Quartetto in do minore n. 1 per pianoforte, violino, viola e violoncello, op. 15


Musica: Gabriel Fauré (1845 - 1924)
  1. Allegro molto moderato (do minore)
  2. Scherzo. Allegro vivo (mi bemolle maggiore)
  3. Adagio (do minore)
  4. Allegro molto (do minore)
Organico: pianoforte, violino, viola, violoncello
Composizione: 1876 - 1879 (Revisione 1883)
Prima esecuzione: Parigi, Salle Pleyel, 14 febbraio 1880
Edizione: Hamelle, Parigi, 1879
Dedica: Hubert Léonard
Guida all'ascolto (nota 1)

La composizione del Quartetto in do minore op. 15 ebbe inizio nel 1876 a Sainte-Adresse (vicino a Le Havre) rna fu portata a termine soltanto tre anni dopo. All'indomani della prima esecuzione, avvenuta con grande successo nel 1880, Fauré decise tuttavia di ritornare sul finale, oggetto delle riserve di alcuni amici musicisti, per riscriverlo del tutto, dopo tormentati ripensamenti, nel 1883 (a questo punto la versione originaria fu probabilmente distrutta dall'autore). Benché il Quartetto op. 15 non mostri una concezione ciclica così compiuta e elaborata come quella dell'op. 45, una certa preoccupazione per l'organicità della forma complessiva si coglie nelle sottili relazioni intervallari tra alcune delle idee più significative del lavoro. Il secondo tema dell'Allegro molto moderato (tema B) per esempio, è connesso con l'idea principale dello Scherzo (tema C), mentre i due temi dell'Adagio (temi E, F), a loro volta strettamente correlati, sono legati al primo tema e al tema complementare (rispettivamente temi G e H) dell'Allegro molto finale. Inoltre, si potrebbe scorgere il latente nucleo unificante di tutti i temi in una successione di note ascendenti.

Il primo tema (tema A) dell'Allegro molto moderato, in forma di sonata, è modale in quanto fa riferimento alla scala naturale di do minore ed è animato da un impulso ritmico innervato di figure puntate e dattiliche che pervaderà l'intero movimento; la linea melodica, inizialmente suonata dagli archi all'unisono, passa poi a essere distribuita tra gli strumenti per sciogliersi nella transizione che porta al secondo tema. Questo, in mi bemolle maggiore (tema B), prolifera come un libero canone, espressivo e dolce, avviato dal cantabile della viola, per poi cedere di nuovo il passo ai motivi del primo tema nella chiusa dell'esposizione. Lo sviluppo incomincia con il primo tema trasformato in una dolce barcarola che circola in imitazione tra le parti e prosegue con la combinazione della testa del secondo tema con elementi del primo tema, finché l'elaborazione culmina in un climax che conduce alla ripresa. Il punto culminante del climax ne segna l'inizio: al primo tema, in do minore e alla transizione seguono il secondo tema, ora in do maggiore e la chiusa della ripresa, simmetrica a quella dell'esposizione. La coda è ancora percorsa dai motivi ritmici del primo tema, ma in versione ammorbidita e rasserenante come nello sviluppo.

Lo Scherzo. Allegro vivo in mi bemolle maggiore è nella consueta forma ternaria. La prima parte si apre con l'idea tematica principale (tema C), che dà il tono all'aerea eleganza dell'intero movimento. Si tratta di un'idea leggerissima in 6/8 del pianoforte, introdotta e poi accompagnata dai pizzicati degli archi che evocano il suono di chitarre o di mandolini; l'idea, che oscilla tra mi bemolle maggiore e do minore richiama nel profilo intervallare il secondo tema del primo movimento (tema B). L'idea è seguita da numerose varianti, anche in 2/4, ed estensioni, per poi essere ricapitolata in chiusura della prima parte. Il trio in si bemolle maggiore presenta l'idea tematica secondaria (tema D): il fantasmatico corale legato degli archi con sordina, presto combinato con figure dell'idea tematica principale, ammicca con ironia a un registro serioso fuori contesto. Il movimento si conclude con la ripresa della prima parte e dell'idea tematica principale.

