Lo schiaccianoci, op. 71

Balletto in due atti e tre quadri

Musica: Petr Ilic Cajkovskij (1840-1893)
Libretto: Marius Petipa da "Nussknacker und Mausekönig" di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann nella versione francese di Alexandre Dumas padre

  1. Ouverture - Allegro gisto

Atto I

Scena prima

  1. L'ornamento, la decorazione e l'illuminazione dell'Albero di Natale - Allegro non troppo
  2. La marcia - Tempo di Marcia viva
  3. Il Galop dei bambini. Arrivo degli ospiti - Presto . Andante
  4. Arrivo di Drosselmeyer. Danza delle Bambole Meccaniche. Consegna dello Schiaccianoci a Clara - Andantino. Allegro molto vivace. Tempo di Valse. Presto
  5. Lo Schiaccianoci. Danza del nonno - Andante (Tempo di Valse). Andantino. Tempo di Grossvater
  6. La partenza degli ospiti. La Notte - Allegro semplice. Moderato assai
  7. La Battaglia - Allegro vivo

Scena seconda

  1. Una foresta di abeti in inverno - Andante
  2. Valzer dei fiocchi di neve - Tempo di Valse, ma con moto. Presto

Atto II

Scena prima

  1. Il castello magico:
    1. Il palazzo incantato del Regno dei Dolci - Andante
    2. Angeli e l'arrivo della Fata dei confetti - Andante
  2. Arrivo di Clara e dello Schiaccianoci - Andante con moto. Allegro agitato
  3. Divertissement:
    1. La Cioccolata. Danza spagnola - Allegro brillante
    2. Il Caffè. Danza araba - Comodo
    3. Il Tè. Danza cinese - Allegro moderato
    4. Trépak. Danza russa - Tempo di Trepak, molto vivace
    5. Danza dei flauti - Andantino
    6. Mamma Cicogna e i pulcinella - Allegro giocoso
  4. Valzer dei fiori - Tempo di Valse
  5. Pas de deux:
    1. Il Principe e la Fata dei confetti. Entrata - Andante maestoso
    2. Il Principe e la Fata dei confetti. Variazione 1: Tarantella - Tempo di Tarantella
    3. Il Principe e la Fata dei confetti. Variazione 2: Danza della Fata Confetto - Andante ma non troppo
    4. Il Principe e la Fata dei confetti. Coda - Vivace assai
  6. Valzer finale e Apoteosi - Tempo di Valse. Molto meno
Organico: 2 ottavini, 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo, raganella, tamburello, castagnette, tam-tam, glockenspiel, 2 arpe, celesta (o pianoforte), archi; inoltre, strumentigiocattolo e coro di voci bianche (o femminili)
Composizione: febbraio 1891 - Parigi, 4 aprile 1892
Prima esecuzione: San Pietroburgo, Teatro Mariinskij, 18 dicembre 1892
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1892
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La data di nascita del balletto è il 5 di-cembre 1892, il luogo San Pietroburgo, Teatro Marinskij. Petipa, autore del libretto, si ispirò al racconto Schiaccianoci e il re dei topi di Hoffmann, ma non all'originale, bensì alla versione di Alexandre Dumas padre. Come nella precedente Coppelia (1870, Parigi), di Hoffmann non resta molto, al di là dei fatti raccontati. Più rispettosi del testo ispiratore furono invece, nel 1880/81, Offenbach e i suoi librettisti Barbier e Carré firmando quell'opera straordinaria che è I racconti di Hoffmann.

Il balletto e l'impero

Si sa che Schiaccianoci, insieme con gli altri due «titoli» basati sulla musica di Cajkovskij, La bella addormentata e Il lago dei cigni, è uno dei punti d'arrivo del balletto romantico, che pochi anni dopo entrò in una crisi profonda. Possiamo porci una domanda: perché questo passaggio storico avvenne in Russia, ovvero nell'ultimo grande impero assoluto? Il balletto romantico, nato dalle culture francese e italiana verso la metà dell'Ottocento, aveva trovato a Parigi e a Milano i suoi centri più vivi e produttivi; ma fu in Francia, più che in Italia, che si sviluppò quella tecnica «aerea», fatta di tutù e punte, che ancora oggi regge la danza classica. L'Italia era divisa, impoverita, e anche Milano, seconda città dell'impero teresiano, aveva perduto importanza nel periodo della Restaurazione. I moti, le guerre d'indipendenza, le insicurezze politiche indussero molti artisti a emigrare, prima a Parigi poi nell'impero zarista. Ma anche Parigi non visse epoche tranquille, fra rivolte, colpi di Stato, passaggi anche violenti di potere: fu tuttavia solo l'epilogo della guerra franco-prussiana, nel 1871, a far scattare la più grande crisi del tempo. Chiusa l'Opera, perdute le scuole, ecco allora una successiva emigrazione, stavolta tutta verso Oriente.

A Pietroburgo c'erano mille possibilità, lo Zar non era avaro con le arti, la corte offriva un esempio di stabilità. Così i migliori coreografi parigini e le più amate ballerine italiane (la Brianza, la Dell'Era, la Legnani) trovarono ospitalità al Marinskij e nelle altre scene russe, compreso il Bols'oj di Mosca.

Marius Petipa, marsigliese, divenne nella seconda metà dell'Ottocento il re del balletto in Russia, dove non esisteva praticamente nulla di originale. Grazie a lui si formarono le prime scuole e nacque l'amore per la danza che poi produsse i maggiori interpreti del Novecento. Ma il creatore di Don Chisciotte e della Bayadère, nel momento della sua maggiore maturità artistica, capì che stava arrivando una crisi, che il balletto aveva bisogno di idee nuove e soprattutto di buona musica. I bravi mestieranti, come Minkus, Drigo, Pugni, non avrebbero più garantito, di fronte alle nuove generazioni ormai stregate dalle grandezze della musica sinfonica, alcuna chance di sopravvivenza alle produzioni da loro firmate.

