni, l'autore impiega una delle
tante sue "carte" attinenti a quella musica del passato che sa di
padroneggiare perfettamente. Tutto l'Intermezzo inserito in tale clima
espressivo è, in verità, un po' lungo ed anche un
po' prolisso, seppur giustificato dalla forma chiusa. Si ritorna poi
nel dramma: la musica (n. 15) parte dallo stile settecentesco e
gradatamente arriva al magma incandescente dello stile più
cajkovskijano sul rapido scambio di battuta degli amici in maschera,
che una volta ancora Hermann crede spettri, e nel breve
incontrò con Liza. Riemerge di nuovo in primo piano la
musica della festa per l'arrivo della Zarina che, nella sua
pomposità, non fa altro che accentuare la vacuità
della società ufficiale di fronte alle passioni e ai drammi
dei singoli, che pure sono gli eroi, anche se sfortunati e perdenti,
della storia e della vita.
Con l'inizio della seconda scena le tinte si fanno livide.
Nell'entrata di Hermann (n. 16) le viole, nell'incalzante loro
iterazione di una sestina di semicrome, danno, anch'esse, il senso
dell'ossessione. L'orchestra, che commenta da protagonista questo
periodo, si fonda sulle sonorità degli archi: è
un'intuizione precisa per dare il senso espressivo dell'angoscia ma
anche dell'ambiguità. Il suono strumentale degli archi
avviluppa il personaggio, ma, quando questi manifesta il dubbio con
parole enigmatiche, entrano brevemente i soli fiati. All'arrivo in
scena della servitù che prepara la stanza per l'ingresso
della Contessa, si ascolta un singolare connubio tra un certo
classicismo e un andamento popolaresco e su questo medesimo ritmo si
colloca il breve colloquio tra la cameriera Masa e Liza: quando la
giovane dichiara di abbandonarsi al suo destino, qualunque esso sia,
riecheggia in orchestra il famoso tema basato sulla cadenza su un
motivo discendente che, sin dall'Introduzione, come è noto,
si lega all'idea della morte. Dopo il ritorno del coro della
servitù, entra in scena il personaggio enigmatico della
Contessa che attacca il suo monologo, sostanziato nel disprezzo per
l'età moderna e nel rifugiarsi in un sogno dei fasti del
passato, che l'orchestra sottolinea con gli accenti alienati del
clarinetto. Qui Cajkovskij, nell'intento di accentuare il significato
di un personaggio che è già fuori dalla vita, ed
irraggiungibile, inserisce una canzone di Grétry, "Je crains
de lui parler la nuit", dall'opera Richard
Coeur de Lion, che allontana sempre più, in una
dimensione onirica, il personaggio della Contessa. E così,
con lo stesso procedimento usato nella scena della festa, viene ad
assumere una maggior evidenza il ritorno alla musica originaria del
dramma, e alla sua modernità, nell'intervento di Hermann (n.
17). Si ascoltano in orchestra impressionanti cromatismi, comuni a
tutta la produzione di Cajkovskij ma che nelle ultime sue composizioni,
sia per le alterazioni armoniche sia per il timbro usato, acquistano
atteggiamenti e colori sempre più foschi. Il lungo monologo
di Hermann rivolto alla Contessa è percorso da una
concitazione febbrile: partendo sommessamente, si agita sempre di
più per sfociare nella follia omicida. Dopo lo sgomento e la
staticità del Moderato
assai allorché, rimasta senza risposta l'ultima
sua richiesta del segreto delle tre carte, Hermann si accorge che la
Contessa è morta, l'entrata di Liza, con la sua disperazione
nel rendersi conto della situazione viene scandita da un impressionante
Molto vivace
sincopato che chiude il secondo atto sul tema degli ottoni.
L'inizio del terzo atto, scena prima (n. 18) si basa sul salmodiare affidato agli archi, dei modi liturgici che anticipano il ricordo ossessivo del funerale della Contessa e l'emozione del coro degli spettri. A un primo squillo di tromba e rullo di tamburo in lontananza, si sovrappone lo stesso procedimento liturgico, enunciato ora dagli ottoni. Le ultime terzine della tromba fuori scena (Largo) sono continuate dai violini e dalle viole che accompagnano in modo agitato il tema appassionato che sarà alla base della seconda scena, sulle rive della Neva. Ancora, dopo un breve ma molto espressivo periodare fino al fortissimo per poi diminuire nel pianissimo, ritorna il salmodiare degli archi con la interruzione della tromba e del rullo del tamburo, questa volta più vicini, per terminare nell'assolo cupo del clarinetto basso su cui Hermann legge la lettera pervenutagli da Liza.