Lo splendido Adagio in forma ternaria è il centro emozionale del quartetto e, al contempo, uno degli esiti più alti della prima produzione di Fauré. Il tema principale, in do minore (tema E), ha accenti mesti o addirittura funebri ed è disegnato dall'intreccio in filigrana delle linee degli archi e del pianoforte. Una semplice modulazione, di quelle che fanno pensare a Schubert, rischiara di colpo l'atmosfera per lasciar cantare agli archi l'espressivo tema secondario, in la bemolle maggiore (tema F), sugli accordi del pianoforte. Il tema, che è direttamente derivato da quello principale (tema E) e ne rappresenta una specie di metamorfosi, si distende in arcate via via più intense e appassionate, nelle quali s'inserisce anche il pianoforte, con ondate successive che si placano infine nella ripresa del tema principale, in do minore. Qui il pianoforte fiorisce gli accordi con arpeggi che proseguono nella coda, come sostegno del tema secondario ora suonato dal pianoforte stesso, e che infine si disperdono nell'incanto di una sorta di luccicante pulviscolo sonoro.

L'accurata struttura della forma di sonata dell'Allegro molto riflette il ripensamento di Fauré sul finale originario. Il primo tema, in do minore (tema G), contraddistinto da nervosi ritmi puntati, richiama nel profilo intervallare ascendente quelli dell'Adagio (temi E e F). Nella ricca esposizione, esso è seguito da un tema complementare sempre in do minore (tema H), articolato in due idee: la prima energica, accordale e cromatica, la seconda cantabile e distribuita in libera imitazione tra gli strumenti, mentre la successiva transizione riutilizza i motivi del primo tema. Dolce e espressivo, il secondo tema, in mi bemolle maggiore (tema J), viene svolto dagli archi per passare quindi anche al pianoforte ed estendersi alla chiusa dell'esposizione. Lo sviluppo trae avvio dall'elaborazione dei motivi energici del tema complementare, per poi trattare il secondo tema in combinazione con morbidi controcanti e tracciare un climax con i pressanti motivi del primo tema. A differenza di quanto accade nel primo movimento, tuttavia qui il punto culminante è raggiunto prima della ripresa, preparata da un anticlimax. Il ritorno del primo tema, in do minore ricalca l'attacco dell'esposizione, ma ben presto la ripresa riserva alcune sorprese. Il tema complementare, intanto, è inserito in una dinamica modulante, da sol bemolle maggiore a do minore, e presenta una variante, mentre il flusso musicale conosce un inatteso arresto con una fermata e una breve cadenza del pianoforte. È un forte gesto d'interpunzione, paragonabile ai due punti del discorso verbale: su una figura di doppio trillo misurato del pianoforte, alla viola riappare bensì il secondo tema, ora in do maggiore, ma è introdotto e quindi arricchito in controcanto da una frase melodica del tema complementare nella variante presentata dalla ripresa. Un'ampia coda compendia tutte le idee più rilevanti del movimento, attingendo agli elementi del primo tema, del secondo tema e del tema complementare in un climax spettacolare e radioso.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nel catalogo delle opere di Gabriel Fauré la musica da camera riveste un'importanza maggiore anche di quanto non traspaia già dal calcolo numerico delle composizioni: una ventina di brani, scritti in un arco cronologico che si estende per mezzo secolo, dal 1875 al 1925, brani che vedono tutti il concorso del pianoforte, ad eccezione dell'ultimo, un quartetto per archi. Rispetto alla produzione cameristica appare più significativa solamente la vastissima messe di chansons (prevalentemente agli anni giovanili appartiene la non esigua produzione sacra), mentre poco incisiva è la presenza delle opere per il palcoscenico, come di quelle orchestrali.

L'interesse verso la produzione cameristica non è peraltro una caratteristica sorprendente per un compositore che iniziò la sua attività nell'ultimo trentennio del XIX secolo. Nella Francia della III repubblica, il ritorno alla musica da camera fu un orientamento comune a molti compositori, dopo l'apogeo delle grandi masse orchestrali favorito da Berlioz, Meyerbeer, Wagner. Di questo ritorno, tuttavia, Fauré fu un precursore. Come i suoi contemporanei, anch'egli non sfuggì alle suggestioni del wagnerismo, compiendo dei veri pellegrinaggi a Monaco e a Londra per poter ascoltare l'intera Tetralogia in teatro. Tuttavia, fin dagli anni giovanili, la musica di Fauré evita di seguire le strade delle sonorità corpose e sgargianti e preferisce indagare i timbri dimessi di pochi strumenti.

Non è difficile scorgere, in questa predilezione, l'influenza di Camille Saint-Saëns, che Fauré ebbe come maestro, a partire dal 1861, presso l'Ecole de Musique Classique et Religièuse fondata da Louis Niedermeyer. I dieci anni di età di differenza non impedirono un profondo rapporto di stima che si convertì anche in una lunghissima amicizia. Saint-Saëns mise in contatto Fauré con tutte le tendenze della musica contemporanea e instillò nell'allievo i problemi compositivi che più erano cari al maestro: conciliare la sensibilità romantica con il rispetto delle forme classiche.

