Romeo e Giulietta

Ouverture-fantasia in si minore (da Shakespeare) - Terza versione

Musica: Petr Ilic Cajkovskij (1840-1893)
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, grancassa, arpa, archi
Composizione: Mosca, 10 settembre 1880
Prima esecuzione: Tbilisi, Teatr Opery i Baljety, 1 maggio 1886
Edizione: Bote & Bock, Berlino, 1881
Dedica: Milii Alekseevich Balakirev

Cajkovskij ha scritto tre versioni di questa ouverture-fantasia: 1869 - 1870 - 1880
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

L'ouverture-fantasia Romeo e Giulietta, a ragione considerata come il primo capolavoro di Caikovskij, nacque dalla frequentazione dell'autore con Milij Balakirev, negli anni Sessanta dell'Ottocento figura carismatica della musica russa. In effetti a Balakirev sono dovute tanto l'idea di una composizione ispirata alla tragedia di Shakespeare quanto le direttive secondo le quali il progetto fu realizzato. E Balakirev fu la sola persona che con le sue critiche riuscì a persuadere Caikovskij a rielaborare più volte una composizione: dopo aver composto l'ouverture-fantasia nel 1869, l'autore vi rimise mano l'anno seguente modificandone l'introduzione, parte dello Sviluppo e la conclusione, e ancora nel 1880 riscrivendone l'epilogo. La terza e ultima versione è quella, oggi comunemente eseguita, di un pezzo che risente, sotto vari aspetti, di Liszt e di Glinka, oltreché dello stesso Balakirev, e nel quale Caikovskij concilia con efficacia le esigenze della forma sinfonica (lo schema di sonata) con i presupposti di caratterizzazione e rappresentazione dramammatica della musica, accentuando i contrasti tra i diversi soggetti tematici.

Louverture-fantasia si apre con un'introduzione, Andante non tanto quasi Moderato. Il gruppo tematico introduttivo, che da fa diesis minore scende cromaticamente a fa minore, è aperto da uno scuro corale, dalle inflessioni modali, di clarinetti e fagotti, prosegue anche con l'apporto degli archi e si conclude con l'ingresso dell'arpa sugli accordi tenuti di legni, corni e archi gravi. La tinta antica e per così dire gotica del tema ha la funzione d evocare l'atmosfera e l'ambientaziore del dramma. Nel corale dei fiati, che ricrea la sonorità dell'organo, si può cogliere secondo le indicazioni d Balakirev la raffigurazione di Frate Lorenzo. Ma poiché questi è il personaggio che unisce in matrimonio i due amanti, li aiuta ideando il piano della pozione che darà la morte apparente a Giulietta e infine rivelerà tutta la tragice vicenda al principe di Verona, il corale può essere considerato anche come tema del destino. Il gruppo tematico introduttivo viene ripetuto, in fa minore con una nuova strumentazione; il corale ora è suonato dai legni, fagotti esclusi, accompagnati dal pizzicato degli archi. La transizione modulante all'Esposizione (Poco a poco stringendo accelerando, Allegro, Molto meno mosso, poi ancora stringendo) è percorsa da tremoli ai timpani e poi anche agli archi, con un ritorno del corale ai legni e delle frasi degli archi.

L'Esposizione ha inizio con l'indicazione di Allegro giusto. Il primo gruppo tematico, in si minore e a piena orchestra, rappresenta l'odio tra Capuleti e Montecchi: ritmo pulsante, drammatica e brutale frammentazione del discorso, contrapposizioni imitative tra gruppi di strumenti. A una breve elaborazione contrappuntistica condotta sulla testa del primo tema segue un grande crescendo con veloci scale degli archi punteggiate dagli accordi dei fiati, nonché dai colpi di timpani e piatti. Ritorna quindi il primo gruppo tematico, in fortissimo e a pieno organico, e nella successiva transizione al secondo gruppo tematico la sonorità cala improvvisamente al piano e poi al pianissimo. Il secondo gruppo tematico, in re bemolle maggiore, rappresenta l'amore tragico e appassionato di Giulietta e Romeo. Il gruppo tematico è costituito da un'idea principale e da un'idea complementare. L'idea principale, di folgorante fascino melodico, è cantata dalle viole con sordina (dolce) all'unisono con il corno inglese; i corni suonano accordi sincopati, gli archi gravi un pizzicato d'accompagnamento e l'arpa ne conclude l'esposizione. L'idea complementare ha andamento vago e cullante; è condotta dagli archi e si contraddistingue per la scansione ritmica palpitante e per le armonie alterate. Nella susseguente amplificazione ed estensione i motivi delle due idee sono combinati insieme: flauti e oboi intonano (dolce ma sensibile) l'idea principale ampliandone il respiro per mezzo di progressioni ascendenti, mentre il motivo palpitante, caratteristico dell'idea complementare, risuona ai corni. Nell'epilogo dell'Esposizione l'arpa riprende il motivo dell'idea complementare sul dialogo di archi e legni.

