Dunque sarà pur vero (Agrippina condotta a morire), HWV 110

Cantata per soprano, archi e basso continuo

Musica: Georg Friedrich Händel (1685 - 1759)
Testo: autore ignoto
  1. Dunque sarà pur vero
    Recitativo per soprano e basso continuo
  2. Orrida, oscura, l'etra si renda (si bemolle maggiore)
    Aria per soprano, 2 violini e basso continuo
  3. Ma pria che d'empia morte
    Recitativo per soprano e basso continuo
  4. Renda cenere il tiranno un tuo fulmine crudel - Allegro (sol maggiore)
    Aria per soprano, 2 violini e basso continuo
  5. Si del gran tiranno
    Recitativo per soprano e basso continuo
  6. Come, o Dio! bramo la morte - Adagio (sol minore)
    Arioso e recitativo per soprano, 2 violini e basso continuo
  7. Forsennata che parli?
    Recitativo per soprano e basso continuo
  8. Si, s'uccida, la sdegno grida (si bemolle maggiore)
    Arioso per soprano, 2 violini e basso continuo
  9. A me sol giunga la morte (fa minore)
    Arioso per soprano, 2 violini e basso continuo
  10. Incauta e che mai dissi?
    Recitativo per soprano e basso continuo
  11. Cada lacero e svenato - Allegro (mi bemolle maggiore)
    Arioso per soprano, 2 violini e basso continuo
  12. Sparga quel sangue istesso
    Recitativo per soprano e basso continuo
  13. Come, o Dio! bramo la morte (sol minore)
    Arioso per soprano, 2 violini e basso continuo
  14. Se infelice al mondo vissi - ... Allegro. Andante (re minore)
    Aria per soprano, 2 violini e basso continuo
  15. Trema l'ingrato figlio
    Recitativo per soprano e basso continuo
  16. Su lacerate il seno (fa maggiore)
    Aria per soprano, 2 violini e basso continuo
  17. Ecco a morte già corro
    Recitativo per soprano e basso continuo
Organico: soprano, 2 violini, basso continuo
Composizione: 1707 - 1708
Edizione: Deutsche Händelgesellschaft, Lipsia, 1888
Guida all'ascolto (nota 1)

Il catalogo di Händel annovera un numero estremamente alto di composizioni definibili come cantate da camera: 7 cantate drammatiche, 25 cantate con strumenti, 69 con il solo basso continuo, escluse le numerose opere dubbie e quelle sacre; in totale oltre cento brani. La quasi totalità di queste opere fu scritta nel corso del viaggio in Italia compiuto dal compositore fra la fine del 1706 e l'inizio del 1710, e in particolare nel corso dei diversi soggiorni a Roma.

Händel aveva intrapreso il viaggio in Italia nell'autunno del 1706; un viaggio di perfezionamento, prassi ambita e consueta, lungo tutto il secolo XVIII, per moltissimi musicisti oltremontani. Sebbene l'Italia fosse politicamente divisa e culturalmente tutt'altro che omogenea - anzi forse proprio a causa di questi motivi - era nella penisola che fiorivano quelle scuole musicali, tanto vocali quanto strumentali, che dettavano legge al gusto di tutta Europa. Nel varcare le Alpi, a ventun anni, Händel poteva vantare già una padronanza assoluta degli strumenti a tastiera, cembalo e organo, ma era ancora lontano dal pieno dominio del mezzo orchestrale (che avrebbe appreso, sempre a Roma, dall'esempio di Arcangelo Corelli), e soprattutto della scrittura vocale. Il viaggio in Italia segnò appunto il contatto con il mondo dei grandi virtuosi, con il cosiddetto "belcanto", inteso nell'accezione più edonistica e insieme espressiva del termine.

Questo non deve sembrare in contraddizione con il fatto che Händel abbia scritto in Italia appena due opere (Rodrigo e Agrippina), né con il fatto che egli abbia soggiornato soprattutto a Roma, città nella quale l'opera in musica era proibita per motivi morali (tanto che nell'aprile 1708, in occasione dell'esecuzione dell'oratorio La Resurrezione, il compositore si vide costretto a sostituire alla seconda serata il soprano Margherita Durastanti con un cantore castrato, poiché la presenza di una cantante donna nel ruolo di Maria Maddalena accentuava il carattere profano della musica). Infatti, più che attraverso la strada maestra dell'opera, la scuola di perfezionamento nella scrittura vocale si realizzò attraverso la via secondaria della cantata da camera.