Si doveva dunque trovare un musicista che amasse il balletto e fosse famoso in patria e fuori. Impresa non facile, perché ai maggiori compositori del tempo il ballo interessava pochissimo o era giudicato una forma minore del teatro in musica. In Francia erano stati coinvolti nel balletto autori come Adam (Giselle) e Delibes (Coppelia), ma non c'era stato un seguito.

La sfida di Cajkovskij

In Russia invece viveva Cajkovskij, che nel 1875 aveva sfidato con scarso successo il mondo del balletto presentando a Mosca Il lago dei cigni. Fu un fallimento per due motivi, la modesta qualità dell'allestimento e l'eccessiva difficoltà rilevata nella musica. In anticipo sui tempi, dunque, era il raffinato compositore di opere come Evgenij Onegin e di sinfonie vibranti di sentimento; tuttavia, quasi tutte le musiche di Cajkovskij contengono balli o invitano alla danza, ciò che certo non era sfuggito a un attento osservatore come Petipa.

Così Cajkovskij entrò, su invito del maestro dei coreografi, in un mondo che gli era di certo congeniale ma che lo aveva, in quella precedente occasione, respinto; non solo, egli fu il salvatore del balletto classico e l'ispiratore involontario e fatale della riforma portata avanti da Fokin, Djagilev, Stravinskij e Alexandre Benois nel primo decennio del Novecento. Dopo La bella addormentata, Schiaccianoci e Il lago dei cigni (rilanciato nel 1895) non si potè più pensare a un balletto senza buona musica.

La bella addormentata è il primo grande titolo di questo periodo splendido e fatiscente insieme: è la lussuosa messa in scena della favola di Charles Perrault alla quale venne dato un décor fantastico, tale da restare nella memoria dell'esule George Balanchine, che ancora allievo della scuola aveva partecipato, nel 1905, ad alcune recite del Mariinskij. La musica aderiva a questi ideali di bellezza, di perfezione tecnica ed espressiva, di splendori sonori, di fantasie coloratissime. Dovette fare sensazione questa immensa ricchezza di idee che furono gettate sul grande sogno della principessa Aurora, del suo bel principe, di una corte che viene stregata da una fata maligna e che viene ridestata da un atto d'amore. Storia emblematica, con il senno di poi, ma allora vissuta solo come una fiaba. Bisognava continuare, e così fu. L'amministratore dei teatri imperiali, Vsevolojskij,  aveva commissionato già nel 1890 a Petipa un nuovo spettacolo, e questo fu Schiaccianoci: il rapporto di lavoro fra il patron del balletto e il musicista, e poi con il coreografo Ivanov, non pare sia stato del tutto idilliaco: Petipa era estremamente preciso nelle indicazioni tecniche, Cajkovskij avrebbe voluto agire più liberamente con i suoi temi, le sue melodie, i suoi colori. Comunque sia, il prodotto diede ragione sia all'uno che all'altro; la suite del balletto, eseguita in concerto nella primavera dello stesso 1892, piacque moltissimo e fu certo trainante nei confronti dello spettacolo. E nella realtà di oggi, ancora, suites dello Schiaccianoci vengono eseguite in moltissime occasioni.

Un balletto borghese

La bella addormentata era il tipico balletto aristocratico prototipo del figlio del barocco francese; Schiaccianoci fu, in primo luogo, un balletto borghese. Non è da sottovalutare questa «qualità», perché sarà proprio questo tipo di racconto ad aprire spazi alle prime avanguardie moderate: se è vero che nell'anima di Clara-Maria c'è un sogno romantico, con il consueto bel Principe nel regno dei piaceri infantili, è altrettanto vero che Clara non ha nessuna chance di diventare una regina o una principessa. Resterà, finito il sogno, una brava ragazza della ricca borghesia tedesca.

Siamo dunque in casa Stahlbaum (cognome forte: acciaio+albero) alla vigilia di Natale: nella ricca casa di questo signore si dà una festa per i figli Cliara e Fritz, ci sono tanti ragazzi e i loro genitori. A movimentare questa occasione felice c'è un singolare personaggio, Drosselmayer: mago, scienziato, burattinaio, inventore, ipnotizzatore, egli appartiene a quella categoria hoffmaniana di straordinari gentiluomini-ciarlatani, un po' Cagliostro un po' Casanova, che mettono zolfo in tanti racconti, parente stretto del dottor Coppelius, di Spalanzani, di tutta la genìa di ingannatori e illusionisti che vissero sulla credulità della gente profittando delle prime astuzie scientifiche, Drosselmayer appare come un bonario deus-ex-machina, che aiuta e punisce, diverte con i suoi automi e gestisce, in modo misterioso, i sogni di Clara.

Gli automi, gli automates, le bambole meccaniche, sono alla moda, nel tempo di Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann, anch'egli a suo modo dotato di infinite virtù magiche; fanno parte del sogno di dar vita all'inanimato, così come voleva Coppelius.

Nei Racconti, Olympia è l'automa-cantante che seduce Nataniele-Hoffmann e gli fa perdere la testa. Questa Olimpia va in pezzi, nella lite furibonda che scoppia fra Coppelius e Spalanzani. L'automa è il supergiocattolo del tempo, ma è anche l'emblema del grande fallimento della scienza. Drosselmayer anima i suoi giocattoli automatici, e non va oltre: ma riesce a creare il sogno, ovvero un racconto fatato che finisce nel nulla, nel risveglio. Anche se il libretto non lo dice, Drosselmayer, con la sua parrucca di fili di vetro e la benda nera sull'occhio, entra nell'inconscio di Clara, ne rimuove le paure, ne agita i desideri, rincorre il suo crescere.

Egli addita alla ragazza la via da seguire, e lei saprà al risveglio che il suo Principe sarà reale e borghese.