La prima arcata dello Sviluppo, che muove da si minore e poi da fa diesis minore, ripresenta inizialmente la testa del primo tema per sovrapporre quindi, in elaborazione contrappuntistica, elementi del primo gruppo tematico (agli archi) e il tema del corale introduttivo (ai corni); inoltre gli ottoni si alternano ai legni nel proporre un inciso derivato dall'idea complementare del secondo gruppo. La seconda arcata, che muove da sol minore, riproduce inizialmente la combinazione contrappuntistica della prima, per poi proseguire in grande crescendo con l'iterazione di elementi del primo gruppo tematico. Terza arcata: il grande crescendo culmina in una sezione modulante a piena orchestra e in fortissimo con piatti e grancassa, in cui la violenta pulsazione ritmica del primo tema si combina con il tema introduttivo; la riconduzione alla Ripresa riutilizza la transizione.

La Ripresa si apre col primo gruppo tematico, in si minore, a pieno organico e in fortissimo; la transizione al secondo gruppo è ridotta al minimo e si risolve in un rapido diminuendo. L'idea complementare del secondo gruppo tematico, in re maggiore, ora è condotta dai legni su mormorio degli archi. Un grande crescendo reintroduce l'idea principale del secondo gruppo tematico, in re maggiore e in forte: gli archi cantano a piena voce, i legni accompagnano con terzine di accordi, i corni suonano il motivo caratterizzante dell'idea complementare. Con il passaggio della melodia ai violoncelli (amoroso) ha inizio una sezione elaborativa nella quale motivi del tema circolano tra le parti; alla fine, il ritorno del tema stesso viene brutalmente interrotto più volte dal ritmo pulsante del primo tema. Ed è appunto il primo tema che s'impone nuovamente sulla scena; odio e rivalità tra le rispettive famiglie spezzano l'amore di Giulietta e Romeo. Ai motivi del primo terna è contrapposto il tema introduttivo in una stretta accompagnata da un grande crescendo, che culmina in un'autentica esplosione data da un colpo in fortissimo, con conseguente rullo, del tmpani.

Moderato assai: la coda in si rnaggiore rappresenta la sublimazione dell'amore nella morte. Sul ritmo di marcia funebre scandito dai timpani, cui si associa il pedale della tuba e dei contrabbassi pizzicati, galleggiano espressive frasi cantabili che alludono al tema d'amore. Quindi risuona un corale di legni e corni, dal quale riaffiora il motivo palpitante dell'idea complementare del secondo tema. L'ingresso dell'arpa segna il trapasso all'ultima, struggente reminiscenza del tema d'amore cantata dagli archi nel registro acuto. L'ultima parole tocca tuttavia all'odio implacabile tra Capuleti e Montecchi, con il ritmo pulsante e le strappate, in fortissimo, a pieno organico.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Berlioz sosteneva di aver conquistato con la forza della sua musica una corsettaia di San Pietroburgo, nel 1847. Tenendo premuta al petto la manina (probabilmente gelida) della ragazza, l'armonioso seduttore le sussurrava all'orecchio la "bella frase dell'adagio di Roméo et Juliette". Vent'anni dopo, all'epoca del suo secondo viaggio in Russia, Berlioz era diventato ormai un uomo vecchio e malato, lontano dai trasporti pieni di sensibilità erotica della Scène d'amour. Un'eccezionale fotografia presa a San Pietroburgo in quei giorni ce lo mostra in posa da direttore d'orchestra, il bâton sollevato in aria e l'altra mano sul fianco, con il viso pallido e smunto, i capelli completamente bianchi come se fossero stati stinti in candeggina. A uno dei concerti tenuti da Berlioz in Russia, in quel rigido inverno del 1867-68, il giovane Cajkovskij ebbe modo di ascoltare qualche pagina del Roméo et Juliette. L'influenza di Shakespeare giungeva un po' smorzata alla giovane scuola dei musicisti russi, attraverso il filtro delle passioni teatrali romantiche di Hugo, Musset e Dumas. Le grandi Sinfonie a programma di Berlioz costituivano la prima spremitura di quelle forme d'espressione nuove e rivoluzionarie, che gli scrittori e gli artisti romantici avevano intravisto in Shakespeare, Goethe e Virgilio. Il primo musicista russo in grado di riconoscere e coltivare questa moderna sensibilità verso il mondo letterario fu Milij Alekseevic Balakirev, che animava a San Pietroburgo il circolo di musicisti passato alla storia come il Gruppo dei Cinque. Cajkovskij non ne faceva parte in senso proprio, ma manteneva rapporti di stima e di ammirazione sia con il leader, sia con altri compositori del gruppo, in particolare Nikolaj Rimskij-Korsakov. Nell'estate del 1869 Balakirev arrivò a Mosca ed ebbe occasione di frequentare il giovane e promettente compositore, uscito dal Conservatorio e perciò malvisto dagli altri membri del suo circolo. Durante il soggiorno, Balakirev persuase Cajkovskij a scrivere un lavoro prendendo spunto dalla tragedia di Shakespeare.