Comincia così la parte più originale di
quest'opera ove, con intuizione da manuale psicoanalitico, viene
descritto il complesso di colpa che sconvolge la mente del
protagonista. Lo stile tardo-romantico, e non verista come alcuni in
modo erroneo sostengono, attinge una icasticità
pre-espressionista in questa terrificante scena. Dopo la lettera, il
recitativo di Hermann sui colori e i ritmi singolari dell'orchestra, il
coro degli spettri fuori scena, la contrapposizione tra il salmodiare
allucinato e l'angoscia sempre crescente del protagonista, piombano
come un vuoto psichico nel pianissimo, ai limiti
dell'udibilità, dell'inizio del Moderato
con moto
(n. 19). L'orchestra interpreta, sul tema delle tre carte, la
sconfìtta di Hermann ormai in preda alla follia. Questo
clima senza più speranza viene impietosamente ribadito
dall'orchestra che, sempre sulla ripetizione del tema fatale, attinge
l'estremo forte dell'Andante
non tanto sui cromatismi discendenti degli ottoni. La
continuità del discorso musicale, stringato ed essenziale,
conduce, pur nelle rapidissime accensioni sonore, all'agghiacciante
effetto magico del declamato dello spettro su una nota sola che si
conclude con la rivelazione delle tre carte, "tre-sette-asso".
Il presagio del fiume, con la sua carica simbolica,
è subito tratteggiato dall'orchestra all'inizio della
seconda scena (n. 20), su un andamento a onde degli archi di grande
potenza (Moderato assai)
che ribadisce il tema drammatico dei fiati. Su questo tessuto
strumentale, denso e nervoso, Liza inizia il suo recitativo che sfocia,
all'Andante molto
cantabile, nella celebre sua aria. L'aver saputo
condensare tutta una situazione teatrale in una forma chiusa di
romanza, quasi in una canzone, avvicina sempre di più lo
stile dell'ultimo Cajkovskij alle soluzioni dell'opera anti-wagneriana,
italiana e francese, dell'epoca. Al massimo della disperazione
di Liza (Moderato mosso),
nella sezione che è praticamente la seconda parte
dell'assolo del soprano (n. 21), compare Hermann. In particolare, nell'Andante con moto in
9/8, c'è una breve parentesi di felicità, che
tutti sanno illusoria e che la musica commenta in modo struggente. Poi
subentra il ritorno all'ossessione (Moderato
assai, quasi andantino) ove, fra i due protagonisti, non
c'è più possibilità di comprensione:
Liza disperatamente contrappone la sua passione al delirio lucido di
Hermann, con l'orchestra che prende il sopravvento, come sempre nei
momenti di crisi drammaturgica, per chiudere in un terrificante,
apocalittico "forte" il quadro con il suicidio della giovane che si
getta nel fiume.
Tutta la prima parte in tempo di mazurca della terza scena (n. 22) sino all'entrata di Hermann è improntata ad un clima salottiero, un po' convenzionale, voluto deliberatamente dall'autore, che concede uno spazio particolare agli amici del Principe Eletskij. L'Allegro moderato con fuoco cede il campo all'Andante in 2/4 del canto di Tomskij (n. 23), di stampo liederistico. Ma alla fine il ritmo serrato (Allegro molto vivo) diventa quello tipico di una danza popolare russa. La scena conclusiva (n. 24) si anima con l'arrivo di Hermann e il dramma raggiunge l'apice (Andante moderato). L'alienazione del protagonista sul tema delle tre carte affidato al trombone, gli interventi serrati del dialogo dei vari personaggi, i rapidi commenti del coro, condensano magistralmente la teatrale scena del gioco vincente di Hermann. Il ritmo si fa sempre più incalzante ma, ad un tratto, l'incedere dell'azione si arresta sul brindisi amaro e masochista di Hermann. Poi inizia il gioco mortale e sul Moderato assai, che precede il conclusivo Andante sostenuto, al momento della morte, Hermann ritorna in sé e il suo canto diventa consapevole ed umano. Egualmente nell'Andante sostenuto il coro commenta la tragica vicenda con accenti di pietà, continuati in modo dolcissimo e affascinante dall'orchestra che stempera le sue sonorità in pianissimo, mentre cala il sipario.