Il sogno di Clara

Quel principe, nel sogno, è la trasformazione dello Schiaccianoci, giocattolo e arnese in forma di soldatino, oggetto in voga nel secolo XIX; tenuto con affetto da Clara, questo Schiaccianoci non sarebbe nulla se non fosse il pretesto per il percorso del desiderio. Quando Clara si addormenta, la stanza diventa immensa, i giocattoli si animano, Drosselmayer ha fatto il prodigio; ma ecco le paure, perché dal sottosuolo emerge un esercito di topi, con un terribile re, e questo esercito sconfigge Schiaccianoci e i suoi soldatini. Clara resta sola contro l'orda topesca, ma Drosselmayer la salva donandole una candela accesa. E Schiaccianoci? Eccolo diventare un bellissimo giovane che sconfigge il re dei topi e porta Clara nel mondo dei balocchi, degli alberi di Natale, dei dolci e dei confetti.

In un clamoroso e grande divertissement si celebrano le nozze dei due giovani: ma è solo un sogno, Clara si sveglia, ha in braccio il giocattolo, è felice, ricorda, è diventata più grande.

Il XX secolo

Nel secolo XX, che è appena passato ma così dobbiamo chiamarlo, le innumerevoli riprese di Schiaccianoci sono state segnate da approfondimenti e da interpretazioni che hanno portato questo spettacolo, talvolta, ben fuori dalla sua tradizionale dislocazione natalizia, precipitandolo nel mondo degli adulti. È bastato individuare nel sogno di Clara una sorta di iniziazione all'amore, il «passo» che trasforma la bambina in una donna. Secondo la versione di Rudolf Nureyev, nata a Stoccolma nel 1968, Clara, accompagnata da Drosselmayer che altri non sarà che l'amato principe, esce dal tunnel delle paure (i topi, la famiglia incombente e ossessiva) per ritrovarsi liberata e pronta a sbocciare. Sottratta ai piaceri dell'infanzia, ella non avrà più davanti a sé marzapane e confetti, ma oggetti del tempo nuovo. Nella bellissima e recente (1999) edizione di Schiaccianoci Circus di Jean-Christophe Maillot a Monte Carlo, lo Schiaccianoci è un mostriciattolo da cartoon, e il «paese dei balocchi» un circo dove si fanno prodigi di magia, prestidigitazione, acrobazia. Cranko, Neumeier, Petit hanno variato più o meno a fondo le situazioni del balletto, ma è stato nel 1998 Maurice Béjart, a Torino, a rileggere la trama in chiave di memoria e con la nostalgia della madre perduta.

Rispetto ai balletti del tempo - un caso a parte sono i balli grandi di Luigi Manzotti a Milano, vedi Excelsior, Amor o Pietro Micca - Schiaccianoci è certo di categoria infinitamente superiore, perché più di tutti esprime la verità del sentimento senza bisogno di metafore o di finzioni. La bella addormentata era un gioco cortigiano con una morale precisa; il Lago dei cigni, portato al trionfo poco dopo la morte del compositore, partiva dal neoromantico per entrare, senza volerlo, nel gioco dei rapporti fra madre e figlio così bene espressi da Mats Ek e dal Cullberg Ballet. Senza averne precisa coscienza Petipa, Ivanov e Cajkovskij inserirono nel mondo della danza i primi dubbi, le prime tensioni amorose fino a quel punto tenute nascoste. Dopo, tutto nel balletto moderno risultò più facile, o addirittura troppo facile. Petipa avrebbe voluto continuare l'esperienza «grande danza+grande musica», ma la morte improvvisa di Cajkovskij lo privò della sua unica carta vincente. Tentò di proseguire con Aleksandr Glazunov, ma i risultati furono nettamente inferiori. E così finì una delle più affascinanti avventure culturali dell'Ottocento.

Partitura «super», fin troppo bella per un balletto, questa di Schiaccianoci: e tanti sono i temi che restano nella memoria, in questa grande festa del teatro e della musica. Amorosamente Cajkovskij descrive, con qualche notazione all'antica nella festa in casa Stahlbaum, ma è soprattutto nei grandi balli (valzer dei fiori, valzer dei fiocchi di neve) che il racconto assume connotazioni di alto respiro; le apparizioni degli automi di Drosselmayer sanno di mistero, e altrettanto oscuri sono i segnali mandati nel finale della festa; dove tuttavia la fantasia del compositore si accende di luci è nei pezzi di colore, nel coro, nel divertissement dove abilmente vengono recepiti temi popolari, come nella danza araba ispirata a una ninna-nanna georgiana, o come nella danza russa che ha una forte aria di truculenza campagnola. È curioso notare l'uso della celesta (una «prima per la Russia») utilizzata per la Fata Confetto: Cajkovskij l'aveva scoperta a Parigi e se ne era procurata una, prima di Rimskij e Glazunov...

Il risveglio

Singolarmente, il balletto non finisce in apoteosi, ma nel silenzioso risveglio di Clara: la nostra eroina, secondo Hoffmann, avrebbe poco più di sette anni, ma nella finzione teatrale gliene attribuiamo qualcuno di più. Lo scrittore scrisse il racconto pensando ai figli di un suo caro amico, Julius Eduard Hitzig: Fritz divenne architetto e visse 70 anni, Marie, nata nel 1809, morì a 13 anni. Hoffmann conclude il racconto in una fantasmagoria di affetti: giunge il vittorioso ex Schiaccianoci, che è poi il nipote di Drosselmayer, e c'è l'intermezzo della Voce dura, dell'incantesimo della principessa Pirlipat e del suo salvatore Schiaccianoci (alcune versioni del balletto, come quella di Amedeo Amodio per l'Aterballetto e questa ultima di Maillot al Circo reale di Monte Carlo, inseriscono Pirlipat nello spettacolo). Sembra che Hoffmann suggerisca un valzer degli addii, ma Cajkovskij finge di non accorgersene, di escludere da sé la morte che si avvicina e che presto lo ghermirà, insieme con i suoi più cari amici. Intanto, ha esorcizzato il re dei topi, le sue sette teste e le sette coroncine di strano metallo aureo.

Compose subito dopo la Patetica: un altro mondo, un altro viaggio lontano dall'armadio di una bimba dove il re dei topi ha rosicchiato tutte le cose care dell'infanzia.

