L'Italia per molti secoli rappresentò una tappa indispensabile e privilegiata per la formazione dei musicisti. E se i primi "ospiti" del Bel Paese furono i compositori fiamminghi del Rinascimento (da Dufay a Josquin, da Arcadelt a Willaert, da De Rore a Orlando di Lasso) e poi nel primo Barocco personaggi del calibro di Heinrich Schutz e John Dowland, fu nel Settecento che tale pratica si affermò definitivamente, avallata da quell'autentica mania del Grand Tour (espressione che sembra aver fatto la sua prima comparsa sulla guida An Italian Voyage di Richard Lassels del 1697) che contagiò non solo i musicisti ma anche letterati, artisti e uomini di cultura.
Insomma l'Italia del XVII e XVIII secolo dettava legge in fatto di civiltà estetica e musicale e i resoconti dei viaggiatori del tempo (basti pensare alle Lettres familières écrites d'Italie di Charles de Brosses, ai Voyage en Italie di Montesquieu e Lalande, al volume An Account of Some of the Statues, Bas-Reliefs, Drawings, and Pictures in Italy del pittore Jonathan Richardson, fino al celebre e preziosissimo Viaggio musicale in Italia di Charles Burney) ne consacravano la fama in tutta Europa.
La ricchezza di generi musicali che vi si trovava era straordinaria: dai madrigali alle musiche popolari, dai concerti al melodramma, dalle cantate agli oratori; una specializzazione in Italia rappresentava insomma una grande e imperdibile occasione, paragonabile in un certo senso alla odierna frequentazione di un "master" alla Harvard University.
Tra le città più richieste vi erano Venezia, Firenze e Napoli, città capaci di attirare un gran numero di "allievi" da vari paesi europei, Germania sopra tutti: da Johann Gottlieb Graun a Georg Pisendel, da Johann Gottlieb Naumann a Joachim Quantz, dal "sassone" John Adolf Hasse ai boemi Jan Zelenka e Antonfn Benda. E poi naturalmente c'era Roma, capitale della classicità e della cristianità, mirabile ponte fra passato e futuro, dove fasti, magnificenze e personalità si combinavano in un ambiente dinamico e corroborante. Da qui passeranno Marc-Antoine Charpentier (allievo di Carissimi al Collegium Germanicum), Johann Jakob Froberger (che studiò con Frescobaldi e pur di seguire il suo maestro accettò di convertirsi alla fede cattolica), il liutista Johann Hieronymus Kapsberger (soprannominato "il tedesco della tiorba" attivo nella cerchia dei musicisti vicini alla corte papale di Urbano VIII) e il famoso Georg Muffat, arrivato fra il 1681-82 per perfezionarsi con "il Signor Bernardo famoso in tutto il mondo".
Oltre a Bernardo Pasquini - organista della Chiesa di Santa Maria Maggiore e considerato il più grande tastierista allora attivo in Italia - in quegli anni un altro grandissimo maestro "spopolava" in città: il virtuoso di violino Arcangelo Corelli, al servizio della regina Cristina di Svezia e conteso fra i potenti cardinali Pamphilj e Ottoboni. Le sue composizioni godevano di un fascino incredibile: lo stesso Muffat testimonia di aver sentito, "con sommo diletto e ammirazione", "alcune bellissime sonate... prodotte con grandissima puntualità" e accortosi che questo stile "abbondava di gran varietà di cose" si mise egli stesso a comporre alcuni di questi concerti, provati in casa dello stesso Corelli al quale si professò "debitore di molte utili osservazioni". Ma in Italia la musica, oltre all'altissima qualità tecnica e formale, godeva anche di un particolarissimo "valore aggiunto", quello della capacità di muovere i canali emotivi più profondi.
Nel 1702 l'abate francese Francois Raguenet (che aveva
soggiornato per
due anni a Roma) nel suo celebre pamphlet Parallèle des Italiens et
des Francois en ce qui regardela musique et les opéras
scrive "... Non
si fa più nulla di bello in Francia dopo la morte di Lulli, così coloro
che amano la musica si trovano senza divertimento e senza speranza; ma
non hanno che da andare in Italia [...] gli italiani sono molto più
vivaci dei francesi, sono molto più sensibili alle passioni e le
esprimono anche in modo più vivo in tutte le sue produzioni,... tutto
è così vivo, così penetrante, così pieno d'impeto, così sconvolgente
che l'immaginazione, i sensi, l'anima e il corpo stesso sono trascinati
in un unico slancio".
È giunto in questa città
un sassone eccellente
Il ventiduenne Händel a
Roma
"E giunto in questa città un Sassone eccellente suonatore di cembalo e compositore di musica, il quale oggi ha fatto gran pompa della sua virtù in sonare l'organo nella Chiesa di S. Giovanni con stupore di tutti", così annotava Francesco Valesio, sul suo Diario di Roma, il 14 gennaio 1707.
