Il 29 aprile 1825 nella cattedrale di Reims si svolse la cerimonia che agli occhi dell'Europa della Restaurazione sarebbe dovuta apparire come l'apoteosi del legittimismo e il suggello di una promessa regale: quella per la quale l'età ferrea della Rivoluzione e del despotismo napoleonico non sarebbe mai più tornata, auspice una dinastia ravveduta dal dolore e da tanto sangue. Se lo scettico e cauto Luigi XVIII aveva intenzionalmente rimandato sine die l'epifania solenne di una precaria regalità ripristinata dalla diplomazia di Vienna sulla stanchezza e sulla volontà d'illudersi di una nazione vinta, il più ingenuo Carlo X l'aveva accuratamente predisposta con l'entusiasmo di un Delfino di sessantasette anni che giammai, quando ancora si chiamava Conte di Artois e regnava lo sciagurato fratello primogenito, si sarebbe sognato di cingere un giorno la corona dei Capetingi. Nell'aulica cattedrale eletta a tempio di Giano di un'incerta pax gallica, venne dunque allestita la coreografica cerimonia nel corso della quale Carlo X sarebbe stato redimito secondo l'antico rituale dei sovrani di Francia. Dell'apparato musicale fu affidato la cura a Lesueur, che compose due mottetti, e, come di diritto e di dovere specifici, a Cherubini, sovrintendente alla Cappella Reale, incaricato di scrivere la Messa di circostanza.
Questa Messe du Sacre per coro a tre voci (con l'esclusione dei contralti, come nella precedente Messa di Chimay) e grande orchestra, nasce contrassegnata dai tratti peculiari alle altre composizioni cherubiniane destinate all'ufficiatura della Cappella reale: proporzioni generalmente contenute entro prescritti limiti di durata, impiego facoltativo dei soli, cauto dispiegamento di complicazioni polifoniche per quanto concerne il trattamento delle voci, rinuncia a quanto di troppo avventuroso, visionario e «personale» s'impone all'attenzione in capolavori quali la già menzionata Messia di Chimay (1808) e la Messa solenne in re minore (1811), scritti da Cherubini con l'animo rivolto più alle voci intime del proprio demone, che al rituale del porporato celebrante o all'inginocchiatoio della famiglia reale. Mentre nella Missa Solemnis beethoveniana e nelle Messe di Schubert si stabilivano rapporti ormai irreversibili tra oggetto liturgico e soggettività espressiva del compositore, Cherubini, che pure tali rapporti aveva tacitamente ma non meno sostanzialmente posto in crisi nei due grandi lavori precedenti (cui va aggiunto almeno il celebrato Requiem in do minore del 1815), tenta qui l'impossibile sforzo di restaurare l'angelico artigianato cerimoniale di Haydn e di Mozart, felici decoratori musicali in gara con gli architetti e gli stuccatori della Cappella degli Esterhàzy e del Duomo di Salisburgo.
Né l'aggettivo «angelico» ci è uscito di penna per letteraria smanceria; che la maggiore e miglior parte delle tarde composizioni cherubiniane destinate al culto dei Borboni restaurati, realmente si muove in una rarefazione lirica assorta e distaccata, librandosi tra compiacimenti calligrafici da codice miniato e una sublime sprezzatura tecnica che ha assimilato l'antica virtuosità in strutture di una semplicità ancor più protervamente magistrale.
Di tale classicismo immaginario, dove il segno più profondo è il sentimento del vuoto non dissimilmente dal Platen o dal Leopardi più glaciale, la Messe du Sacre è tocca, ma non dominata. Lungi dal precludersi ogni speranza futura - che è l'essenza del classicismo, condannato a esistere imperfettibile e immortale come un dio - essa anzi ambisce a redimersi sull'altare del secolo, a disperdere le proprie ceneri nelle onde della Romantik. Ciò spiega gli entusiasmi di Schumann e di Berlioz (quest'ultimo non certo sospetto di eccessivo amore per il Fiorentino); e spiega anche perché mai un'opera, come la Messe du Sacre, in apparenza meno impressionante d'altre pagine sacre cherubiniane, abbia suscitato eco sì vasta e concorde di consensi.
Non basta, a spiegare la conclamata «modernità» del lavoro, il fatto che in esso non appaia traccia alcuna di quegli stilemi settecenteschi che erano già divenuti segno manieristico nelle più levigate pagine dettate in quel torno d'anni per il servizio della Cappella e che erano stati mantenuti in vita - e con quanto pervicace amore - sin tra le pieghe delle strutture tutt' altro che passatistiche delle Messe in fa e in re minore. Una ragione di fondo va ravvisata, ed è ragione squisitamente romantica: lo spostarsi cioè, in questo Cherubini della senilità, del baricentro dai parametri del segno a quelli del colore. Tale prevaricazione dei valori timbrici risulta, com'è ovvio, imbrigliata e castigata cherubinianamente entro gli argini di un ordito tematico talora ridotto a poco più di un supporto, nell'ambito di quella scrittura essenzializzata e quasi spoglia cui si accennava sopra. Talora, come nel «Gratias» del Gloria e in certi incisi lapidari del Credo («Et unam sanctam catholicam») l'orchestra si oppone alla compagine corale in campiture basate sul semplice contrasto di masse e di timbri; talora l'estrema rarefazione del materiale tematico, pur senza rinunziare a una propria caratterizzazione melodica, viene catturata dai colori strumentali e vocali in pagine di purificata trascendenza lirica, quali il breve, bucolico «Et incarnatus» e i due Mottetti dell'Offertorium e dell'O salutaris hostia. Vi è poi da ricordare, tra le cose «memorabili e potenti» che impressionarono Schumann, il fenomeno, flagrantemente romantico, dei campi armonici investiti di funzionalità timbriche: che da tale risorsa, ad un tempo modernissima e antichissima (ed anche questo è tratto eminentemente cherubiniano) trae vita il pathos velato ed oscuro del «Crucifixus».
Sull'altro versante, quello di un classicismo teso nell'aspirazione ad un'atemporalità stilistica, rifugio e salvazione dal secolo nonché dagli agguati dei demoni interni, il timbro ridiviene splendido ornamento. La pura gioia auditiva dell'intreccio delle voci e dei legni, la idealizzata scansione cerimoniale del Kyrie tende allora a far tutt'uno con i gigli d'oro del manto regale e con quelli candidi dell'altare; con la vana e sottilmente disperata illusione di fermare il tempo che tutto consuma e di nulla ha pietà: men che mai di quel sacre, pateticamente inutile, del superstite fratello di Luigi Capeto. Forse a questo pensava il meditabondo Cherubini, e quella che sarebbe dovuta essere una Messa risonante di pompa festiva, gli uscì di mano intrisa da capo a fondo di un'attonita, raggelata tristezza, culminante in quell'Agnus Dei che, con l'immobile circolarità della sua figurazione orchestrale e gl'ingannevoli miraggi delle sue alternanze fra «maggiore» e «minore», è impressionante preludio ai pensieri neri di Brahms. Vero Requiem per il Borbone restaurato, la Messe du Sacre non poteva non concludersi che con una marcia funebre scritta per un vivo: spettrale nella incorporea trascendenza della sua veste sonora che tanto impressionò Berlioz; e agghiacciante nella sua soave gestualità coreografica da epicedio.
Giovanni Carli Ballola