"La mia Ouverture - scrisse Cajkovskij all'amico, qualche mese dopo - procede abbastanza rapidamente, la maggior parte è già stata composta e una parte considerevole di ciò che Voi mi avete consigliato di fare è stata realizzata secondo le Vostre istruzioni. In primo luogo, l'impianto è Vostro: l'introduzione che descrive il frate, la rissa - Allegro, l'amore - il secondo tema - e, secondariamente, le modulazioni, sono Vostre: l'introduzione in mi maggiore, l'Allegro in si bemolle minore e il secondo soggetto in re maggiore. Certamente non sono nella posizione di dire cosa sia buono e che cosa no. Non posso essere oggettivo verso le mie creature; scrivo come sono capace; è sempre difficile per me soffermarmi su un'idea musicale tra quelle che mi vengono in mente, ma una volta sceltane una, mi abituo a essa, ai suoi lati positivi come a quelli negativi, così che mi risulta incredibilmente faticoso rielaborarla o riscriverla".

Romeo e Giulietta piacque all'esigentissimo Balakirev - sarebbe stato difficile il contrario, viste le premesse - e fu eseguita per la prima volta il 4 marzo 1870 a Mosca, in un concerto della Società Musicale Russa diretto da Nikolaj Rubinstein. Cajkovskij giudicava questa musica la migliore tra tutte quelle che aveva scritto fino a quel momento, tuttavia ciò non gli impedì di rivedere varie volte la partitura nel corso del tempo, fino all'edizione definitiva del 1880.

La tragedia di Shakespeare, nella versione di Cajkovskij, assume un carattere molto diverso, rispetto al lavoro di Berlioz. Nella vicenda dei due adolescenti veronesi Berlioz aveva trasfigurato la propria visione dell'arte come luogo privilegiato della vita. La musica e il teatro costituivano per i romantici della Jeune France una sorta di sistema per produrre illusioni, in cui il corpo dell'attore e il personaggio che rappresenta si confondono in definitiva in un unico simulacro dell'esistenza. La drammaturgia "barbara" di Shakespeare lasciava intravedere ai romantici come Berlioz uria strada nuova e diversa dal classicismo, più consona alle tensioni artistiche e sociali del loro tempo. Per Cajkovskij invece il teatro di Shakespeare non costituiva la sconvolgente scoperta di un mondo espressivo radicalmente in contrasto con il passato, bensì una potente illustrazione delle fondamentali passioni del cuore umano. Il suo linguaggio musicale tendeva a riempire gli spazi ereditati dalla tradizione, senza aspirare ad allargare i confini delle forme stabilite. Il programma letterario dell'Ouverture forniva a Cajkovskij una situazione drammaturgica ideale per costruire una classica pagina da concerto. La vicenda di Romeo e Giulietta si riduce nella sua versione a due elementi drammatici contrastanti, che racchiudono in sintesi tutta la tragedia. Il primo consiste nella violenta faida feudale tra Capuleti e Montecchi, che si esprime nel nodoso tema dell'Allegro giusto, un secco fascio di ritmi e sincopi inchiodato fino alla fine alla tonalità di si minore. Al lato opposto troviamo invece il tema dell'amore, "dolce ma sensibile" come recita l'indicazione espressiva della partitura, che fluttua in varie tonalità fino a consumarsi nell'estenuata e sublime apparizione finale, nella coda, sospesa in un etereo si maggiore scandito da liquidi arpeggi dell'arpa. Una morte voluttuosa, quella degli amanti, certificata dal drammatico epilogo affidato a un estremo ritorno del tema principale, che sembra piombare sul corpo esanime dei due infelici rampolli come una pietra tombale. La realtà, sembra concludere l'autore, avrà sempre la meglio sul sogno d'amore.