Mario Pasi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il clamoroso successo teatrale di Pikovaja Dama (La donna di Picche), consumatosi il 19 dicembre 1890 al Teatro Mariinskij di Pietroburgo aveva fruttato a Cajkovskij due nuove commissioni da parte di quel teatro, la prima delle quali relativa a un balletto. Si sarebbe trattato di Scelkulcik (Lo schiaccianoci), andato in scena il 18 dicembre 1892 con l'opera Iolanta e edito lo stesso anno da Jurgenson a Mosca. Un cenno indiretto della volontà del musicista di dedicarsi al nuovo impegno lo si apprende da una lettera inviata proprio a Jurgenson il 15 giugno del '91 da Maidanovo, a breve distanza dal rimpatrio dalla tournée americana, allorché egli chiese all'editore di ordinare un nuovo strumento "di sonorità divinamente bella" udito a Parigi prima dell'imbarco per gli States, la celesta, che, com'è noto, troverà splendido accasamento per l'appunto nel nuovo balletto (pare che la richiesta fosse avanzata in gran segreto, per evitare che ne venissero a conoscenza Rimskij e Glazunov). Ben più esplicito fu però, il 7 luglio, il riferimento che Cajkovskij fece sempre epistolarmente al nipote del cuore, Bob: «Ligio alla promessa, ti scrivo per informarti che ho ultimato ieri gli schizzi del ballo. Ti ricorderai che mi sono vantato, quando tu eri qui, di poter finire la composizione in cinque giorni. Ma ho a malapena concluso in due settimane. No, il vecchio uomo si sta esaurendo. Non soltanto i suoi capelli stanno diradandosi e diventando bianchi come neve, non soltanto egli va perdendo i denti, non soltanto i suoi occhi si indeboliscono e facilmente s'affaticano, [...] ma egli va perdendo pian piano la facoltà di produrre alcunché. Il balletto è infinitamente peggiore della Bella addormentata, questo è sicuro; [...] se devo arrivare alla conclusione che non posso più fornire la mia tavola musicale se non di piatti riscaldati, finirò coll'abbandonare la composizione».

La dichiarazione non avrebbe vietato a quel vecchio cinquantunenne di procedere nella stesura del ballo e di avviare, il 22 dello stesso luglio, quella della nuova opera, Iolanta (sarebbero state le sue ultime prove per il teatro). Sempre nella casa di Maidanovo lo Schiaccianoci venne completato il 4 aprile 1892 ma già nel febbraio Pètr Il'ic ne aveva estratto una Suite ad uso concertistico che fu eseguita a Pietroburgo il 19 marzo con un consenso tale da vederne bissati cinque brani; e non c'è dubbio che per i posteri questa Suite, almeno in occidente, avrebbe sopravanzato radicalmente l'intero ballo in quanto a notorietà, accogliendo entro una struttura di complessivi otto numeri alcuni attraenti inserti dell'opera, ormai celeberrimi per ogni amatore di musica.

All'origine pratica dello Schiaccianoci sta una figura benemerita del paesaggio artistico russo dell'epoca: quell'Ivan A. Vzevolovzskij che aveva di già presieduto alla nascita della Bella addormentata e che, in qualità di direttore dei Teatri Imperiali, dettava il bello e il cattivo tempo in ordine alla produzione teatrale pietroburghese. Uomo instancabile, diplomatico accorto, convinto assertore del più lussuoso décor scenografico, Vzevolovzskij incaricò il proprio famoso coreografo, Marius Petipa, del piano, o sceneggiatura, del balletto, che quest'ultimo ricavò dal racconto Der Nussknacker und der Mäusekönig (Lo schiaccianoci e il re dei topi), scritto nel 1816 da E.T.A. Hoffmann. Venne tuttavia adottata una versione semplificata ad uso di platee più contentabili, dovuta a Alexandre Dumas padre, nella quale si perdeva la componente grottesca, e non poco maligna, dell'originale per far venire in primo piano l'elemento puramente fiabesco della storia: i bambini del Presidente Stahlbaum, Clara e Fritz, festeggiano nella loro casa, addobbata con un grande albero di Natale, la vigilia insieme a parenti e amici. Arriva nel corso della serata il dottor Drosselmeier, padrino di Clara, e reca alla piccola un curioso dono, uno schiaccianoci in forma di soldato. Spossata dalle emozioni della festa, Clara porta con sé a dormire lo schiaccianoci e sogna che esso, attaccato dai topi, diviene il generale di un esercito di soldatini di piombo. Dopo un'aspra battaglia, che vede lo schiaccianoci vincitore, a Clara appare il padrino che trasforma il dono in un bellissimo principe. Indi Clara e il principe, ancora in sogno, viaggiano alla volta di Confiturenburg, il paese dei dolci, ove si svolge un divertissement goloso in onore della bambina. Alla fine del sogno, Clara, destatasi, ripensa alle straordinarie vicende vissute stringendo al cuore il suo regalo.

Vzevolovzskij, nel corso del periodo di stesura, avrebbe passato più di un guaio col suo musicista e col suo coreografo. Presto rientrato lo screzio con Cajkovskij, più grave si sarebbe rivelato quello con il prepotente Petipa sino a intralciare in modo pesante la preparazione dello spettacolo. E allorché nel settembre del '92 il dissidio giunse al punto di rottura, una provvidenziale malattia del grande coreografo consentì un cambio di mano: il maitre en seconde collaboratore Lev Ivanovic Ivanov fu incaricato di porre il sigillo finale alla coreografia e non pochi sono, fra i critici, quanti tendono ad attribuire a questo russo schivo e opaco la paternità stilistica dello Schiaccianoci. Cajkovskij, dal canto suo, non ebbe davvero a lagnarsi della cosa, sol che si pensi a qual cilicio di pedanteria era stato costretto a sottostare dalla sceneggiatura di Petipa; una sceneggiatura che andava a intrufolarsi sin dentro il numero delle battute musicali, oltre che nel loro carattere e andamento («La scena è vuota... Clara rientra. Otto battute di musica misteriosa, ma dolce. [...] Due battute per il suo fremito di paura. [...] Dopo i rintocchi dell'orologio, un breve tremolo; dopo il tremolo, cinque battute per l'ascolto dello scalpiccio dei topi e quattro per i loro sibili»: e via vessando).

