Requiem in do minore

per coro e orchestra per l'anniversario della morte di Luigi XVI

Musica: Luigi Cherubini (1760 - 1842)
  1. Introitus - Larghetto sostenuto
  2. Graduale - Andantino largo
  3. Dies Irae - Allegro maestoso
  4. Offertorium - Andante
  5. Sanctus - Andante
  6. Pie Jesu - Larghetto
  7. Agnus Dei - Sostenuto
Organico: coro misto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, tam-tam, archi
Composizione: Parigi, 1816
Prima esecuzione: Parigi, Saint Denis, 21 gennaio 1817
Edizione: Luigi Cherubini, Parigi, 1820 circa
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Composto nel 1815 per volere di Luigi XVIII (in onore del fratello Luigi XVI giustiziato vent'anni prima), il Requiem fu eseguito nella chiesa di St. Denis a Parigi il 21 gennaio 1816. La partitura impressionò particolarmente i coevi e divenne modello per i compositori, che ne apprezzavano la scrittura elegante, l'intrinseca mestizia, nonché l'assenza di un deprecabile tono celebrativo. Più di quello di Mozart, il Requiem di Cherubini piaceva a Beethoven che affermava: «Un Requiem deve essere una commemorazione malinconica dei morti. [...] Deve essere una musica calma; non c'è bisogno della tromba del Giudizio: la commemorazione dei morti non richiede strepito». Cherubini, dunque, sceglie il tono solenne e distaccato di una composizione scritta per l'umanità, rifuggendo da accenti patetici o malinconici che avrebbero conferito un carattere intimo, estraneo alle idee del compositore. Del resto non compaiono voci solistiche, perché la loro presenza avrebbe interrotto l'effetto della collettività in preghiera, concentrando troppo l'attenzione su singoli elementi, mentre è il "tutto", la dimensione antisoggettiva che stanno alla base della composizione. Come afferma Degrada, «a differenza della musica dei giovani compositori romantici che tanto l'ammiravano, la musica di Cherubini non allude mai: afferma. Essa è la concretizzazione di un mondo di idee organizzato in una visione dell'arte e del mondo che ha una saldezza granitica e che viene esibita con un rigore morale e una fermezza che potevano suggerire a Robert Schumann il paragone con Dante».

Introitus et Kyrie

Pur rinunciando al timbro dei violini, il compositore costruisce la partitura affidando all'orchestra la parte cantabile (nel mirabile impasto tra fagotti e violoncelli), e al coro un ruolo quasi di accompagnamento, fascia sonora che solo raramente si innalza dal registro medio. Tutto ciò concorre a creare il colore scuro che segna l'apertura e domina buona parte della composizione. Il linguaggio è scarno, le armonie "povere", tutta l'attenzione si concentra dunque sulle parole, scandite e ripetute, sempre chiare e mai confuse da artifizi contrappuntistici.

Graduale

Separato armonicamente, ma naturale appendice dell'Introitus, il Graduale riduce ancora di più le forze in campo, un effetto di assottigliamento il cui scopo è quello di far risaltare l'impatto del «Dies Irae».

Dies Irae

Un colpo di tam-tam, dopo gli squilli degli ottoni, dà il via alla descrizione del giudizio universale: un inizio molto teatrale che ricorda certe esplosioni di temporali nel melodramma ottocentesco, anche per l'uso degli archi (compresi i violini) che hanno veloci note ribattute in pianissimo. Il senso incalzante del ritmo è inoltre accentuato dal semplice espediente di far cantare al coro una medesima melodia spostando però l'attacco degli uomini una battuta dopo quella delle donne. Si innesca così un "inseguimento" che, pur nella sua evidenza, non manca di creare una certa tensione; l'implacabile meccanismo travolge il «Tuba mirum» e si placa solo al «Salva me» per poi riprendere, ancora più frenetico, al «Confutatis maledictis». Le varie parti della lunga sequenza («Dies Irae», «Tuba mirum», «Rex tremendae», «Salva me», «Recordare», «Confutatis maledictis», «Voca me», «Oro supplex», «Lacrymosa») oltre a questo tratto comune nell'uso del coro, sono assecondate in tutte le pieghe del testo in modo quasi didascalico: dalla solenne fanfara del «Tuba mirum» si passa alla preghiera accorata del «Salva me». L'ira del «Confutatis» trova la giusta espressione nelle risorse del contrappunto, mentre la fiducia nella salvezza eterna («Lacrymosa») si riflette nella pacata armonia del canto, poggiata su una fascia orchestrale quasi trasparente ed immobile.