L'Ouverture è costruita in sostanza come un ampio movimento di Sonata, preceduto da un'introduzione (Andante non tanto quasi Moderato) e seguito da un'appendice (Moderato assai), che funge da reminiscenza del dramma. La forma sostanzialmente strofica di quest'ampia pagina orchestrale rispecchia l'ordine classicheggiante della sua struttura architettonica. Cajkovskij ricorre in qualche punto, come per esempio all'inizio dello sviluppo, allo stile contrappuntistico, giustificando così certe accuse di accademismo che gli venivano rivolte dall'ambiente dei Cinque. In definitiva la grande bellezza del lavoro consiste soprattutto nella schiacciante forza dell'invenzione melodica, concentrata nell'irresistibile frase d'amore che costituisce il cosiddetto secondo tema.

Cajkovskij si limitava forse a sviluppare una sola idea, ma con una tale potenza espressiva da far risultare "incredibilmente faticoso rielaborarla o riscriverla", come confessava candidamente l'autore nella già menzionata lettera a Balakirev.

Oreste Bossini

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nel 1921 Igor Stravinsky, non meno abile a sbalordire la gente che a fare musica, indirizza una lettera aperta a Diaghilev dove mette sull'altare il campione più 'sdato' della melodia scritta «col cuore in mano»: Ciaikovski. L'anno dopo dedica alla memoria dello stesso l'opera comica «Mavra». Nel 1928 scrive sul frontespizio de «l bacio della fata»: «Dedico questo balletto alla memoria di P. Ciaikovski assimilando a questa fata la sua musa; si ch'esso diviene un'allegoria. Giacché come la fata del balletto, così quella musa segnò luì del suo bacio fatale, la cui misteriosa impronta si avverte in tutta l'opera del grande artista». E nella sua autobiografia del 1935 insiste: «avrò più tardi occasione di parlare ai miei lettori di Ciaikovski, della sua musica e della mia lotta per la sua causa presso parecchi miei colleghi che s'ostinano nell'eresia di vedere la musica russa 'autentica' solo attraverso i Cinque. Qui ho voluto notare soltanto un ricordo personale del celebre compositore, per il quale la mia simpatia è andata aumentando continuamente, al tempo stesso che la mia coscienza musicale si evolveva. È a partire da quella data (da quando cioè Stravinsky, undicenne, aveva visto Ciaikovski) che io credo di poter situare l'inizio della mia vita cosciente di artista e di musicista».

Stravinsky, è vero, possedeva finissimo il senso dell'humour (e il gusto del paradosso) ma a questo proposito non scherzava affatto.

E per la cultura europea queste affermazioni rappresentavano la più sconcertante doccia fredda dal trattato di Campoformio in poi. Dunque Stravinsky, antiromantico, ostile alle intenzioni espressive della musica, allo spirito del canto (a cui opponeva un fraseggio meccanico completamente indipendente dall''Ispirazione canora'), indicava come maestro proprio Ciaikovski, primo responsabile storico del 'morbido idealismo' e comunque di tutto ciò a cui il Novecento era, per natura e per vocazione, allergico. Era il colmo.

Ma Stravinsky aveva ragione, come al solito.

Intanto per coerenza personale; giacché in quel periodo aveva il culto dell'idea musicale semplice, incisiva, diretta; amava Schubert, l'opera italiana ottocentesca e le cabalette di Verdi; detestava il misticismo letterario, il wagnerismo e tutto ciò che si allontanasse dalle 'forme chiuse'; e poi perché aveva capito che la Russia non era solo quella del colore esotico e del folklore popolare o della barbarie primigenia e «fauve» ma anche quella della raffinatezza frustrata di una società aristocratica e borghese: fatto tutto europeo e russo. Come il romanzo russo-francese del tardo-Ottocento. Infatti «la radice di ogni errore sul conto di Ciaikovski — sono parole di Fedele d'Amico — è qui: nel considerarlo un semplice epigono di tedeschi e francesi, intimamente estraneo alla 'vera' musica russa, dogmaticamente identificata con la lingua nazionalistica perseguita dai Cinque, e particolarmente da Mussorgski».