Infine, lo Schiaccianoci vide le scene la sera del 18 dicembre 1892 per la direzione orchestrale di Riccardo Drigo insieme a Iolanta (diretta da Nàpravnik), con la sontuosa messa in scena di Bocarov e K. M. Ivanov e uno stuolo di ottimi danzatori, fra i quali Sergej G. Legat nella parte del titolo. Non fu un grande esito; dopo undici rappresentazioni lo spettacolo uscì dal cartellone e lo Schiaccianoci dovette attendere il 1919 per essere ripreso in Russia.

Ha pesato a lungo sulle fortune critiche di questa fra le preziosissime creatura cajkovskiane il pregiudizio riduttivo di una parte della musicologia (quella britannica in specie) secondo cui lo Schiaccianoci sarebbe un fratello minore dei due balli antecedenti, il Lago dei cigni e la Bella addormentata, per certa sua aura di confiserie senza passionalità, o frivolezza che si voglia dire. Accedendo a siffatto metodo d'indagine, è pacifico che la calcolata unitarietà narrativa di quelle due opere cui toccò di prefigurare, né più né meno, la stagione del moderno balletto sinfonico, risulti più "importante" del finissimo, capriccioso tessuto dello Schiaccianoci; eppure si ama supporre che proprio nella vaghezza del suo procedere e nel suo rifuggire dal pathos vada dichiarata la superiore attualità di quest'ultimo sui primi. Si potrebbe intanto insistere sull'entità della elaborazione tematica, ottenuta con mezzi della più sorprendente semplicità; in tal senso ciascuno delle innumeri golosità timbriche, nonché confinarsi in calligrafismo, denuncia un grafico di bravura dell'orchestrazione da sfiorare il prodigio, e il miracolo ulteriore è che tal bravura veniva fuori dallo stesso spirito inquieto che aveva appena sostato sugli abissi di umoralità del Voivoda. Ma, ciò ammesso, è in un assunto di fondo, in parte enigmatico, che collaudiamo questa superiore filigrana dell'ultimo ballo cajkovskiano: il suo retrocedere in quella zona franca tra sonno e veglia che testimonia della fuga dell'uomo dalle insidie della realtà verso i cieli neutri del sortilegio e del piacere della musica in sé. Si fece accusa allo Schiaccianoci di deviare dal terreno canonico della favola per adulti mettendo in musica i timori e i progetti del mondo dell'infanzia; e ancor oggi tocca registrare come, sulla rivista americana Dancing Times, ad esempio, il balletto venisse definito, a firma di P. W. Manchester, «una seccatura ... che esplode - immancabile - a Natale, come un'epidemia di morbillo». Il che dimostra che è tuttora difficile far accettare a taluni un'idea su cui ha invece prosperato discreta parte della musica del nostro secolo, da L'enfant et les sortilèges a The turn of the screw: l'innocenza come rifugio dal terrore dell'"esser adulti". Vista in tal prospettiva, la musica che Cajkovskij riversò nel suo ballo, pervasa di tutto ciò che col dramma contrasta, recupera alla favola per bambini proprio quell'hoffmannismo d'origine che la riduzione di Dumas aveva bellamente cacciato dalla porta centrale, tanto più allarmante in quanto reintrodotto dall'uscio di servizio della levità. Per un autore come il Russo, avvezzo a sentire l'infanzia come paradiso irrecuperabile, l'unico modo, del resto, per trarsi fuori dalla realtà della sua prematura vecchiaia, fitta di fantasmi ostili come il Re dei topi della fiaba, era il sogno: ove tutto può avvenire, perfino la vicenda bella dell'amore tra simili.

È possibile convincersi dell'eccelso rango dello Schiaccianoci a un ortodosso ripasso delle molteplici sue delizie: a partire da quella Ouverture-miniature d'apertura (che passò come primo numero anche nella Suite sinfonica), tutta in timbri trasparenti, coi violini primi e secondi e le viole divisi in sei parti. Il numero successivo, primo della serie di nove che compongono l'atto I, in casa del Presidente Stahlbaum, è dedicato alla preparazione dell'albero natalizio, coll'eccitazione dei bambini descritta dal brillante lavorio dei legni; fanno seguito la Marcia (anch'essa passata nella Suite), ottantotto battute il cui tema, deliziosamente miniaturistico, è di pertinenza di tromba, corni e clarinetti e il Galop dei bambini con la susseguente entrata degli invitati in maschera, in stile antico con un motivo degli archi e belle ornamentazioni ai flauti e ai clarinetti. Il clima gioioso s'arricchisce coll'introduzione, nel galop, di una eco della canzone infantile francese Bon voyage, cher Dumoullet. Per la prima volta la musica cambia carattere col n. 4, Scena di danza e arrivo di Drosselmeier, proponendo uno zoppicante motivo delle viole dal tono fra umoristico e minaccioso, con la tuba e i corni con sordina a suggerire l'ingresso del misterioso personaggio. Drosselmeier presenta un divertissement di marionette, ciascuna delle quali depositaria di un piccolo tema in accordo alla propria indole; si susseguono clarinetti divisi, fagotti e tamburino. È quindi la volta della Scena e danza del nonno, in cui Cajkovskij utilizza il suono della raganella per descrivere onomatopeicamente la rottura delle noci da parte dello schiaccianoci e che si conclude con il tema popolare tedesco usato da Schumann nei Papillons e in Carnaval. I numeri 6 e 7, Inizio della magia e La battaglia tra lo schiaccianoci e il Re dei Topi, appartengono alla zona di più esplicito virtuosismo di Cajkovskij, con il bell'effetto di sonorità dell'ingigantirsi dell'albero di Natale e le dissonanze tra archi e legni per le accoglienze al nemico e la figurazione ascendente di violini e viole, su accordi ribattuti di tromboni e tuba, nell'istante in cui lo schiaccianoci si tramuta in principe. I corni, sorretti da archi e arpe, fanno udire una calda melodia allorché il principe si libera dell'incantesimo (n. 8, Nella foresta di pini) e il celebre Valzer dei fiocchi di neve conclude l'atto I. Mirabile saggio di semplicità melodica e complessità armonico-timbrica, questo brano, insaporito dalle allusioni di un coretto femminile, presenta una parte terminale affatto inedita, una coda in ritmo binario per dipingere il tourbillon della neve.