Luigi Bellingardi
Nonostante la ricchezza di riferimenti (tra l'altro:
la tradizione gotica inglese, Byron, il racconto fantastico alla
Hoffmann, Le rouge et
le noir di Stendhal per il carattere di Julien Sorel
simile a quello di Hermann e per il richiamo al gioco delle carte
contenuto nel titolo), La
dama di picche di Puskin è un racconto
elegantemente conciso, un capolavoro di perfezione formale e di
sobrietà. Non stupisce che sia stato tradotto in francese da
un maestro della concinnitas
come Mérimée. Ogni melodrammatizzazione di un
soggetto letterario implica una certa espansione lirica, ma
l'amplificazione operata nel nostro caso da Cajkovskij va ben
oltre il potenziamento dell'elemento patetico. Fin da subito,
il direttore del Teatro Mariinskij di Pietroburgo, Vsevolojskij, che
ebbe per primo l'idea di trasformare in opera il racconto di
Puskin, pensò a una sorta di grand
opéra
russo, pieno di scene a effetto e di spettacolarità. La
componente fantastica si sarebbe così inserita nel fortunato
filone alla Robert-le-Diable.
Ma se nell'opera di Meyerbeer - così
come nel Freischütz
di Weber o nel Macbeth di Verdi - domina un
"fantastico-meraviglioso" (per riprendere le note
categorie di Todorov), in cui il soprannaturale si manifesta
platealmente, nella Dama
di picche di Cajkovskij tutto resta inquietantemente
sospeso a mo' di "fantastico-strano": lo
spettro della Contessa è un delirio di Hermann ormai in
preda alla follia oppure si tratta di una presenza soprannaturale vera
e propria? È ovvio che la musica è in grado di
restituirci la psicologia di Hermann in modo straordinariamente
approfondito e sfaccettato. Un clima emotivamente tormentato pervade
tutta l'opera e il fantastico sembra molto più
legato agli abissi della psiche umana che non ai misteri
dell'aldilà. Dunque, a differenza che in Puskin,
Hermann è innamorato follemente di Liza. In lui convivono
disordinatamente una serie di pulsioni estremizzate e contraddittorie:
l'amore, l'ossessione per il gioco,
l'ambizione. Ufficialetto squattrinato e privo di nobile
nascita, Hermann è un personaggio escluso: passa tutte le
notti a guardare i
suoi colleghi giocare a carte senza potersi sedere al tavolo da gioco,
talmente è povero. Quando confida al conte Tomskij il suo
amore per una giovane sconosciuta, egli sottolinea trattarsi di una
fanciulla aristocratica e dunque di una passione senza speranza.
Significativo il fatto che nel libretto redatto dal fratello di
Cajkovskij, Modest, Liza passi da pupilla a nipote della vecchia
Contessa: una giovane ereditiera promessa sposa al generoso principe
Eleckij - un personaggio, quest'ultimo, che
è assente nel racconto e la cui nobiltà
d'animo è direttamente proporzionale
all'alto lignaggio (così come il carattere
tormentato di Hermann sembra legato al suo status di escluso). Orbene:
la trappola in cui cade l'ambizioso giocatore innamorato
è forse quella di ritenere conciliabili passioni
profondamente contraddittorie. Infatti, perché non riuscire
a strappare il segreto delle tre carte alla Contessa e sposarne la
nipote dopo essersi enormemente arricchito al gioco? L' esito
di questa intenzione, realizzata musicalmente attraverso una fitta rete
di richiami motivici, sarà la morte della vecchia e il
suicidio dei due giovani amanti (anch'esso assente in
Puskin): come dice La Rochefoucault, si può passare
dall'amore all'ambizione, ma non è
possibile il cammino inverso.
