Deuxième Messe solennelle in re minore

per soli, coro e orchestra

Musica: Luigi Cherubini (1760 - 1842)
  1. a. Kyrie - Larghetto (re minore)
    b. Christe - Andante
    c. Kyrie - Allegro moderato
  2. a. Gloria in excelsis Deo - Allegro
    b. Gratias - Larghetto (sol maggiore)
    c. Qui tollis - Andantino. Largo
    d. Quoniam - Allegro moderato (re maggiore)
    e. Cum Sancto Spiritu - Grave. Allegro (re maggiore)
  3. a. Credo in unum deum - Allegro (sol maggiore)
    b. Et incarnatus est - Sostenuto assai [aggiunta di soprano e tenore]
    c. Crucifixus - Andantino (la minore)
    d. Resurrexit - Allegro spiritoso (re maggiore)
    e. Et in Spiritum Sanctum - Larghetto
    f. Amen - Allegro
  4. a. Sanctus - Maestoso (la maggiore)
    b. Hosanna in excelsis - Allegro vivace
    c. Benedictus - Larghetto (do maggiore)
  5. a. Agnus Dei - Allegro moderato (re maggiore)
    b. Dona nobis pacem - Allegro
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, grande orchestra
Composizione: Parigi, 7 ottobre 1811
Edizione: C. F. Peters, Lipsia, 1880 circa
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Se tentassimo di giustificare la nascita della Messa in re minore sulla base esclusiva di quei motivi contingenti che quasi sempre stanno all'origine del far musica di ieri (e, per molti aspetti, anche di quello odierno), il configurarsi alla coscienza cherubiniana di tale grandiosa creazione risulterebbe ancor più enigmatico di quello del celebre Credo a cappella, nato sul banco di scuola e cresciuto via via in decenni di meditazione e di graduale acquisizione formativa di un magistero prodigioso e di uno stile. Ma la suggestiva formula critica che fa, del Credo, una sorta d'intimo diario di viaggio o di lucidissimo zibaldone di idee non altrimenti esprimibili da parte dell'autore di Démophoon, Lodoiska, Médée, Les deux journées, male si attaglia all'immensa partitura che tenne occupato il musicista dal marzo al 7 ottobre 1811 e che dovette attendere una decina d'anni prima di poter essere eseguita, con adattamenti e mutilazioni resi necessari dell'inadeguatezza dei mezzi disponibili, nella cappella reale dei Borboni restaurati. Con la stessa sbadataggine con la quale, cinquantun'anni avanti, aveva scelto la nazione meno adatta ove venire al mondo, Cherubini, sempre pateticamente intempestivo, sceglieva il momento e il luogo meno giusti per porre mano alla più inutile tra le sue maggiori creazioni: proprio quando nessun incoraggiamento ufficiale poteva attendersi da un establishment politico e culturale che si vedeva mirabilmente interpretato in opere di regime quali il Fernand Cortez, e nessuna pratica possibilità di realizzazione immediata poteva venirgli offerta dalle istituzioni concertistiche in vigore. Composta quando la Missa solemnis op. 123 era ancora « in mente Dei » (e men che mai «in mente Ludovici»), la monumentale opera, che sopravanza in lunghezza lo stesso capolavoro beethoveniano e non vanta come dedicatario alcun cardinale arcivescovo di sangue asburgico, si prefigura quindi, dopo la Messa in si minore di Bach, come l'atto più astrattamente soggettivo di una religio individuale nell'ambito di un'espressione artistica, anzi, di un vero e proprio «genere», qual è la Messa concertata, sorta in seno alla tradizionale pratica liturgica dei paesi cattolici come manifestazione di fede collettiva per eccellenza e per definizione.