L'atto II prende avvio con una splendida frase degli archi, luogo tipico del cajkovskiano, atta a introdurre le delizie del palazzo fatato di Confiturenburg. Nel secondo numero, Clara e il principe, si apprezzano particolari di eccentrica fattura timbrica, come la prima apparizione, di passaggio, della celesta e l'effetto di "frullato" del flauto; subito dopo incomincia il celebre Divertissement, sei numeri di grande virtuosismo orchestrale, quattro dei quali trascorsero a forgiare il profilo della Suite, che restano il nucleo di maggior popolarità dell'intero ballo. Curiosamente, Cajkovskij escluse dalla Suite i due numeri d'apertura e chiusura, Danza spagnola (Cioccolato) e Mamma Gigogne e i pagliacci, davvero di non minore appetitosità dei rimanenti; e nessuno se n'è spiegata la ragione, taluni peraltro giustamente rammaricandosene (W. A. Chislett e M. R. Hofmann, soprattutto in relazione al secondo).

Ognuno dei sei episodi contiene scintillanti avventure timbriche: Danza spagnola è un bolero, con le castagnette e la tromba solista a prefigurare certo tono forain del Pétrouchka stravinskiano; torpidi e sensuali risuonano il corno inglese e il tamburino della Danza araba (Caffé), una berceuse georgiana appresa a Tbilisi, mentre guizzanti impennate di flauti e ottavino, sui rintocchi del glockenspiel, connotano la Danza cinese (Te). Il rapido Trepak (Danza russa) in 2/4 e la Danza degli zufoli, in tempo di polka, coi tre flauti a disegnare un elegante scenario "dixhutiéme siécle", lasciano poi il posto alla finale Mamma Gigogne, avvincente alternarsi di ritmi binari e ternari con una parte centrale, Andante, pesantemente ribattuta, di irresistibile goffaggine.

Il numero che segue è con ogni probabilità il più famoso del balletto e uno dei più vistosi segnacoli d'eleganza del verbo cajkovskiano: nel Valzer dei fiori (pezzo conclusivo della Suite) la complicata cadenza dell'arpa ha il compito di render esplicito l'aprirsi delle gemme e i corni quello di introdurre sull'accompagnamento degli archi l'aristocratico tema, cui s'incarica di dar risposta la figura virtuosistica del clarinetto. Nel Pas de deux (Danza del principe e della Fata Confetto) un'appassionata melodia discendente è suonata dai violoncelli in registro acuto; al termine d'essa ha inizio il Tempo di tarantella (Variazione I) che lascerà il posto a un altro dei topoi illustri della partitura, la Danza della Fata confetto (Variazione II), di cui la celesta è protagonista iridescente con un misterioso clarinetto a disegni discendenti a contrastarne la perlacea sostanza. Una Coda e un Ultimo Valzer e Apoteosi chiudono il ballo; secondo tradizione risalente a Luigi XIV l'intero staff coreografico viene alla ribalta a danzare proponendosi al pubblico per i ringraziamenti di rito.

Vasta ed eccentrica, a conferma degli obiettivi di amusement che si son detti, è l'orchestra dello Schiaccianoci. Oltre il tradizionale assetto del complesso sinfonico di fine secolo, Cajkovskij vi ospitò una non indifferente serie di strumenti curiosi e di "rumori": trombette e tamburi infantili, cuculo, quaglia, tamburi-coniglio, un fucile, in scena; castagnette, raganella, glockenspiel, celesta e un coro femminile a bocca chiusa per finale dell'atto I.

Aldo Nicastro

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Al principio era Hoffmann. Ernst Theodor Hoffmann, come dire una delle personalità più affascinanti della letteratura tedesca. L'autore, prima di E.A. Poe, dei più bei racconti fantastici dell'Ottocento. Quella di Hoffmann con il collega americano, del resto, è una parentela che anche Heine subito sottoscrisse: «I fantasmi di Hoffmann sono tanto più spaventosi in quanto vanno a spasso con il sole del giorno e si comportano come tutti noi...». Vero. Anche se poi a muoverli, a farli vivere davanti ai nostri occhi stupiti è un vento grottesco.

Un vento che soffia anche su Schiaccianoci e il re dei topi (Der Nussknacker und der Mäuserkönig) e gli conferisce una sorta di andamento quasi da ouverture. Una ouverture giocosa e livida a un tempo.

Certo, Schiaccianoci e il ire dei topi non è forse il capolavoro per eccellenza della vasta raccolta di I racconti di San Serapione nel quale è inserito. C'è chi, a Schiaccianoci, preferisce magari Gli elisir del diavolo o L'uomo di sabbia, il quale, sia detto per inciso, fu il primo degli ineffabili racconti hoffmanniani a trovare la sua versione ballettistica. Da esso sbocciò il grande fiore di Coppélia di Leo Delibes. Ma Schiaccianoci ha dalla sua un grosso merito. Pochi racconti, venuti prima o dopo di lui, riescono a fondere insieme con cosi tanta sapienza e bellezza il mondo reale e quello della fantasia. E lo sappiamo, tutto ciò avviene grazie al personaggio della piccola, trepida Maria, destinata a diventare Clara nel balletto di Cajkovskij, la quale il giorno di Natale riceve in dono dal suo padrino Drozelmeier (Drosselmeyer sulla scena) quello sgraziato e pur affascinante schiaccianoci di legno che ha l'aspetto di un soldatino, di un ussaro per l'esattezza (le guerre napoleoniche erano un ricordo non tanto lontano), dalle gambe malferme e dagli occhi che ci è facile immaginare altrettanto malinconici dello stravinskiano, ma non solo stravinskiano, Petrouschka. Basterebbe approfondire un poco le cose e tra i due personaggi si può certamente cogliere una relazione non proprio superficiale. Certo, l'intrepido schiaccianoci sembra avere un destino più felice. Combatte con tutte le sue forze contro orde sfrenate di topi, ma non s'imbatte in nessuno stupido e vanitoso Moro pronto a metterlo fuori causa, ad allontanarlo per sempre da quella Colombina che ha amato per un momento.