Un altro aspetto fondamentale dell'opera è l'ampio ricorso a materiali musicali settecenteschi - e non solo a mo' di scenografia sonora o di couleur locale. Sappiamo del culto di Cajkovskij per Mozart (il cui nome è anche citato nella Ballata di Tomskij). «Di tanto in tanto mi pare di vivere nel XVIII secolo e che dopo Mozart non ci sia stato niente», così il compositore in un appunto del suo diario datato febbraio 1890. Certo, nell'intermezzo-divertissement del secondo atto gli imprestiti mozartiani (tra gli altri) hanno una funzione soprattutto decorativa, volti come sono ad ambientare musicalmente una vicenda che si svolge al tempo di Caterina II (la quale entra inopinatamente in scena alla fine del quadro); ma il riferimento al Settecento è anche il segno di un disagio profondo nei confronti del presente, il vagheggiamento di un mondo irrimediabilmente perduto. Un punto di incontro tra l'elemento fantastico e questo ricorso a musiche del passato, che sta al centro dell'opera sia architettonicamente che drammaturgicamente, è la scena dell'arrivo di Hermann dalla vecchia (II atto, IV quadro). Rimasta sola, la Contessa ricorda della sua vita alla corte francese e pian piano si addormenta cantando un'aria tratta dal Richard Coeur-de-Lion di Grétry. L'effetto di questa citazione straniante e vagamente deformata (la melodia è trasportata una quarta aumentata sotto e amputata del refrain in maggiore) ha qualcosa di sinistro, di perturbante. È come se la vecchia cantasse a se stessa una strana ninnananna sulle soglie del sonno o della morte. Come se quella melodia apparisse da un altro mondo: davvero non si potrebbe dare un esempio più perfetto di "ritorno del superato" in musica. Le parole che letteralmente muoiono in bocca alla Contessa anticipano l'entrata di Hermann e ciò che segue: Je sens mon coeur qui bat, qui bat... Je ne sais pas pourquoi...
Emilio Sala
Nel panorama della musica russa dell'Ottocento, soltanto un nome — forse — appare assolutamente ineliminabile, ed è quello di un poeta: Alexsandr Puskin. La sua opera costituisce la sintesi paradigmatica di una cultura profondamente radicata nelle tradizioni storiche e nei miti della terra russa e delle molteplici influenze di letterature occidentali (da Shakespeare a Goethe, a Byron). Accanto alla figura del «giovane Werter» di Pietroburgo, quale è Eugenio Onieghin, vive la mitica Russalka (l'ondina della mitologia slava); il tragico isolamento di Boris Godunov si concilia con la favola del Gallo d'oro; la storia dell'eroe Mazeppa s'intreccia con le rivalità fra Mozart e Salieri; «Il convitato di pietra», «Il cavaliere avaro» allineano le loro «imprese» a quelle dello Zar Saltan. Abbiamo elencato alcuni titoli puskiniani che hanno avuto trasposizioni musicali; i nomi dei compositori, da Dargomisky a Rachmaninov, da Mussorgskij a Rimsky Korsakov, da Cui a Ciaikovsky a Prokofiev appartengono sia al celebre «Gruppo dei Cinque» che ad altre correnti più o meno occidentalizzanti: ulteriore conferma delle diverse angolature da cui può essere interpretata e rivissuta l'opera letteraria di Puskin.
«Hermann è impazzito. È rinchiuso nell'ospedale di Obuchov, nella cella n. 17. Non risponde a nessuna domanda e borbotta con una rapidità vertiginosa: «Tre, sette, asso! Tre, sette, donna! Lisa ha sposato un giovanotto assai simpatico».
Con queste laconiche espressioni si chiude il racconto «La donna dì picche» di Puskin che narra la storia di un giovane posseduto dal demone del gioco. Esso, come è noto, servì a Ciaikovsky come soggetto della sua penultima opera che, rappresentata il 19 dicembre 1890 al teatro Mariinsky di Pietroburgo, ottenne un successo trionfale. L'autore, scrivendo al fratello Modesto pochi giorni dopo averne terminata la composizione, era particolarmente soddisfatto del proprio lavoro. Ciaikovsky si trovava in Italia, a Firenze, e col favore del clima e dell'ambiente particolarmente sereni era riuscito a portare a termine «La dama di picche» in soli due mesi. Scriveva dunque: «Ieri mattina ho compiuto la scena finale dell'opera. Quando giunsi alla morte di-Ermanno e al coro finale, mi sentii preso da tale compassione che mi venne da piangere a calde lacrime. Questo pianto si trasformò in un piacevole isterismo: era così dolce piangere. Ermanno non mi ha offerto solo l'occasione di scrivere musica, ma egli mi pare un vero uomo vivo e perfino simpatico, perciò ho provato una partecipazione così piena al suo destino. E credo che la mia calda, viva simpatia per il protagonista sia rispecchiata anche dalla musica. Del resto, mi sembra che questa «Dama» sia un'opera fine e buona. Vedremo!».