Apparso alla luce della storia nel momento in cui la musica, discesa sulla, terra e non paga di assistere al dramma degli uomini, vuole anch'essa parteciparvi, Cherubini - che pur tanta parte ha avuto in tale travaglio - si sottrae alla fatalità del conflitto che si scatenerà tra il genio drammatico di Beethoven e l'assolutezza oggettiva delle strutture musicali tradizionali della Messa. Laddove l'Io beethoveniano aggredirà le muraglie della polifonia e le proposizioni di fede dell'Ordinarium con una carica d'individualistico problematicismo che ne porrà in crisi i valori formali e ideologici; mentre Beethoven sembrerà intento ad aprire a viva forza una breccia nel mastio vetusto della fuga per insinuarvi il cuneo disintegratore della dialettica sonatistica, e preoccupato di fare emergere ovunque e comunque la propria voce di uomo singolo sopra quella comunitaria del coro; l'uomo Cherubini pare trovare compiuta espressione di se medesimo nell'identificarsi o, se si preferisce, nel mimetizzarsi in quei valori morfologici oggettivi, la cui dogmatica monumentalità risulta, nella Messa in re minore, ingigantita e insieme sublimata. Proprio in tale superba alienazione di una poetica artigiana, talmente compresa nella realizzazione di una sorta di immaginaria Gerusalemme celeste in musica entro cui rifugiarsi, da perdere completamente di vista l'assemblea dei fedeli, con le sue esigenze liturgiche e le sue limitazioni pratiche, sta, paradossalmente, il significato sostanzialmente individualistico della Messa cherubiniana, il suo atteggiarsi ad ascetica e, pertanto, personalistica vox clamantis in un deserto impreparato ad accoglierla; con quel tanto di luciferino orgoglio che si occulta pur sempre in fondo all'animo di ogni vero asceta.

Come la sorella in fa maggiore che la precede di tre anni, aprendo la serie delle grandi Messe sinfoniche cherubiniane, anche quella in re minore . la più vasta e imponente lasciata dal compositore - non offre speciali «problemi» alla esegesi analitica, riproducendo nelle proprie architetture i tratti tipologici della tradizionale Messa Concertata di tipo classico haydniano-mozartiano, con in meno la presenza di episodi affidati alle singole voci solistiche e in più un radicalismo sinfonico e contrappuntistico d'inusitato impegno. Al pari di tutti gli artisti veramente grandi, Cherubini seppe conferire carattere e volto inconfondibili ad ogni propria creazione, e non diversamente doveva avvenire per la Messa in re minore. La quale, se non ha l'incantevole freschezza e l'immediatezza lirica della Messa di Chimay, trae la sua ragion d'essere dall'integralismo polifonico che investe ogni sua struttura, e non pure gli episodi per tradizione deputati allo sviluppo dei contrappunti corali, ma altresì le sezioni affidate ai soli, normalmente designati a invenzioni di più effusa cantabilità. Un atteggiamento studiato e riflessivo sembra sottrarre i temi alla loro immediatezza d'espressione - così tipica in Beethoven - per immergerli a fondo nel bagno corrosivo dell'elaborazione contrappuntistica e sinfonica, da cui riemergono di volta in volta sempre più scavati e trasfigurati. E il rarefatto lirismo che impronta di sé molte pagine scaturisce, il più delle volte, dall'imprevedibile trattamento cui Cherubini sottopone spunti tematici di elementare semplicità e apparentemente privi di interesse.

Opera animata (se mai altra, tra la maggiore produzione cherubiniana, lo fu del pari) da una essenziale vitalità sinfonica, la Messa in re minore sviluppa un linguaggio orchestrale di un'autonomia spesso assoluta (come avviene nella prima parte del «Gloria», dove agli strumenti è affidato il vero filo conduttore del discorso globale) e di una costante interindipendenza espressiva nei confronti delle voci. Con spunti tematici e ritmici propri, ricorrenti in un capillare e puntiglioso lavorìo di elaborazione sonatistica, l'orchestra è, anzi, «la sede vera in cui si svolge il pensiero deh compositore» (Gonfalonieri); laddove - e vedasi a tal proposito il meraviglioso «Et incarnatus», col doppio choro mottettistico dei solisti, di evidente suggestione rinascimentale - l'acutissima sensibilità timbrica di Cherubini sembra esigere anche dalle voci gli stessi coloriti estatici ed eterei richiesti, giù in orchestra, alle luminose sonorità dei legni spinti nel registro acuto e al pizzicato degli archi. Ancora all'orchestra, la mirabile orchestra cherubiniana che accomuna «peso» e vigore a fluida delicatezza ed è repertorio d'innumerevoli delizie timbriche, è affidato l'esito delle due pagine più impressionanti della Messa: il «Qui tollis», strutturato per intero sul materiale tematico contenuto nel breve preludio, e in particolare sul violento, affannoso inciso a biscrome che si configura come evidente filiazione dell'idea basilare su cui è costruito il «Kyrie» e che apre l'intera Messa; e il «Cruciifixus», dove il canto del coro, ridotto a sillabazione fonematica sopra un immobile «mi» ossessivamente ripetuto, si intende come velo funereo sulla desolata stasi di un ostinato «sempre pianissimo» dei violini con sordina, trapuntato da brevi incisi dei legni, con evidente anticipazione del clima di angosciosa fissità che incombe sulla famosa «scena delle tenebre» del Mosè rossiniano.