Offertorium

Si ripete lo schema già collaudato dell'Introitus, con l'orchestra che torna a muoversi e a cantare mentre il coro scolpisce le parole con un solenne andamento omoritmico. Al versetto «Quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus», Cherubini, in ossequio ad una tradizione consolidata, imposta una fuga magniloquente, prova significativa della sua fama di abile contrappuntista. Anche in questo caso però l'architettura salvaguarda la comprensibilità del testo e dove le parole si sovrappongono Cherubini le ripete finché non siano emerse in tutta la loro pregnanza.

Sanctus

L'orchestra al completo (con trombe, tromboni e corni sempre in evidenza) ed il coro quasi sempre nel registro medio-alto, rendono imponente e sfarzosa la celebrazione della gloria divina in questa breve ma intensa pagina. Il metro ternario conferisce inoltre una fierezza che trova la logica conseguenza nell'invocazione «Hosanna in excelsis», perfetto esempio di concordanza tra testo e musica.

Pie Jesu

La preghiera per le anime defunte diviene, tra le mani del compositore, un'elegante melodia che si snoda per otto battute e ritorna più volte tra le varie voci, un leitmotiv sapientemente costruito per imprimersi nella memoria dell'ascoltatore. L'orchestra accompagna sempre in pianissimo come se non volesse "disturbare" il movimento delle voci, e solo qua e là clarinetti e fagotti impreziosiscono la partitura con la loro particolare sonorità.

Agnus Dei

Il coro implora la pace eterna, e l'Agnello di Dio viene invocato per tre volte con grande energia. Cherubini alterna in modo netto forte e piano e, dopo aver infiammato la parte centrale («Lux aeterna»), nel finale in pianissimo si allontana dalla preghiera esteriore, quella declamata, per concentrarsi sul silenzio dell'interiorità che mano a mano dilaga nella partitura.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Il Requiem [in do minore] è nel suo insieme - a mio parere - il capolavoro di Cherubini; nessun'altra opera di questo grande maestro può sostenere il paragone con questa, per l'abbondanza delle idee, la vastità delle forme, la sublimità dello stile, e se non fosse per la violenta fuga su un frammento di frase privo di senso: quam olim Abrahae promisisti, bisognerebbe aggiungere per la costante verità d'espressione. L'Agnus in decrescendo sorpassa tutto quello che in questo genere è stato tentato; è il graduale spegnersi dell'essere sofferente, lo si vede estinguirsi e morire, lo si ascolta spirare. Lo stile in questa partitura ha d'altra parte un pregio inestimabile: il suo tessuto vocale è serrato, ma chiaro, la strumentazione è varia, potente, ma sempre degna del suo oggetto».

Così scriveva Hector Berlioz nell'Esquisse biographique di Cherubini pubblicato nel 1842 in occasione della morte del grande maestro italiano e successivamente accolto nel volume Les musiciens et la musique (Paris, 1903, pp. 36-37). Dinanzi a questa partitura che è forse davvero l'opera più alta mai scritta da Cherubini, anche Berlioz, che fu il suo antagonista più feroce e implacabile, si inchinava ammirato. Del resto anche Beethoven, che stimava Cherubini come il più grande musicista vivente («Vous resterez toujours celui de mes contemporains que je l'estime de plus», gli scriveva infatti nel 1823) dichiarava due anni più tardi di preferire il Requiem di Cherubini al Requiem di Mozart («Un Requiem deve essere una commemorazione malinconica dei morti; con il Giudizio Universale non c'è da fare delle piacevolezze»; e ancora: «Deve essere una musica calma; non c'è bisogno della tromba del Giudizio. La commemorazione dei morti non richiede strepito»).