Il libretto era stato approntato da Modesto Ciaikovsky, ma in più occasioni lo stesso Pietro era intervenuto nella stesura, operando tagli e suggerendo addirittura i versi di certe scene, fra cui l'aria di Lisa al III atto. Inoltre aveva attinto a Zukovsky per il duetto di Lisa e Paolina e a Batyskov per la canzone di Paolina (entrambe quadro I e II). La Ballata di Tomsky al III atto è invece su parole di Derzhavin. Questa composizione del libretto, abbastanza singolare, ci dice già molto della direzione verso cui si muoveva Ciaikovsky rispetto al racconto di Puskin, alla sua prosa asciutta, al suo procedere per episodi essenziali. Infatti l'impresario del Teatro Mariinsky aveva chiesto a Ciaikovsky un'opera che fosse una sorta di «Carmen» russa, ma, in più, «festosa», e con tutti gli ingredienti del grand-opera (come curiosità, sì noti che era stato lo stesso Mérimée, autore di «Carmen» a tradurre in francese «La donna di picche» di Puskin). E il libretto corrispose esattamente agli intendimenti dell'impresario.
Largo spazio vi è riservato ad episodi e quadri musicali, per così dire, decorativi, che pure contribuiscono felicemente a creare un certo clima ambientale. La scena di apertura, ad esempio, è in gran parte occupata dai cori dei bambini e dei passanti, che servono, con il loro carattere luminoso e brillante, come contrappeso al ritratto di Ermanno e all'esposizione della sua passione amorosa. Anche il quadro della stanza di Lisa è caratterizzato come un buon salotto borghese: dopo ùn preludio con flauto e pianoforte, Lisa si unisce all'amica Paolina in un duetto, e il loro canto è punteggiato dagli interventi delle amiche e dell'istitutrice, naturalmente francese. Il secondo atto è occupato nella prima metà da una Pastorale stile Caterina II: «La fedeltà della pastorella», nella quale il dramma di Lisa ed Ermanno vive nello sfondo, per certe analogie — contrastanti— che si possono intravedere tra la vicenda rappresentata (la pastorella preferisce l'amore all'oro) e la situazione dei due innamorati. Nella scena finale del secondo atto, che si svolge nella camera della Contessa, Ciaikovsky si attarda ad acclimatare )a vecchia dama nella Parigi dei suoi verdi anni, e le fa cantare in tono malinconico una vecchia aria di Grétry tolta dal «Riccardo Cuor di Leone». La descrizione d'ambiente occupa anche alcune pagine del terzo atto, in cui si matura il dramma di Ermanno; accanto alla brillante caratterizzazione (di gusto francese) della sala da gioco particolarmente interessante è l'utilizzazione, per il coro finale a cappella, di certi spunti di canto ecclesiastico.
Ciaikovsky, lo si voglia o no riconoscere, era un eccellente professionista e se ha scritto un'opera con tutti i crismi del grand-opera: arie, scene d'insieme, balli, cori, divisi in «numeri», raramente, però, le pagine impiegate a definire il clima ambientale e psicologico di una scena risultano pura decorazione. La notevole riserva di candore che egli possedeva gli consentiva di appassionarsi, e vivere con ingenua intensità con i più diversi soggetti e figure: quelli favolosi dello «Schiaccianoci», le ridenti fanciulle che circondano Lisa, i bambini che giocano nel Giardino d'Estate, gli accesi giocatori di carte.
Ma è certo che, a un primo ascolto, le pagine della «Dama di picche» che più affascinano per la loro potenza emotiva e per lo slancio appassionato della melodia sono le scene d'amore fra Ermanno e Lisa (al secondo e terzo atto) e la presenza della Contessa, che diviene di scena in scena un incubo sempre più agghiacciante.