Un discorso a parte, squisitamente tecnicistico ed estraneo al carattere di queste note illustrative, meriterebbe poi la genialità dell'armonista, quale si denota in questa come, del resto, in tutte le altre opere del Cherubini maggiore. Non staremo qui, poiché altri lo ha già fatto egregiamente, ad elencare gli accordi peregrini, o sorprendenti, o in anticipo sui tempi distribuiti dal Maestro attraverso le sue grandi pagine; anche perchè, in fondo, non è su siffatte eccezioni che si fonda la perspicuità del suo intuito armonistico, ma sul singolare, personalissimo impiego di una normale gamma di accordi allo scopo di conferire carattere e colorito particolari ad un brano.

Così, per tornare alla nostra Messa, e nella fattispecie a un brano già menzionato, l''«Et incarnatus» esemplare della sensibilità, armonica cherubiniana vi appare il crudo accostamento del timbro puro di accordi perfetti di tonica, dominante e sottodominante di Do (allineati in, concatenazioni di vago sapore modale) a toni lontani raggiunti mediante slittamenti cromatici o ingegnose «transizioni» che, se non fossero cherubiniane, potrebbero definirsi schubertiane. E più avanti, nel quartetto solistico dell'«Et in Spiritum Sanctum», il sistematico risolversi degl'incisi e delle semifrasi sul secondo e sul sesto grado conferisce al brano una patina di arcaica, remota mestizia, come di chi contempli i casi mondani dall'alto e in assorto distacco.

Non casualmente tale sublime pagina, intrisa di casti struggimenti per un passato idoleggiato che traluce nel discreto arcaicizzare dei «ritardi» di cui è disseminata la polifonia orchestrale, si effonde su una proposizione dogmatica attinente la meno umanizzabile e la più velata di teologali nembi tra le Persone trinitarie, anzi che su uno dei misteri cristologici, cari alle acmi patetiche delle Messe romantiche. Tale accendersi dell'ispirazione cherubiniana al contatto di un repertorio atemporale di parole sacre, tanto più suggestive quanto più sgravate dal troppo umano (e andrebbe ricordato di nuovo il radioso primo «Allegro» del «Gloria», con la sua rigorosa struttura bitematica, e il Kyrie, dalla prodigiosa proliferazione polifonica rigenerantesi sull'iterazione della nuda invocazione liturgica e culminante nella possente fuga tonale conclusiva) apre uno spiraglio sul mistero di una fortissima individualità artistica votatasi alla più scontrosa e malinconica impenetrabilità e alla tutela un poco maniacale di una «scuola» che i contrappunti della Messa in re minore, con le loro «quinte parallele» e le loro innumerevoli «licenze» mettono, a dir poco, in non cale. In realtà, nel catalogo dove il vegliardo andò via via elencando le proprie opere con minuta e sempre più tremula calligrafia, il progressivo diradarsi dei titoli profani, quasi interamente sopraffatti, alla fine, dalla mole delle musiche religiose; lo stesso itinerario che nel campo dell'opera doveva portare l'autore di Lodoiska e di Médée alle purificate e assorte visioni di Anacréon e de Les Abencérages richiedono una spiegazione che va oltre le ovvie contingenze della routine professionale. Una risposta che cercheremo invano tra le poche carte non musicali dell'acre Fiorentino, e men che mai troveremmo nei Quaderni di conversazione di chi, meditando di comporre un Requiem ad immagine e somiglianza di quello cherubiniano, guardava all'enigmatico italiano come il dubbioso guarda a colui il quale ambulat in lege Domini.

Giovanni Carli Ballola

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Avvicinarsi ad un'opera di Luigi Cherubini ha significato, si può dire fin quasi ai nostri giorni, scegliere un fronte: la frase rabbiosa di Hector Berlioz, che pur ha avuto per lui momenti di grande ammirazione, è rimasta famosa: «il più accademico di tutti gli accademici passati, presenti e futuri». E per molto tempo ha fatto scuola, diventando la bandiera di una diversificazione fra «conservatori» e «progressisti». Davvero una sorte curiosa, che accomuna Cherubini, del resto — negli scritti di qualche Don Ferrante della critica — proprio al suo più estroso accusatore, Berlioz appunto, contro il quale c'è chi si accanisce come se ancora stesse pubblicando le sue sferzanti pagine di diario, i suoi saggi critici e la sue note polemiche contro le folle dei filistei. Dietro Berlioz, insomma, il fronte dei «novatori»; dietro Cherubini quello dei «reazionari», fin quasi a tempi recentissimi, anche se mutavano le prospettive critiche fino a contraddirsi le une con le altre, a vicenda.