Scritto nel 1816 a Parigi per la Cappella Reale dei Borboni (che Cherubini dirigeva di fatto dal 1814) per commemorare nella cornice di una cerimonia privata di corte l'anniversario della decapitazione di Luigi XVI, questo Requiem - come aveva visto giusto Beethoven, e come più tardi ribadirà Johannes Brahms - è opera di macerata introspezione e di tono estremamente composto e contenuto. Una profonda meditazione sul senso della morte, fuori di ogni schema e di ogni apparato convenzionale: un dialogo a tu per tu con Dio.

La massima introversione del discorso comporta l'eliminazione dei soli: è il coro, sostenuto dal suono cupo, velato, svariante in una ricchissima gamma di sfumature tra il grigio e il cinereo, a campeggiare per l'intera durata della composizione: voce di un compianto che si nega alla drammaticità soggettiva del canto solistico (con le sue prevedibili movenze concertanti e le inevitabili proiezioni melodrammatiche), affidandosi a uno stile polifonico «osservato», esemplato sui grandi monumenti della polifonia rinascimentale e barocca. Il contrappunto cherubiniano non ha in realtà nulla di scolastico o di accademico: è espressione di un linguaggio vivo, segnato da una vena di rimpianto per una stagione aurea della musica europea, strumento d'elezione per un musicista che aveva polemicamente reciso i legami con la propria epoca, isolandosi in una volontaria, scontrosa e tragica solitudine. Ma è proprio l'intensità di compromissioni umane che questo sguardo nostalgico sul passato ha in sé (quel passato che andava risorgendo come vivo stimolo nella tarda produzione di Mozart e nella estrema, visionaria stagione creativa di Beethoven) a situare il linguaggio di Cherubini in una zona niente affatto defilata, nella sostanza, dalle più impegnate esperienze contemporanee. Anche perché, a ben vedere, la ricchezza del mondo espressivo e delle forme stilistiche cherubiniane (incluse quelle tearali) non è negata o recisa, quanto piuttosto filtrata e depurata, eppure in ogni momento ben presente, in un gioco continuo di rimandi e di allusioni, nel quale ogni gesto assume, nel contesto di supremo autocontrollo e di ferrea autodisciplina della scrittura, un massimo di evidenza significativa.

Francesco Degrada

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nel 1815 Luigi XVIII, re di Francia restaurato dopo il tumultuoso periodo rivoluzionario e napoleonico, chiama Cherubini a dirigere la sua cappella musicale. Il re, volendo rendere omaggio al fratello giustiziato vent'anni prima con tante altre vittime della Rivoluzione, dispone che ogni anno il triste anniversario venga ricordato con funzioni religiose. Per la seconda commemorazione, che cade all'inizio del 1817, l'incarico di comporre una messa funebre è affidato a Cherubini; nasce così il Requiem in do minore, che il 21 gennaio, alla presenza di autorità e dignitari, è eseguito nella chiesa parigina di St. Denis, dove già i rivoluzionari avevano fatto scempio delle ossa dei re di Francia. La composizione del Requiem, dunque, è legata a circostanze gravide di emozione; tuttavia Cherubini trascende l'occasione contingente, fornita dalla commemorazione del re defunto, per attingere a una dimensione superiore, a una commozione di natura universale. La celebrazione dell'anniversario, nelle intenzioni del nuovo re, è aliena da ogni spirito di rivalsa; così il compositore dà voce alla volontà generale di riconciliazione e informa la sua opera a un distacco, a un tono nobile e solenne nei quali si riflette il perfetto carattere di universalità del suffragio. In quanto espressione autentica di una collettività, il Requiem in do minore rinuncia alle voci soliste per limitarsi solo al coro; e anche in orchestra mancano interventi strumentali solistici di rilievo. La concentrazione espressiva di quest'opera fece grande impressione sui contemporanei, che considerarono il Requiem cherubiniano un modello esemplare; il lavoro si guadagnò l'incondizionato apprezzamento, fra gli altri, di Beethoven, Schumann e Berlioz (quest'ultimo assai severo, peraltro, nei confronti del musicista fiorentino). I primi due brani del Requiem sono informati a un medesimo atteggiamento meditativo. L'Introitus et Kyrie introduce il sentimento dominante: quella pietas, quella compassione per un'umanità sofferente che eleva l'opera intera al disopra della dimensione terrena; il linguaggio è scarno, l'accompagnamento essenziale, il colore scuro (gli archi rinunciano ai violini, e i soli fiati che intervengono sono corni e fagotti). Un tema intensamente espressivo si snoda a partire dal registro grave di fagotti e violoncelli e risponde costantemente alle suppliche del coro. Toni più sommessi e pacati caratterizzano il Graduale; il colore strumentale, qui, è ancor più essenziale (le voci sono sostenute dai soli archi privi dei violini, con le viole divise in due sezioni). La scrittura è moderatamente imitativa, le voci si mantengono in un registro medio.