Non a caso secondo il primo biografo, John Mainwaring (le sue Memorie della vita del fu G. F. Händel apparvero nel 1760, l'anno successivo alla scomparsa dell'autore), Händel avrebbe scritto a Roma centocinquanta cantate, una cifra verosimile o quasi, considerando le composizioni probabilmente disperse. A commissionare le cantate al maestro sassone furono due prelati aristocratici, Benedetto Pamphili e Pietro Ottoboni, e soprattutto il marchese Francesco Ruspoli, un mecenate presso il quale Händel soggiornò per tre lunghi periodi (maggio-ottobre 1707, febbraio-maggio 1708, luglio-novembre 1708) appunto con l'incarico principale di fornire settimanalmente una nuova cantata, da eseguirsi di domenica. Destinataria della maggior parte delle composizioni fu la già menzionata Margherita Durastanti (anch'essa al servizio di Ruspoli), una grande virtuosa che avrebbe poi seguito Händel nel suo soggiorno inglese, collaborando con lui ancora per svariati lustri.

Queste indicazioni valgono da sole a definire il carattere prezioso ed esclusivistico del genere della cantata da camera all'inizio del XVII secolo; la cantata era destinata ad un ristretto pubblico aristocratico, che si compiaceva dell'arte dei cantori solisti e della ricerca stilistica dei compositori. I testi poetici delle cantate vertevano su un numero estremamente limitato di situazioni affettive, ispirate a personaggi eroici o mitologici, spesso con ambientazioni arcadiche, non di rado con allusioni encomiastiche agli illustri committenti, o con criptici riferimenti alle precise situazioni - ricevimenti, celebrazioni - per cui i brani venivano creati. Al compositore il compito di trovare soluzioni sempre rinnovate sul piano espressivo per un numero di "affetti" estremamente ristretto. L'articolazione formale alternava recitativi ed arie (in genere nella forma col "da capo"; ossia in tre sezioni, l'ultima delle quali uguale alla prima, per consentire al virtuoso interprete di variare a suo piacimento la linea melodica). Spesso era il semplice basso continuo ad accompagnare la voce o le voci, talvolta un insieme di pochi strumenti.

Agrippina condotta a morire (composta nel 1707-1708) è una delle cantate più ambiziose ed ammirate del periodo romano, un vero e proprio minidramma, una prefigurazione delle grandi scene operistiche della maturità. Abbiamo in questo caso cinque arie (quantunque una, come vedremo, non possa essere considerata tale), un ensemble d'archi (due violini e basso continuo) e un preciso personaggio storico, Agrippina, che esterna i diversi sentimenti di vendetta e amore materno nei confronti di Nerone, che la ha condannata a morte. La cantata insomma è di grande difficoltà per la solista sia sotto l'aspetto puramente vocale, con un incisivo impiego della coloratura, sia sotto quello interpretativo.

Infatti Händel aggredisce l'ascoltatore con il suo genio drammatico sotto due distinti profili. Nelle due arie iniziali e nelle due conclusive egli mostra una perfetta individuazione dell'affetto illustrato dal testo poetico. Nella seconda aria ad esempio («Renda cenere il tiranno») il fulmine invocato viene reso con le scale e con i salti discendenti dei violini, mentre le fughe di semicrome del soprano rendono il senso dell'invettiva; o ancora nella quarta aria («Se infelice al mondo vissi») è la lunghezza e la levigatezza della linea melodica ad attribuire un senso elegiaco alla rassegnazione del personaggio. Al posto della terza aria Händel crea invece un organismo sofisticato («Come, o Dio! bramo la morte»), una sorta di scena drammatica, che alterna sezioni di aria, di arioso e di recitativo in un flusso continuo; la forma è ABCDA, dove A è un adagio elegiaco, e BCD dei brevi ariosi fra loro fortemente contrastanti, così da riflettere i continui mutamenti di affetti da parte del personaggio. Un breve e scarno recitativo conclude in tono volutamente dimesso, quasi purificatorio, l'intera partitura.

Arrigo Quattrocchi

Testo

Agrippina condotta a morire
(«Dunque sarà pur vero»)

Dunque sarà pur vero
che disseti la terra il sangue mio?
e soffrir deggio, o Dio,
che mi trapassi il sen destra ribelle?
Cruda Roma! empie stelle!
barbaro mio destini figlio inumano!
a qual furore insano
a condannarvi spinge alma innocente?
Ah! cuore, ah! cuor dolente
cuor di madre tradita e disprezzata
vuol così la tua sorte:
spira l'anima forte,
vilipesa, schernita, invendicata.