Basta scorrere le cronache della riesumazione milanese, nel 1909, dell'opera «Medea»: in un momento di massimo trionfo delle propaggini del verismo, le vigorose, calibratissime pagine di Cherubini sembrarono documenti di un teatro lontano, «accademico»; e ci vollero ancora quasi cinquant'anni prima che, al «Maggio» fiorentino, si ritentasse l'esperimento di una verifica di questo capolavoro. E anche in questo caso, con protettori di Cherubini come Confalonieri e Lualdi, i «fronti» contrapposti sembrarono riformarsi; solo che le accuse di accademismo vennero, allora, dai denigratori del movimento verista, dai seguaci della «generazione dell'Ottanta», dagli ammiratori del «nuovo corso» della cultura musicale europea che facevano capo a Schoenberg e alla sua scuola. Ed è un vero peccato che non ci sia rimasta anche soltanto una frase del grande maestro viennese su Cherubini; perché probabilmente vi potremmo trovare, invece, impensate affinità, e forse perfino simpatia, nei confronti del vecchio direttore del Conservatoire di Parigi.

La sorte critica di Cherubini è questa, piena di contraddizioni. Di fatto, ai primi dell'Ottocento, erano stati proprio i «rivoluzionari» ad ammirare il maestro fiorentino: Beethoven nel 1823 gli scrisse quasi con la devozione di un allievo («io La amo e La venero»); e poco dopo lo stesso Schumann, impegnato in un severo vaglio critico di tutta la civiltà musicale italiana del suo tempo, lo chiamò «il secondo dei maestri della musica moderna» dopo Beethoven. Per non ricordare poi il giudizio di Brahms, alcuni decenni più tardi, che paragonò «Medea» addirittura a «Tristano e Isotta» di Wagner, non senza una contingente forzatura polemica. Ma anche ai suoi illustri ammiratori (come pure ai suoi detrattori) sfuggf in sostanza l'opportunità di collocare Cherubini nel suo più autentico contesto culturale: si fece il nome di Gluck come di un ideale modello del maestro italiano; ma pochi pensarono a quelle che Gianandrea Gavazzeni chiamerebbe le sue «ragioni native»: l'esser nato a Firenze, l'aver assimilato profondamente fin dall'infanzia, con l'accanimento e la sicurezza di un duro apprendistato, i caratteri distintivi di una civiltà, superba ed inquieta, intrisa di una misteriosa dialettica di vita e di morte, razionale e malinconica, consapevole — con le parole di Michelangelo — che la tristezza è la molla del fare e del creare, e quindi l'approdo su cui si placano gli interni tormenti.

Figlio d'arte (suo padre era maestro al cembalo al Teatro della Pergola), Cherubini ebbe fin dai primi anni consapevoli dell'infanzia la possibilità di assimilare una situazione culturale che nella Firenze»» della seconda metà del Settecento consentiva di sperimentare giorno per giorno la continuità di un irradiarsi, europeo, dall'Italia verso le nazioni del Nord, di una tradizione che aveva alle spalle le ultime propaggini di un gusto polifonico di derivazione palestriniana, ma anche le emozioni di uno strumentalismo diventato ormai senza confini, con gli italiani in primo piano. Aveva otto anni, nel 1768, quando si dette a Palazzo Pitti la prima esecuzione in Italia del «Messia» di Haendel; è quasi certo che nel 1769 sentì suonare l'illustre violinista Pietro Nardini e che l'anno successivo fu presentato a Mozart, alla vigilia del suo concerto come clavicembalista. Per cui non è una forzatura di dati e di riferimenti supporre che qualcosa delle impressioni ricevute a Firenze, con l'incidenza bruciante che hanno i ricordi della fanciullezza (e di una fanciullezza sotto il segno del prestigio, perché Cherubini, come Mozart, era celebre come compositore e come organista quando aveva poco più di dieci anni), sia restato anche nello scontroso e controverso Cherubini degli anni di Parigi, e che la sua «nevrosi» non sia stata che la sotterranea tensione di una sorta di sradicamento, che poteva placarsi soltanto quando nella musica si realizzava inconsapevolmente quel bisogno di rigore formale, dì incisività di tratti, di durezza di sbalzi plastici e di raffinata cura dei particolari (ma senza decorativismo) che sono tipiche dell'arte fiorentina e di una civiltà di «visivi».