Interviene ora la descrizione del giorno del giudizio universale, il Dies Irae. Le parole dell'antica sequenza, che nelle messe funebri sostituiscono il Gloria e il Credo, toccano parecchi temi biblici e suggeriscono una grande varietà di immagini e sentimenti; su tutto domina il terrore ispirato dalla collera divina, che Cherubini rende - pur con un linguaggio essenziale, che non indulge a mezzi puramente esteriori - con senso potente del dramma. Gli squilli iniziali degli ottoni culminano in un colpo di tamtam, il cui colore esotico richiama alla mente remote epoche bibliche; prende poi il via un moto incessante dagli archi, perfetta espressione dell'inquietudine delle anime chiamate al giudizio, sul quale entra il coro, che scolpisce le parole declamandole come in un recitativo teatrale. Le entrate a canone restituiscono con efficacia l'immagine del terrore profondo. La fanfara solenne del «Tuba mirum» e del «Rex tremendae» contrasta con l'espressione accorata e intensa del «Salva me» e con l'ampia sezione centrale del brano, il «Recordare». Il testo rammenta la passione di Cristo: il tono, perciò, si fa intimistico; su un motivo degli archi, che fornisce un sostegno continuo, si dispiega il canto lirico delle singole voci corali, che si alternano come solisti.

Di nuovo, il terrore dell'ira divina prende il sopravvento: i tremoli degli archi e il fitto gioco contrappuntistico delle parti, nel «Confutatis maledictis», restituiscono lo scompiglio che domina le fila dei dannati; finché l'invettiva si rovescia nei toni imploranti di «Voca me» e nella pacatezza di «Oro supplex». La sezione conclusiva, in tempo più moderato («Lacrymosa»), è il lungo canto commosso delle anime fiduciose nella salvezza eterna. I suoni tenuti dei fiati e le distese figure d'accompagnamento degli archi creano uno sfondo timbrico trasparente, sul quale il lirismo del canto restituisce il senso di un'armonia celestiale e fuori dal tempo.

Dalla dimensione visionaria del Dies irae, l'Offertorium riconduce a quella terrena. La fiducia nella maestà divina espressa dal primo versetto si traduce in accenti enfatici e magniloquenti; il coro, in rigoroso andamento omoritmico, declama solennemente le parole del testo. Il secondo versetto suggerisce due immagini fortemente contrastanti: alle parole «ne cadant in obscurum» i tremoli degli archi e lo spostamento delle voci nell'estremo registro grave ritraggono le regioni infernali, mentre al «Sed signifer» la trasparenza della strumentazione (si rincorrono incisi dei legni, dei violini e delle viole), l'estromissione dei bassi dal coro e lo spostamento generale sui registri acuti suggeriscono la luce delle regioni angeliche. Le parole «Quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus», che richiamano la promessa fatta ad Abramo, offrono tradizionalmente lo spunto per una fuga: il concetto della proliferazione della razza umana si realizza, in musica, in quel grande edificio sonoro che nasce dalla germinazione di una piccola cellula, continuamente riproposta e trasformata mediante gli artifici del contrappunto. Cherubini edifica perciò, nella parte centrale dell'Offertorium, una fuga di vaste proporzioni, nella quale fa brillare le sue doti di sommo contrappuntista. Svanita la magnificenza sonora di questa sezione, si fa ritorno al tono più raccolto di «Hostias et preces», dove risuonano di nuovo gli accenti di un'umanità timorosa e supplicante.