La lettera che abbiamo più su riportata indica chiaramente (si noti l'espressione «piacevole isterismo») che in quest'opera, come d'altronde in quasi tutte le composizioni della maturità, Ciaikovsky inclina a un processo di identificazione di se stesso con i personaggi posti sulla scena o, quando manchino, a porsi quale protagonista esplicito delle sue composizioni orchestrali. Tale è il caso della Quarta, Quinta e Sesta Sinfonia, ove l'idea del fato ineluttabile (certamente mutuata dalla «Quinta» beethoveniana ma ridotta a una dimensione egoistica e nevrotica) si esplicita largamente; ma se nelle sinfonie lo scontro dialettico fra gli opposti poli del bene e del male poteva apparire programma velleitario di una natura sostanzialmente lirica e incapace ad uscire dalle sue contraddizioni, con «La dama di picche» ci troviamo di fronte a situazioni e tipi umani (Ermanno, Lisa, la Contessa) che Ciaikovsky sente in prima persona come proiezioni delle proprie tensioni spirituali ed emotive. Non occorrerà pensare al disastroso matrimonio tentato da Ciaikovsky per riconoscere in Lisa la trasfigurazione di un tipo di femminilità trepida e appassionata, portatrice di un vocabolo d'amore che Ermanno non sarà in condizioni di raccogliere, come, analogamente, avveniva fra Tatiana ed Eugenio Onieghin.
Dapprima Ermanno viene presentato come un giovane innamorato che si limita ad osservare il gioco; ma ben presto, il sapere che la Contessa possiede un segreto che fa vincere sempre, provoca in lui un interesse morboso che io porterà a un omicidio involontario: sarà lui, infatti, che minacciando la Contessa con la pistola ne causerà la morte. Così il motivo d'amore cede in lui all'ossessione del gioco (in Puskin, addirittura, l'innamoramento era solo un'espediente per arrivare alla Contessa: ed è pieno di significato che Ciaikovsky abbia tanto insistito nel sottolineare le forze opposte che si scontrano nel suo protagonista). La catastrofe sentimentale (con il suicidio di Lisa, che non c'è in Puskin) accelera l'allucinante corso verso il rischio, l'ignoto, che si conclude con un secondo suicidio, quello di Ermanno. Ci troviamo di fronte ad una figura dagli spiccati tratti nevrotici: in Ermanno si potranno riconoscere — se vogliamo ricercare progeniture culturali — Don Giovanni, il giocatore di Dostoevskij e, naturalmente, l'Eugenio di Puskin-Ciaikovsky; ma soprattutto egli è un autoritratto dell'autore. Il personaggio della Contessa costituisce invece la materializzazione umana di un incubo: non a caso essa compare a Ermanno come spettro durante il temporale nella caserma a suggerirgli le carte vincenti, e durante la partita, come è nel racconto, sembrerà che la donna di picche muova gli occhi in un ghigno sarcastico. L'originalità dell'opera sta proprio in questo clima delirante (Gavazzeni la giudica infatti «un esempio validissimo del demoniaco musicale e teatrale») associato ad una estenuata aspirazione al canto amoroso: questo, paradiso continuamente tentato e mai raggiunto; quello, sentimento di colpa ricorrente nella psiche tormentata dell'autore.
«La dama di picche» venne eseguita in Italia solo nel 1906 e poi ripresa nel 1952, a Firenze: da qui il rinnovato interesse di molti teatri per questa partitura. A più di venti anni dalla ripresa fiorentina, l'opera continua a inquietare l'ascoltatore e il critico, e non solo per il suo drammatico soggetto, ma per la difficoltà di definire esaurientemente i valori che essa contiene, e per le molteplici influenze di cui è contesto il suo linguaggio, peraltro originale ed inconfondibile. Guardando in superficie, si potrebbero relegare fra le pagine di contorno quelle che noi abbiamo elencato all'inizio; accusare, come ha fatto Massimo Mila, le dichiarazioni amorose di avere «un piglio musicale banaluccio da salotto fine Ottocento, che in qualche momento fa pensare a Tosti e a Gastaldon».