Ora è vero che Mussorgski esprime la terra russa più nativa, il mondo contadino e i suoi riti, e in un modo epico, ma è altrettanto vero che la vena lirica di Ciaikovski 'trascrive' gli ideali decaduti e le delusioni «della società colta o semicolta e perciò parzialmente occidentalizzata del suo tempo: l'aristocrazia e la borghesia, la quale aveva anch'essa il suo proprio folklore, quel 'folklore urbano' che era costituito dalla romanza da camera, dalla melodia di lontana ascendenza schubertiana, ma ormai registrata su inflessioni proprie (dunque russe) e sensibilizzata alle proprie esigenze psicologiche». L'invenzione melodica di Ciaikovski è infatti eminentemente liederistica.

Eppure l'autore, fino a qualche anno fa, non ha avuto buona stampa. Non gli si sono perdonati i suoi 'doni' reali: forza di ispirazione, intensa emotività, melodie rigogliose di fertile fantasia, trascolorare di situazioni inquiete e struggenti, confessioni inesplorate e turbate. Ma soprattutto destava sospetto che la sua musica fosse cosi amata e popolare da travolgere ogni ragionevole baluardo critico. Se un artista commuove è insomma un corruttore potenziale. Neanche con la burocrazia sovietica Ciaikovski ha avuto migliore sorte. La musica, con un po' di sforzo, poteva rispondere ai requisiti di un'arte semplice, chiara, comprensibile al popolo e amata; a quelli cioè richiesti dall'ideologia zdanoviana, per la quale Prokofiev era stato malamente inchiodato. Ebbene, Ciaikovski è stato 'santificato' come «modello di virile realismo proletario». Che è battuta sconveniente e greve per un musicista cosi tenero e fragile (e borghese).

Ora, però, l'ostilità della cultura ufficiale sembra definitivamente caduta, anche se si sostiene che la semplicità tradizionale del linguaggio armonico di Ciaikovski, in un momento in cui Strauss da una parte e Debussy dall'altra stavano per cambiare faccia all'arte dei suoni, è più accettabile in sede operistica che in sede sinfonica. In ogni modo è certo che nella produzione lirica o in quella 'a programma', cioè nell'evocazione di 'quadri tardo-Ottocento', in cui si muovono personaggi languidi o disperati e amori delusi e infelici, Ciaikovski sembra invitato a nozze. Immaginiamolo perciò a quelle molto «rate» e «poco consumate» di Romeo e Giulietta: un festino autobiografico squisito, da perdere la testa.

Balakirev — ci dicono — lo spinse a comporre l'«Ouverture-fantasia» nel 1869 a Mosca. Ma siamo sicuri che fu proprio quel soggetto — impossibile per Verdi — ad accendergli la 'cupidigia'.

La musica non è affatto un «pas de deux» Ponchielli-Gounod, come potrebbe insinuare un 'patito' di Pizzetti, e non soffre certo di anemia.

L'Ouverture si apre con un «Andante moderato» che descrive la figura di Fra' Lorenzo, l'innocente tessitore della tragedia; i suoni si fanno oscuri e premonitori finché esplodono in un «Allegro» che 'fotografa' l'odio di Montecchi e Capuleti rivali e lo scontro fisico e 'metallico' della battaglia. Segue un tema d'amore dolcissimo che è 'Giulietta' e uno più appassionato, 'Romeo'. Riprende un Allegro — ancora un conflitto delle fazioni — che tronca il motivo dei due amanti. Una breve apparizione del tema di Fra' Lorenzo e di quello d'amore prima che la quiete significhi la morte.

L'«Ouverture-fantasia» fu eseguita, per la prima volta, il 16 marzo 1870, sotto la direzione di Anton Rubinstein. Inutile dirlo, con grande successo.

Lamberto Bartoli


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 138 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorium Parco della Musica, 10 marzo 2007
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino;
Firenze, Teatro Comunale, 12 aprile 1978

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Ultimo aggiornamento 14 febbraio 2019