Confalonieri, che resta il più acuto degli studiosi di Cherubini, cercò di spiegare la sua «personalità maggiore» ipotizzando in lui due personalità «sussidiarie», per cosi dire, «quella scientista e quella pittorica». Ma per spiegare la nera malinconia del Cherubini parigino — quel suo riottoso chiudersi in sé a collezionare erbe e fiori, e quella sua tenace volontà di impadronirsi della tecnica della pittura, fin quasi a sperare di farne la sua professione, abbandonando la musica — basta pensare, appunto, alle sue «ragioni native». E allora si capisce come egli si avvìi ad esprimere «il nuovo misticismo romantico, composto di drammatiche aspettative, di slanci affermativi e di perplessità aggravate nel superbo ascendere della scienza» (Confalonieri). E si capisce anche perché queste intuizioni, viste nella loro attuazione formale, nel rigore di implacabili strutture, in un continuo ed ostinato bisogno di chiarezza grafica (come in bianco e nero, che è poi di tutta l'arte fiorentina), siano potute apparire giuoco accademico, e quasi un negarsi alle effusioni di una libera fantasia, quando in sostanza era il realizzarsi in poderosi diagrammi architettonici di un'inquietudine, di una religiosità e di una sotterranea malinconia.

Per avviarsi all'ascolto della «Messa in re minore» (composta nel 1811, all'inizio dell'ultima disperata stagione creativa di Cherubini) conviene dunque collocarla in un contesto culturale ed emotivo che rimanda, in sostanza, proprio a Firenze e alla sua civiltà: è un momento della fantasia di Cherubini non estraneo ad orgogliose affermazioni di trionfalismo ecclesiale (in contrasto con gli accenti che ritroveremo, ad esempio, nel «Requiem in re minore» del 1836, scritto per i propri funerali), ma è anche il coerente riallacciarsi alle lezioni polifoniche di ascendenza palestriniana che egli aveva assimilato in gioventù. Ma non con l'animo del «conservatore»: semmai come una sfida orgogliosa alle generazioni più giovani, avviate ad un sentimentalismo che poteva già apparirgli generico, mentre qui non c'è battuta che non sia sotto il segno di un vigoroso «fare» architettonico, con audaci e calcolate campiture armoniche, con desuete invenzioni dinamiche. Il modulo della Fuga, tante volte ricorrente, diventa accentuazione e accensione di contrasti; né si affievolisce mai una «teatralità», che coglie il cuore stesso delle parole sacre — come nello stupore terribile del «Crucifixus» — riconfermando l'unicità di un linguaggio espressivo dove la fiducia in una grandiosa comunità di credenti (senza distinzione fra quel che avviene dentro e fuori delle navate delle chiese) di fatto intuisce, e proprio nella pienezza non dissimulata di un sinfonismo di amplissima tenuta, nuove stagioni poetiche dell'anima occidentale.

Leonardo Pinzauti

Testo

KYRIE

Kyrie eleison, Kyrie eleison, Kyrie eleison.
Christe eleison, Christe eleison, Christe eleison.
Kyrie eleison. Kyrie eleison, Kyrie eleison.

GLORIA

Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe, Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Qui tollis peccata mundi, miserere nobis, suscipe deprecationem nostram. Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis. Quoniam Tu solus sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, Jesu Christe. Cum sancto Spiritu, in gloria Dei Patris. Amen.

CREDO

Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium; et in unum Dominum Jesum Christum, Filium Dei Unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula, Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri, per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est; crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus et sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum scripturas, et ascendit in coelum, sedet ad dexteram Patris; et iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cujus regni non erit finis.
Credo in Spiritum Sanctum Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoralur et conglorificatur, qui locutus est per Prophetas. Et in unam sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma, in remissionem peccatorum. Et expecto resurrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi. Amen.

SANCTUS

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.

BENEDICTUS

Benedictus Qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.

AGNUS DEI

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 24 febbraoio 1974
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 11 ottobre 1975


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Ultimo aggiornamento 10 aprile 2019