Realtà dunque e mondo onirico, cioè mondo fragile dei sogni e della fantasia. Un connubio che forse soltanto un compositore come Pètr Il'ic Cajkovskij (lo «zio Petja» come lo chiamava la grande ballerina Matilda Ksesinskaja che giovanissima sarebbe diventata una delle stupefacenti interpreti dei suoi capolavori) con la sua estrema sensibilità, con la sua raffinata cultura, era in grado di cogliere. Doverosamente ricordiamo però che, anche Hoffmann, nella sua breve e tormentata vita (mori a soli 46 anni nel 1822), prima di rivolgersi alla letteratura si era dedicato alla musica con esiti non proprio modesti.

Fiaba fitta di presenze turbanti e di fantasmi ostili come tutte le fiabe, pochi altri musicisti meglio di Cajkovskij avrebbero potuto rivelarsi adatti a esorcizzarli con una musica così effervescente e cristallina a un tempo. Storia di un'iniziazione alla vita, come si torna a ripetere in occasione di ogni sua nuova realizzazione scenica, storia in cui l'infanzia è da vedere come un paradiso perduto (dunque si dice e si scrive, balletto rivolto più agli adulti che non ai minori, anche se poi sempre al pubblico infantile pare di doverlo destinare), vicenda in cui l'amore è sentito come un bene irraggiungibile, anche se ebbe a colorarlo di un certo esotismo liberty caro al tempo, nessun compositore meglio di Cajkovskij avrebbe potuto tradurlo con note cosi lucenti e spiritose, in una partitura ariosamente solare e pur malinconica a un tempo dietro i molti lirici barbagli.

Del resto, nulla ci vieta di pensare che questa storia, lui stesso, il compositore dell'Onegin, l'avesse da sempre conosciuta e da sempre amata. Nella sua biblioteca di tormentato adolescente, l'ineffabile racconto magari arrivato, cosa più probabile, non nella sua versione originale ma in quella più ridotta ed evaporata che da decenni anch'essa circolava in mezza Europa e dovuta alla penna del buon Alexandre Dumas pére. La stessa da cui Marius Petipa si era accinto a trarre il libretto del balletto.

Scrittore a tempo pieno, incapace di trascorrere le sue giornate parigine senza avere una penna tra le mani, anche se spesso delegava collaboratori-vittime a portare a compimento i suoi romanzi, tra un'avventura e l'altra dei suoi Moschettieri, popolarissimi anche in Russia, l'autore del Conte di Montecristo si era a lungo dilettato anche di letteratura infantile, sotto sollecitazione dell'editore Henzel. Anzi, quell'Heine che abbiamo già citato, sosteneva come pochi scrittori sapessero novellare alla pari di Alexandre Dumas, paragonandolo non solo a Cervantes ma a «M.me Scarrier, plus connuée sous le nom de la sultane Shéhérazade».

Non esisteva, nell'Ottocento, in Francia, bambino di buona famiglia che non avesse letto Le pére Gigogne e La Bouille de la comtesse Berthe o questa Histoire d'une casse-noisette che il coreografo principe Petipa, edulcorandola ancora di più di quel che già aveva fatto papà Dumas, stava per regalare per grandi immagini e piacevoli divertissements al pubblico del Marijinskij di Pietroburgo.

Questa dei molti divertissements era d'altronde la formula che più piaceva a Petipa e che ben aveva funzionato anche nella Bella addormentata nel bosco. E il cielo sa se La belle au bois dormant nel 1890 non era stata un grosso successo. Un vero trionfo! Il balletto era stato replicato ben 21 volte nel corso delle 45 rappresentazioni della stagione teatrale.

Che quel successo si potesse replicare, anche se sulla scena apparivano altri personaggi fantastici che non le fate e i principi innamorati di Perrault, il primo a pensarlo e a scegliere quel soggetto era stato del resto lo stesso direttore dei Teatri Imperiali, vale a dire Ivan Aleksandrovic Vsevolovskij, persona degnissima e di buona cultura; colui che nel 1887, facendo indignare i vecchi tradizionalisti, proprio per ringiovanire il balletto aveva soppresso la carica, presso quei teatri, del «compositeur de musique de ballet». Cesare Pugni e Ludwig Minkus, per fare due nomi assai noti ai ballettofili, avevano ricoperto tale incarico.

Dopo la bellissima prova della Bella addormentata, Vsevolovskij aveva intuito che l'«homme nouveau» del balletto russo non poteva essere altri che Cajkovskij. Cosi il «nobile, gentile e colto direttore dei Teatri Imperiali», come con un po' di affettazione lo definisce Petipa nella sue Memorie; aveva capito che il ferro andava battuto fin che fosse caldo. Nessuno d'altronde ci vieta di pensare che in Vsevolovskij ci fosse già un poco della stoffa di un Diaghilev, anche se la stagione dei Ballets Russes doveva aspettare ancora qualche anno per esplodere in tutto il suo fulgore. In più va aggiunto che il volitivo direttore dei Teatri Imperiali con il balletto s'era anche direttamente sporcato le mani. Come pittore. Molti dei bozzetti originali dei balletti ideati da Petipa in quegli anni, compresi quelli della Bella addormentata, portano infatti la firma di Vsevolovskij. Per Lo schiaccianoci ci pensarono invece gli oggi dimenticatissimi M.I. Botcharov e K.M. Ivanov. E furono scene passate alle cronache per la loro bruttezza. Almeno, a stare a quanto ne scrissero i recensori del tempo e alla testimonianza di uno scenografo sommo quale Alexandre Benois, il quale testimonia di «scene stupide, volgari, pesanti e scure...». E fortuna volle che non aggiungesse altri aggettivi più pesanti ancora.