La «Pastorale» del secondo atto sarebbe poco più che un pastiche nel gusto di Mozart (è nota la predilezione di Ciaikovsky per questo musicista, come attesta la «Suite mozartiana»), anche se studi più accurati hanno catalogato i frammenti utilizzati che sono di Grétry, Piccinni, Monsigny, Astaritta, Martin y Soler. Quanto poi al carattere russo della musica di Ciaikovsky, si incontrerebbe la decisa repulsa degli studiosi «ufficiali» del Gruppo dei Cinque, che continuano a ritenere Mussorgskij l'unico e autentico interprete della voce del popolo russo, mentre Ciaikovsky non sarebbe niente più che un abile manipolatore di spunti popolareggianti. Orbene, qui è necessario sottolineare ancora una volta, che la questione è mal posta e che la contrapposizione tra Ciaikovsky e la «Kucka» è atteggiamento intellettualistico; tanto che anche la Russia sovietica accoglie Ciaikovsky e i «Cinque» alla pari, riconoscendo ad ognuno pieni diritti.
Difatti, Ciaikovsky è anch'egli, a suo modo, interprete della Russia del suo tempo: certamente, non sarà sua la voce terragna e vigorosa di Mussorgskij, ma il canto popolare è ugualmente presente in ogni sua frase. Egli attinge largamente al folklore contadino: nella «Dama», si consideri il coro delle fanciulle in casa di Luisa, che ricorda tanto un'analoga scena di «Kovanscina», l'aria di Paolina e il Coro dei giocatori dopo la ballata di Tomsky al III atto. Dell'influenza del canto ecclesiastico nel coro finale si è già detto; ma soprattutto, è da evidenziare l'apporto di quello che vorremmo chiamare folklore cittadino, cioè un modo di piegare il canto popolare entro schemi colti che costituisce la speciale sigla dello stile ciaikovskiano, quel suo essere affabile, melodioso, disposto entro organismi chiari e ordinati, ma insieme possedere una patina fra l'arcaico e l'esotico, almeno per le orecchie di noi «occidentali».
Se, come dicevamo prima, il fascino maggiore di quest'opera è nelle scene d'amore, nel sinistro ritratto della Contessa, sia da viva che da morta, nel quadro della caserma, attraversato da spaventevoli bagliori e dall'apparizione della Dama, anche tutto l'altro versante, quello cioè della «cultura» di Ciaikovsky, resta per l'ascoltatore di oggi, ugualmente vivo e ambiguamente stimolante.
Proviamo a tirare, per così dire, qualche somma. Nella «Dama» è presente l'esempio wagneriano, e non solo nell'aura tristaneggiante che spira nel duetto d'amore, ma anche nell'uso di leit-motive (quelli delle carte, di Ermanno, dell'amore e di Lisa); è avvertibile l'attenzione per Bizet (il coro dei bambini ricorda quello analogo in «Carmen» e una frase di Lisa — è stato notato — ne riprende una dall'aria delle carte). Il pastiche mozartiano prelude a più tardi e illustri esempi (basti, fra tutti, il «Cavaliere della rosa» di Strauss); si noti poi l'uso del «parlato», di fanfare militari, del suono delle ore battuto dal campanile (scena di Lisa al III atto) avvicinato a slanci melodici tanto appassionati da apparire impudichi, estenuanti. Infine, l'«espediente» classico (ma tanto spesso ripreso sulle scene moderne): il «teatro nel teatro» (Pastorale al II atto). E tutto questo cumulo musicale e sonoro eterogeneo appare disteso e incastonato entro strutture che mantengono intatti gli schemi melodrammatici più consueti.
C'è a sufficienza per parlare di arte decadente, di «straniamento», di impiego del suono come «oggetto», rumore inarticolato; e postulare, come altrove ci è occorso di fare, l'esistenza di un filo teso fra Ciaikovsky e Mahler: musicisti entrambi che, allo scadere del secolo, rappresentano la crisi spirituale di un'epoca incapace di solide convinzioni, incerta fra un passato dolorosamente e dolcemente ripercorso dalla memoria, ma «inattuale», e un futuro intuito come un abisso in cui tutto precipita. Non a caso Giorgio Vigolo, che è un grande poeta e fine letterato, oltre che un critico musicale di indiscutibile valore, ha potuto scrivere, fin dal 1953, a proposito della «Dama di picche»: «Nel sentimento disperato della vita singola e della sua tragedia, Ciaikovsky si spinge, col suo pathos di umanità pienissima, sui limiti più problematici dell'inconscio, in una regione metafisica di mistero e di terrore che Io fa molto vicino all'anima contemporanea».
Cesare Orselli