Six épigraphes antiques per pianoforte a quattro mani, L 139


Musica: Claude Debussy (1862 - 1918)
  1. Pour invoquer Pan, dieu du vent d'été - Modéré - dans le style d'une pastorale (fa maggiore)
  2. Pour un tombeau sans nom - Triste et lent (re minore)
  3. Pour que la nuit soit propice - Lent et expressif (do maggiore)
  4. Pour la danseuse aux crotales - Andantino - souple et sans rigueur (do maggiore)
  5. Pour l'égyptienne - Très modéré (mi bemolle minore)
  6. Pour remercier la pluie au matin - Modérément animé (atonale)
Organico: pianoforte
Composizione: Parigi, 11 Luglio 1914
Prima esecuzione: Parigi, Salle Pleyel, 17 Marzo 1917
Edizione: Durand, Parigi, 1915
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Le Six Épigraphes antiques appartengono al gruppo delle composizioni per pianoforte a quattro mani di Debussy, un genere abbastanza praticato nell'Ottocento e rispondente ad un gusto borghese, quando era diffusa la moda di suonare in casa le trascrizioni delle opere di successo e più popolari, e magari anche le riduzioni per pianoforte delle sinfonie di Beethoven e dei poemi sinfonici di Liszt. In questo gruppo di pezzi pianistici debussyani si distinguono soprattutto le due raccolte della Petite suite e di En blanc et noir, dove si può cogliere quel sottile e raffinato intellettualismo, misto ad una calcolata costruzione formale, appartenente alla sigla inventiva di questo musicista così originale e rivoluzionario nella concezione armonica e timbrica del linguaggio sonoro. Si può aggiungere che le Six épigraphes antiques, come pure le Douze études per pianoforte (1915) e le tre Sonate per violoncello e pianoforte (1915), per flauto, viola e arpa e per violino e pianoforte (1915-'17) indicano un'attenzione maggiore verso la linearità della melodia, anche se la musica non perde il fascino delle sfumature evanescenti e delle sensazioni intimamente delicate e sommesse. Questi sei pezzi, composti nel 1914, sono un adattamento delle musiche per due flauti, due arpe e celesta scritte nel 1900-1901 come intermezzi per una recitazione dei poemi "Chansons de Bilitis" di Pierre Louys. Essi appaiono come momenti di un ciclo unitario e organico in cui affiora il gioco sottile di tonalità, quasi a sottolineare uno dei postulati estetici di Debussy secondo cui "la musique c'est un mystérieux accord entre la nature et notre imagination". Il tessuto sonoro si snoda con raffinatezza di effetti e non manca tra un "pannello" e l'altro il richiamò allo stesso nucleo armonico, come ad esempio il ritorno del tema del primo pezzo alla fine del sesto pezzo. Ciò sta a significare, oltre tutto, come Debussy manifestasse interesse per la forma circolare e articolata nelle sue ultime composizioni, elaborate per varie combinazioni strumentali.

Le Epigrafi, della durata di poco più di 13 minuti, sono caratterizzate da accordi sospesi e atmosfere rarefatte, secondo scelte arcaiche e diatoniche rispondenti a sonorità astratte. Più elaborati e vivamente intarsiati risultano il terzo e il quarto pezzo, mentre il quinto riflette un ritmo orientaleggiante e il sesto ha un andamento impressionistico e apertamente legato ad effetti naturalistici. La composizione è stata trascritta per orchestra nel 1932 da Ernest Ansermet, indimenticabile direttore dell'orchestra della Suisse Romande e appassionato sostenitore, tra l'altro, della musica di Debussy, Ravel e Stravinsky.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Sarà un "arabesco" la frase-tipo del flauto dell'inizio del "Prelude à l'après-midi d'un faune", così come perfetto è ormai il suo disegno nelle "Six épigraphes antiques", ancora più ambigue e smaterializzate. Alla versione originale del lavoro, "Trois Chansons de Bilitis", pubblicata nel 1897, ma eseguita però soltanto nel 1900 dalla cantante Blanche Marot accompagnata al pianoforte dall'autore, seguì una partitura per due flauti, due arpe e celesta, destinata ad accompagnare la recitazione delle "Chansons de Bilitis" alla Salle des Fètes del "Journal" il 7 febbraio 1901; da questa derivano le "Six épigraphes", i cui titoli sono una libera interpretazione che Debussy elaborò dai versi originali (le "Chansons de Bilitis" scritte nel 1894 dall'amico Pierre Louys: liriche di stampo arcaicizzante ed ellenizzante che il poeta pretese aver tradotto dalla poetessa greca Bilitis). Le difficoltà esecutive che i brani presentano, nell'incrocio spesso frequente di ciascuna parte con quella del partner e nella sempre maggiore astrazione del dettato, evocano ancor più la scrittura orchestrale ed anticipano la necessità di utilizzare il doppio pianoforte.

Cecilia Campa


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 26 ottobre 1990
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 4 aprile 1984


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Ultimo aggiornamento 31 ottobre 2016