Ma non anticipiamo. E torniamo piuttosto a Petipa, artefice primo della nuova operazione. Anche se è uomo della «vecchia frontiera», anche se a molti appare ormai artista superato (e basta al riguardo leggere quanto dice Bournonville in Ma vie théâtrale dopo il suo viaggio in Russia), è sempre lui l'autoritario zar del Marijinskij.

Cajkovskij poteva benissimo essere un genio, comporre della musica raffinatissima, ma un balletto non è un concerto per pianoforte o una sinfonia, deve seguire delle regole precise. Regole che conosceva alla perfezione solo lui; lui il vecchio e ormai malaticcio Marius Petipa che nel corso della sua lunghissima carriera di coreografo avrebbe consegnato alla storia decine e decine di balletti. Le sue biografie ne elencano ben 57 in quasi ottant'anni di vita, la più parte passata in Russia dove era arrivato nel lontano 1847 quando in Francia regnava ancora Luigi Filippo.

È vero, nelle sue Memorie, a proposito di Schiaccianoci, Petipa sembra quasi sorvolare l'evento. Lo liquida con una frase molto sbrigativa. «Durante gli indimenticabili anni di Vsevolovskij, ogni mio balletto ebbe successo. E ne misi in scena molti... La bella addormentata, Lago dei cigni, Cenerentola, Schiaccianoci». Gli archivi testimoniano tuttavia come il rapporto con Cajkovskij fosse molto deciso, quasi da padre padrone. Un buon balletto, aveva lasciato comprendere fin dai tempi della Bella addormentata, è tale solo se ha dietro di sé un buon libretto. Che poi i fatti lo smentissero (e lo smentiva proprio Schiaccianoci, il cui libretto è piuttosto farraginoso, per lo meno manca di quella clairté francese di cui Petipa si proclamava campione) in fondo gli importava fino a un certo punto.

Proprio per questo poteva permettersi con la sua grafia che incominciava a diventare insicura di mandare tirannici foglietti al compositore. Ecco ad esempio cosa pretende dal 'suo' musicista per il finale del primo atto. «La scena è vuota... Clara rientra. Otto battute ancora più misteriose per l'avanzare di Clara. Due battute per il suo fremito di paura. Poi, otto di musica fantastica ballabile...»

Di fronte a simili Diktat, Cajkovskij certo doveva fremere. Fremere e mandare giù amaro. Però obbediva. Salvo poi sfogarsi scrivendo al fratello Modest di non poterne più. «Non solo perdo i denti, che si rifiutano di fare il loro servizio, non solo i mei occhi si sono indeboliti e si stancano. Ma perdo anche la capacità di fare qualsiasi cosa». E aggiungeva «[Schiaccianoci] è un balletto peggiore della Bella addormentata». Ma questo forse lo diceva solo per via del pessimismo che coglie gli ipocondriaci e gli insicuri, razza cui apparteneva. Non dimentichiamo anche che in quel periodo s'affacciava la composizione di una nuova opera, Yolantha, cui teneva molto.

In realtà Schiaccianoci a poco a poco fini con lo stregarlo. Dietro la storia della piccola Clara e del suo amore irraggiungibile, in filigrana si poteva leggere anche la storia della sua stessa vita. Petipa, se pur con i suoi modi dispotici, aveva fatto bene a stimolarlo.

Quando, all'inizio dell'estate del 1891, il compositore terminò la prima stesura di Casse-noisette, aveva capito che le cose erano andate per il verso giusto. «Ora che ho incominciato Yolantha mi sembra che sia Schiaccianoci ad essere buono e l'opera a venire male...»

Diceva giusto. Quella musica adesso poteva andare libera per il mondo anche se Casse-noisette per nascere veramente aveva bisogno di un'ultima mano. Quella di Marius Petipa. Il destino volle che sul programma di sala della sera del 5 dicembre 1892, quando il balletto andò in scena per la prima volta al Marijinskij, il suo nome però non apparisse. O, almeno, che il suo nome figurasse solo come librettista e non come coreografo.

Nelle settimane precedenti il debutto, infatti, una brutta malattia costrinse a letto il settuagenario coreografo. Tanto che lui stesso, appena iniziate le prove, fu costretto a passare le consegne al suo collaboratore e «maitre en second» Lev Ivanov. E ben fu. Perchè Lev Ivanov, anche se le storie del balletto non sono mai state troppo benevole con lui, aveva talento e fantasia. Forse e più di Petipa stesso, possedeva quel senso lirico ma anche quel tocco ineffabile di poesia capace di sposare in pieno la musica di Cajkovskij e la sostanza della fiaba. Se la coreografia è tutta disseminata di splendide e originalissime danze, anche in più momenti riesce a cogliere alla perfezione quella malinconia che pur domina il balletto. Della sua chiave di lettura, nessuno, anche fra i massimi, che nel nostro secolo ricrearono il balletto cajkovskiano, potè fare a meno di tener conto. Va ricordato ancora, come il finale «pas de deux» fra la fata degli zuccheri e il principe Kohut è uno dei vertici assoluti del balletto classico, traguardo delle più grandi étoiles.

Il caso, si è tentati di dire, per una volta aveva voluto premiare una persona la cui vita era e sarebbe stata sempre nell'ombra. Cresciuto in orfanotrofio, Lev Ivanov era si diventato primo ballerino e successivamente maitre de ballet nei Teatri Imperiali, ma la gigantesca personalità di Petipa non gli aveva mai permesso di emergere. Anche se sempre a Ivanov si deve lo splendido secondo atto del Lago dei cigni, la vita in futuro gli sarà ancora meno benevola. Quasi in miseria e semialcoolizzato, ridotto a fare l'assistente di un men che mediocre maestro di ballo nella ormai sfiorente Pietroburgo dell'inizio del secolo, morirà sessantacinquenne nel 1901, nove anni prima del maestro Marius Petipa. Pochi a ricordarsi che se, come disse Balanchine, «Schiaccianoci è uno dei più bei doni della danza», in gran parte lo si deve anche a lui.

Domenico Rigotti


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD AMJ 0002 allegato al numero speciale 12/2000 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 4 ottobre 1998
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze,
Firenze, Teatro Comunale, 16 novembre 1988

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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2016