Le parole di lode del Sanctus si traducono in un'imponente e sfarzosa celebrazione musicale della gloria divina, appena interrotta dal breve e contrastante Benedictus con frasi dall'atteggiamento fidente.

Di nuovo, gli accenti dominanti si ispirano alla pietà universale: il Pie Jesu è il canto che implora la pace per le anime defunte; un senso di sospensione, una scrittura diafana, un accompagnamento strumentale scarno sostengono un canto lineare, semplice, dall'altissima intensità espressiva.

Con una triplice perorazione si apre l'ultima pagina del Requiem, l'Agnus Dei: per tre volte il coro implora la pace eterna per le anime dei trapassati. Gli accenti, che si fanno sempre più accorati con la grande intensificazione dinamica ed espressiva della parte centrale, giungono gradualmente a calmarsi, finché una coda conclusiva introduce un'atmosfera nuova: con effetto di dissolvenza il volume decresce al pianissimo, il coro si arresta a scandire un'unica nota, mentre la comparsa improvvisa del modo maggiore produce l'effetto di un raggio di luce ultraterrena.

Claudio Toscani

Testo

1. - INTROITUS

Requiem aeternam dona eis, Domine; et lux perpetua luceat eis.
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et ubi reddetur votum in Jerusalem; exaudi orationem meam; ad te omnis caro veniet.

Requiem aeternam dona eis, Domine; et lux perpetua luceat eis.
Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison.

2. - GRADULE

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis; in memoria aeterna erit Justus, ab auditione mala non timebit.

3. - DIES IRAE

Dies irae, dies ilia,
Solvet saeclum in favilla,
Teste David cum Sibilla.

Quantus tremor est futurus,
Quando Judex est venturus,
Cuncta stricte discussurus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepulchra regionum
Coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura
Cum resurget creatura
Judicanti responsura.

Liber scriptus proferetur,
In quo totum continetur,
Unde mundus judicetur.

Judex ergo cum sedebit,
Quidquid latet apparebit,
Nil inultum remanebit.

Quid sum miser tunc dicturus?
Quern patronum rogaturus,
Cum vix Justus sit securus?

Rex tremendae majestatis,
Qui salvandos salvas gratis,
Salva me, fons pietatis.

Recordare, Jesu pie,
Quod sum causa tuae viae,
Ne me perdas illa die.

Quaerens me sedisti lassus,
Redemisti Crucem passus,
Tantus labor non sit cassus.

Juste Judex ultionis,
Donum fac remissionis
Ante diem rationis.

Ingemisco tamquam reus,
Culpa rubet vultus meus:
Supplicanti parce, Deus.

Qui Mariam absolvisti,
Et latronem exaudisti,
Mihi quoque spem dedisti.

Preces meae non sunt dignae,
Sed tu, bonus, fac benigne
Ne perenni cremer igne.

Inter oves locum praesta
Et ab haedis me sequestra,
Statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis,
Flammis acribus addictis,
Voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
Cor contritum quasi cinis,
Gere curam mei finis.

Lacrymosa dies illa,
Qua resurget ex favilla,
Judicandus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu, Domine,
Dona eis requiem. Amen.

4. - OFFERTORIUM

Domine, Jesu Christe, Rex gloriae, libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni et de profondo lacu: libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum: sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam. Quam olim Abrahae promisisti et semini ejus.
Hostias et preces tibi, Domine, laudis offerimus: tu suscipe prO animabus illis, quarum hodie memoriam facimus: fac eas, Domine, de morte transire ad vitam. Quam olim Abrahae promisisti et semini ejus.

5. - SANCTUS

Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus Sabaoth.
Pieni sunt coeli et terra gloria tua.
Hosanna in excelsis.
Benedictus Qui venit in nomine Domini.
Hosanna in excelsis.

6. - PIE JESU

Pie Jesu, Domine, dona eis requiem sempiternam.

7. AGNUS DEI

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis requiem.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis requiem.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis requiem sempiternam.
Lux aeterna luceat eis, Domine, cum Sanctis tuis in aeternum, quia pius es.
Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 14 aprile 1996
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 27 aprile 1982
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. AMS 31 - 32 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 10 marzo 2019