Fauré dunque imparò da Saint-Saëns l'ammirazione verso i modelli classici, senza per questo mancare di subire l'influenza esercitata dalla musica cameristica tedesca contemporanea. La prima fase della sua produzione risente appunto della assimilazione del linguaggio e dell'estetica del Romanticismo, ed appare così piuttosto distante dalla purificazione espressiva degli anni della vecchiaia, e quindi anche dall'immagine del compositore che più familiarmente si è imposta presso i posteri.

In questa prospettiva si inserisce il Quartetto per pianoforte ed archi op. 15, opera iniziata quando Fauré aveva trentun anni e nonostante la dignitosa posizione professionale conquistata - era maestro di cappella alla Madeleine - si trovava ancora nella fase iniziale di quello che sarebbe stato un lunghissimo travaglio formativo. Il Quartetto, insieme alla Sonata per violino e pianoforte op. 13 e alla Berceuse op. 16 per pianoforte, costituisce uno dei grandi risultati del compositore nell'ambito della produzione cameristica.

Non a caso la genesi del brano fu piuttosto elaborata, impegnando l'autore dal 1876 al 1883. La partitura fu iniziata nell'ottobre 1876, la prima esecuzione avvenne solo quattro anni dopo, alla Salle Pleyel di Parigi il 14 febbraio 1880 (la dedica era al violinista belga Hubert Léonard, che aveva assistito l'autore nella stesura della Sonata per violino op. 13); ma Fauré tornò in seguito sulla partitura, dandone una versione definitiva solamente nel 1883.

Con il Quartetto op. 15 Fauré definiva con chiarezza i tratti essenziali della propria poetica, difficile punto di fusione fra l'adesione alla tradizione tedesca e un profondo rinnovamento. Nella partitura Fauré adotta i modelli formali derivati dal classicismo, ma offre una soluzione del tutto personale al problema del trattamento del materiale. Piuttosto che la frammentazione e la netta contrapposizione degli elementi tematici, Fauré preferisce una loro germinazione interna, un loro intreccio con l'aggiunta di nuovi elementi. Inoltre altri tratti personali, come l'impiego di melodie modali e il trattamento delicatissimo dell'armonia, si congiungono a uno slancio lirico ancora del tutto romantico, di matrice schumanniana, che sarà temperato ed infine respinto con l'evoluzione stilistica dell'autore. Caratteristiche, queste, che si impongono immediatamente all'inizio del primo tempo, Allegro molto moderato, dove il vigoroso primo tema, dal carattere modale, viene presentato subito dagli archi, con gli accordi in contrattempo del pianoforte: uno schema ritmico che permea l'intero movimento. L'ardore lirico di questo tema viene temperato dalla seconda idea; nel corso dello sviluppo il primo tema si ripresenta anche in una veste liricizzata, e viene intrecciato con il secondo. Segue uno Scherzo che costituirà - con quello della Sonata op. 13 - un prototipo per le future generazioni di compositori, Debussy e Ravel in testa: non la danza notturna e fantastica del Romanticismo tedesco, ma un movimento brillante e leggero, segnato dai pizzicati degli archi, che accompagnano un tema tonalmente ambiguo del pianoforte; nel Trio troviamo invece una sorta di corale, animato dal lirismo degli archi, con i ricami del pianoforte.

In terza posizione si colloca un Adagio di grande intensità espressiva, in cui gli strumenti ad arco hanno un rilievo non come gruppo, ma per l'individualità di ciascuno, come voci solistiche; intonano un severo motivo innodico sui densi accordi pianistici; la seconda idea ha il carattere di berceuse. Estremamente agitato è il movimento finale, ricco di sincopi, contrattempi ed arpeggi; si tratta di una fantasia bitematica, in cui la seconda idea viene lungamente attesa, lo sviluppo ha un carattere rapsodico; una pagina che si richiama al carattere del movimento iniziale, con quello slancio romantico e quella ricchezza di scrittura che sono caratteristiche essenziali della poetica del giovane Fauré.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Per noi che lo ascoltiamo oggi, Gabriel Fauré è un autore essenzialmente classico, lirico, distensivo. Le sue melodie ampie e comunicative, le sue atmosfere romantiche, le sue armonie morbide e solo rarissimamente indurite da una diversa espressività, ci appaiono come il sinonimo di una musica da atmosfera, sulla quale ci soffermiamo appena perché sembra inserita naturalmente nell'ambiente in cui viviamo: come un prezioso mobile d'antiquariato della cui presenza ameremmo circondarci in casa nostra. Eppure c'è stata un'epoca nella quale la musica di Fauré graffiava, o per meglio dire "intossicava", e a dirlo fu proprio Marcel Proust, che al compositore scrisse appunto di essere rimasto "intossicato" dal fascino e dall'effetto perturbante della sua musica.

