Concerto romano per organo e orchestra, op. 43


Musica: Alfredo Casella (1883 - 1947)
  1. Sinfonia
  2. Largo
  3. Cadenza e toccata
Organico: organo, ottoni, timpani, archi
Composizione: Piancastagnaio, 12 luglio - 29 agosto 1926
Prima esecuzione: New York, Concerti Wanamaker, 11 marzo 1927
Dedica: Felice Casorati
Guida all'ascolto (nota 1)

L'apparizione di un'opera di Alfredo Casella nel cartellone di una istituzione sinfonica italiana è un fatto piuttosto raro ai nostri giorni. Infatti sulla cosiddetta "generazione dell'Ottanta" grava una sorta di damnatio memoriae, per la quale compositori, come Pizzetti, Malipiero, Respighi e lo stesso Casella vengono solitamente "dimenticati" nelle stagioni di concerti; forse, almeno in parte, per esorcizzare la loro militanza ideologica e il loro fiancheggiamento politico nel ventennio fascista. In effetti il provincialismo della politica culturale fascista non manca di ripercuotersi nelle partiture dei compositori della generazione dell'Ottanta. A costoro peraltro viene in genere riconosciuto un merito storico, quello di avere riportato in auge la tradizione strumentale italiana, soffocata dal fenomeno del melodramma, nel momento in cui questo degenerava negli esiti del post-verismo (a cui non furono estranei peraltro gli stessi Respighi e Pizzetti). Senonché il recupero degli stilemi barocchi e il ritorno alla tradizione strumentale furono viste in una prospettiva nazionalistica che ne ridusse, e in qualche caso ne vanificò, la spinta riformatrice, facendo clamorosamente mancare i contatti con le avanguardie europee.

Dunque è un ruolo di semplice transizione quello di Casella e Malipiero. Eppure già nel 1962 Fedele D'Amico poteva scrivere: «guardiamoci dal credere che Casella sia semplicemente un anello storico superato, sì che le sue opere abbiano cessato, in quanto tali, di interessarci. (I casi della musica, Il Saggiatore, Milano, 1962, p. 467). Nonostante i limiti del contesto che ne vide la nascita, insomma, anche la musica di Casella merita di venire riproposta ed ascoltata con animo sgombro da pregiudizi. Fra i compositori della generazione dell'Ottanta Casella era certamente quello più aperto verso l'Europa, per la sua stessa formazione, che lo aveva visto studente a Parigi nella classe di Fauré, e per i suoi contatti professionali e di amicizia con tutti i più grandi compositori europei.

Il Concerto romano per organo, ottoni, timpani ed archi, dedicato a Felice Casorati, fu scritto fra il 12 luglio e il 29 agosto 1926 a Piancastagnaio, alle pendici del monte Amiata. Si tratta dunque di un brano che appartiene all'ultimo periodo compositivo dell'autore, secondo una divisione arbitraria e schematica, non priva di riscontri effettivi. Dopo una prima fase di formazione (fino al 1913) e una seconda fase che risente delle influenze più moderniste, quali Stravinsky, Bartók, Schönberg (1913-1920), la terza maniera di Casella si informa a una sorta di neoclassicismo "nazionalistico"; ne sono elementi essenziali il ritorno alle forme strumentali barocche, ma anche la prevalenza del materiale diatonico, il dinamismo ritmico, la linearità delle tessiture strumentali. All'interno di questo generale orientamento il Concerto romano segna peraltro una piccola svolta, un risultato peculiare.

Conviene riportare integralmente il passaggio della autobiografia del compositore riferito alla composizione, per identificare immediatamente le ragioni scopertamente nazionalistiche e quasi politiche, ma anche musicali di questa "svolta".

«Il Concerto romano rappresentava il mio primo tentativo di realizzare uno stile "neo-classico" (come purtroppo si cominciò allora a dire) ma piuttosto barocco nella sua monumentalità. Era del resto legittimo che quello stile - che costituisce tanta parte della magnificenza di Roma — avesse a esercitare una profonda influenza sulla mia arte. Influenza che veniva poi a concordare con quelle di musicisti come Bach e Vivaldi, dei quali ero da tanti anni vero e proprio "discepolo". Quel senso del rilievo nelle masse, nelle sagome, nel chiaroscuro (che in fondo si ricollega direttamente alla maggiore arte romana); quella libertà o fantasia nell'interpretare le forme classiche; quella predilezione per certi violenti contrasti plastici; la grandezza infine di quell'arte così puramente italiana divenuta poi internazionale per la enorme influenza esercitata in tutta Europa: elementi tutti che dovevano determinare prima o poi una forte evoluzione del mio gusto e della mia attività creatrice non solo nel senso di una maggiore reazione all'impressionismo (dai pericoli postumi di questo ero ormai da lunghi anni immune), ma ancora e soprattutto nel senso di una presa di posizione definitivamente contraria alle "seduzioni" del poema sinfonico e di tutto ciò che questa, forma (che non è affatto nostra, ma invece franco-nordica) reca con sé di virtuosistico, di ornamentale e soprattutto di estraneo alla musica. In questo senso il Concerto romano segnava una importante svolta nella mia maniera ed un vasto sforzo verso il raggiungimento di una musica veramente romana». (I segreti della giara, Sansoni, Firenze, 1941, p. 231).

Già la stessa scelta dell'organico strumentale offre una idea del "rilievo nelle masse" voluto dall'autore per conseguire la romanità barocca. Manca completamente infatti dall'orchestra il gruppo dei legni e gli strumenti prescelti possono essere divisi in tre gruppi che si fronteggiano, si alternano plasticamente: un gruppo di ottoni (tre trombe in do, due tromboni tenori e un trombone basso), il gruppo degli archi (più i timpani), e il solista (organo). L'alternanza di sezioni riservate al solista con sezioni orchestrali si richiama palesemente alla prassi del concerto barocco, ma non tutta la composizione risente dei procedimenti di organizzazione formale pre-classici.

II movimento iniziale è introdotto da una Sinfonia ("Lento grave") puramente orchestrale, in una ambientazione misterica che lascia presto il passo all'Allegro vivace ma però poco maestoso; questo segue liberamente lo schema della forma sonata (esposizione, sviluppo, riesposizione), con il ritorno frequente e la trasformazione di un incisivo tema per quinte ascendenti; tutto l'Allegro vivace è animato peraltro da una grande varietà di atteggiamenti e dalla netta separazione di sezioni orchestrali e sezioni solistiche.

Il Largo che funge da secondo tempo è forse la pagina più felice della partitura per la concentrazione espressiva. Alla contrapposizione delle sezioni strumentali corrisponde questa volta anche una contrapposizione tematica, che sembra sanata con l'ingresso del solista ("dolce, calmo") in un lineare intreccio contrappuntistico. Si succedono poi una sezione centrale nettamente dissimile ("Energico e pesante") e una riesposizione. Cadenza e Toccata è l'intestazione del movimento conclusivo, che si apre infatti con una lunga sezione affidata quasi interamente al solista, dal carattere cadenzale e liberamente improvvisatorio. Segue la Toccata propriamente detta, animata, nei suoi vari episodi, da una incessante propulsione ritmica; il movimento si orienta progressivamente verso una trasfigurazione grandiosa, non priva di una certa retorica nei ritmi serrati e quasi marziali e nell'osmosi delle masse foniche.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 1 Dicembre 1991


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Ultimo aggiornamento 8 dicembre 2011