Orrida, oscura
l'etra si renda
e spesso avvampi
col balenar.

E tuoni e lampi,
per mia sventura,
a sparger prenda
nel mio spirar.

Ma pria che d'empia morte
nel misero mio seno
giunga l'atro veleno;
prima che pallida, esangue
sparga ne' fiati estremi e l'alma e 'l sangue,
Giove, Giove immortale,
tu, che vuoti dall'etra,
sopra il capo de' rei,
la tremenda faretra,
tu che fra gli altri Dei
di provvido e di giusto hai pregio e vanto,
vendica questo pianto
e la ragion di così acerba pena,
tuona, Giove immortal, tuona e balena.

Renda cenere il tiranno
un tuo fulmine crudel,
Giove in del se giusto sei.

In vendetta dell'inganno
usa sdegno e crudeltà,
per pietà de' torti miei.

Sì, sì, del gran tiranno
provi l'alta potenza 'l traditore;
lacero l'empio core
esca d'augel rapace,
renda sol per mia pace il suo destino;
e sparsa e palpitante
sopra le nude arene
miri poscia ogni fibra il pellegrino;
con pestiferi fiati
gli ultimi suoi respiri
avveleni la terra; e l'ossa, infrante
fra tormenti severi
pria che l'anima spiri,
servano poi d'orror a' passaggieri;
morrà l'indegno figlio... Ah! che a tal nome
penso ancor che son madre
e manca il mio furor, ne so dir come.

Come, o Dio! bramo la morte
a chi vita ebbe da me ?

Forsennata che parli?
mora, mora l'indegno,
che d'empia morte è degno
chi sol brama godere al mio periglio.
Ho rossor d'esser madre
a chi forse ha rossor d'esser mio figlio.

Sì, sì s'uccida,
lo sdegno grida,

sì, sì s'uccida... e chi? l'amata prole?
ahi! tolga il ciel che chiuda
i lumi ai rai del sole;
viva, benché spietato,
sì, viva e sì confonda,
con esempio d'amor, un core ingrato.

A me sol giunga la morte,
che sarò costante e forte...

Incauta e che mai dissi?
non vuò che Roma apprenda
che cinta d'oro e d'ostro
io fui bastante a partorire un mostro.

Cada lacero e svenato,
mora sì, mora l'ingrato
che nemico a me si fé.

Sparga quel sangue istesso
che sol per mio diletto
trasse tenero infante
nelle materne viscere concetto.
Pera l'empio Neron, sì pera... Ah! come
in sì fiero periglio
torni sui labbri miei nome di figlio.

Come, o Dio! bramo la morte
a chi vita ebbe da me?

Sì, sì, viva Nerone;
e sol de la sua madre
servan l'ossa insepolte
agli aratri d'inciampo;
beva l'arido campo
bevan le selve incolte
tratto dal cor che langue
il più vitale e spiritoso amore;
indi tutta rigore
passi l'alma infelice
là ne' più cupi abissi;
ivi apprenda empietà, poscia ritorni
a funestar d'un figlio ingrato i giorni.

Se infelice al mondo vissi,
ne' profondi e cupi abissi
infelice ancor sarò,
ma vendetta almen farò.

Ombra nera e larva errante,
di rigor furia, Baccante,
chi m'offese agiterò.

Tremi l'ingrato figlio,
di plauso trionfai sponde gemmate
stridan le ruote aurate,
e superbo, e tiranno
di tal vittoria altero
giunga cinto d'alloro in Campidoglio;
che l'ultrici saette
io di Giove non voglio
a fulminare il contumace orgoglio;
io sola ombra dolente
se vuol barbaro ciel, che sì m'accora,
che il colpevole vìva, e 'l giusto mora.

Su lacerate il seno,
ministri, e che si fa?

Usate ogni rigore,
morte vi chiede il core,
e morte date almeno
a chi non vuol pietà.

Ecco a morte già corro,
e d'un figlio crudel sarà pur vanto
che si nieghi a la madre
e l'onor della tomba e quel del pianto.
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 23 ottobre 199


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Ultimo aggiornamento 30 maggio 2015