Frutto a sua volta di un'intossicazione musicale è, a sua volta, il giovanile Quartetto in do minore n. 1 op. 15 di Fauré, scritto fra il 1876 e il 1879, eseguito per la prima volta a Parigi, alla Salle Pleyel, con l'autore al pianoforte, nel 1880. Nel corso dei tre anni di gestazione del Quartetto, Fauré aveva incontrato la musica di Wagner: un viaggio a Colonia, uno a Monaco, l'ascolto della Tetralogia, la stesura di una Quadrille sur des motifs favoris de "L'anneau du Nibelung" per pianoforte, quasi un quaderno d'appunto di quei viaggi e di quell'esperienza musicale. Fino ad allora, se un compositore di scuola tedesca aveva focalizzato l'attenzione di Fauré, era stato Brahms, con il suo senso della coralità e della forma, con quel suo modo classico di declinare la modernità e vitalizzarla con uno sguardo aperto sulla musica popolare, in particolare di area slava e gitana. Nel Quartetto op. 15, l'intossicazione wagneriana lascia il segno, sia pure integrando e non soppiantando il modello rappresentato da Brahms. Se l'Europa musicale si divideva, allora, in partiti che polarizzavano l'alternativa fra Wagner o Brahms, mettendoli l'uno contro l'altro, Fauré compie un'operazione intelligente, e molto in anticipo sui tempi, cercando piuttosto una forma di dialogo e di compensazione, scegliendo insieme Wagner e Brahms: la continua invenzione melodica del primo e il rigore artigianale del secondo. Certo, il Wagner amato da Fauré, e di cui la Quadriglia pianistica reca testimonianza, è un Wagner concepito essenzialmente in termini melodici, urbanizzato, si potrebbe dire, e trasformato in un maestro della cantabilità. Ciononostante, sarebbe difficile intendere non solo il Quartetto op. 15, ma tutto l'arco di tempo che richiese la sua elaborazione, se non guardando alla tensione vitale e al sovrappiù di inquietudine che Fauré trasse direttamente dall'apporto wagneriano.

Dal punto di vista stilistico, non c'è dubbio che il debito maggiore sia verso Brahms, come si può facilmente percepire fin dall'ascolto del tema introduttivo, o meglio ancora del ritmo sincopato che dà all'apertura del Quartetto un inconfondibile carattere gitano. Il cromatismo, l'anima più inquieta e wagneriana, per così dire, è affidata essenzialmente alle parti della viola e del violoncello, prima che un secondo tema, nella tonalità relativa di mi bemolle, si appoggi sul sostegno arpeggiato del pianoforte. Il movimento iniziale resta, comunque, scritto nella classica forma di sonata, con uno sviluppo molto ampio basato essenzialmente su metamorfosi del primo tema, mentre il secondo emerge solo come un contrappunto. La ripresa è anch'essa molto classica, mentre la coda, di nuovo basata sul primo tema, si conclude con un diminuendo di grande efficacia espressiva.

L'invenzione ritmica, piuttosto semplice nel primo movimento, è alla base della dinamica dello Scherzo, nel quale si è voluto riconoscere un implicito omaggio all'arte dei grandi clavicembalisti francesi del Sei-Settecento. L'invenzione melodica, d'altra parte, è il nucleo portante dell'Adagio, anche se è "wagnerianamente" basata su un motivo fatto di poche note, una cellula via via amplificata e armonizzata in maniera suggestiva, con una progressiva accentuazione del lirismo. Il Finale: Allegro molto è luminoso, brillante, senza ombre, come se a partire dall'intossicazione Fauré avesse recuperato la salute e avesse consegnato alla musica da camera francese un suo modello estetico duraturo: quello che guarda con entusiasmo e commozione, come ha scritto Vladimir Jankélévitch, all'avvenire di molti "domani luminosi".

Stefano Catucci


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 195 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 10 Aprile 1992
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 30 gennaio 2003


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Ultimo aggiornamento 19 aprile 2013