Händel aveva allora 22 anni ed era giunto in Italia l'anno prima - nell'agosto del 1706 - proveniente da Amburgo. E proprio in questa città - dopo l'incontro con Gian Gastone de' Medici, figlio del Granduca di Toscana - era maturata la decisione di tale viaggio, con l'obiettivo di approfondire la sua arte musicale direttamente "sul campo".
Dopo una prima tappa a Firenze, dove aveva potuto godere dell'ospitalità di Ferdinando de' Medici (fratello di Gian Gastone) mecenate illuminato oltre che reggitore del teatro costruito all'interno della sua villa di Pratolino, Händel decise di proseguire per Roma, ove potenti erano le parentele e le amicizie del principe, e molte erano le possibilità formative e professionali.
Ben presto gli accordarono i loro favori eminenti personaggi fra cui i cardinali Benedetto Pamphilj, Pietro Ottoboni (Vice-Cancelliere della Chiesa), Carlo Colonna, il Marchese Francesco Maria Ruspoli.
Il fatto che nella città eterna - in ottemperanza ad un editto promulgato da Papa Clemente XI nel 1703 - fossero proibiti gli spettacoli teatrali, costrinse il "sassone" a cimentarsi con altre forme compositive quali l'Oratorio, Inni e Mottetti sacri, e soprattutto le Cantate che rappresentavano una peculiarità tipicamente italiana. La datazione e la committenza dei lavori romani di Händel è tuttora oggetto di studio e negli ultimi decenni molte volte sono state corrette o ampliate le conoscenze relative a questo periodo.
La studiosa Ursula Kirkendale, in seguito ad ulteriori ricerche sui documenti di Casa Ruspoli custoditi presso l'Archivio segreto Vaticano, ha fornito qualche anno fa ulteriori informazioni che rimettono in discussione alcuni dati che sembravano ormai acquisiti. Fra questi vi è la data di arrivo di Handel a Roma che, usualmente collocata (anche in base alla testimonianza di Valesio) nel gennaio 1707, sarebbe da anticipare al dicembre 1706 in coincidenza con l'entrata in servizio del compositore presso il marchese Francesco Maria Ruspoli che divideva i suoi soggiorni fra Roma - a Palazzo Bonelli (edificato a partire dalla fine del Cinquecento su iniziativa del Cardinale Michele Bonelli e ora sede della Provincia) - e le ricche proprietà di Vignanello e Cerveteri (di cui fu fra l'altro, per volere del papa, verrà nominato principe nel 1709).
E proprio per questo committente il "sassone" avrebbe composto, in quei primi giorni, la Cantata "Arresta il passo", Aminta e Fillide HWV 83. Infatti due "giustificativi", datati 29 dicembre 1706 e 4 gennaio 1707, riportano il pagamento fatto al copista Tarquinio Lanciani per la copia, di ben 160 pagine, di una "Cantata nuova" per voci e concertino di violini. Solo Aminta e Fillide - scritta per due soprani, archi e basso continuo - calzerebbe perfettamente alla descrizione con la sua ampia struttura di una Ouverture, 10 Recitativi, 9 Arie e un Duetto finale.
Anche la scrittura appare nel complesso elaborata; sono già evidenti insomma tutte le caratteristiche tipiche della personalità handeliana: cantabilità melodica, uso raffinato degli strumenti concertanti, ricerca di una vasta gamma espressiva nelle Arie.
La Cantata, su un tema pastorale-amoroso tanto caro all'Arcadia e di gran moda in quegli anni, è la divertente Storia di un corteggiamento: il pastore Aminta (soprano) innamorato non corrisposto della ninfa Fillide (soprano), tenta in tutti i modi di conquistarla; quest'ultima, dopo aver inneggiato sfrontatamente al valore della propria libertà, sente pian piano venir meno le proprie difese fino ad acconsentire al volere del "dio d'amore". Una breve Ouverture alla francese si evolve quasi subito in un furioso molto "rappresentativo" della fuga di Fillide, bruscamente interrotto dall'entrata di Aminta invocante "Arresta! arresta il passo". Tutta la prima parte della Cantata è strutturata sull'alternanza "emotiva" dei due personaggi: da una parte l'appassionata determinazione del pastore (aria "Fermati non fuggir" e "Forse che un giorno il dio d'amore") a cui risponde una ninfa canzonatoria prima in un leggiadro 9/8 ("Fiamma bella") e poi con un giocoso e virtuosistico "Fu scherzo fu gioco". L'atmosfera cambia però con l'ulteriore sfogo di Aminta "Se vago rio fra sassi frange": un'Aria mesta - dal dolcissimo andamento cantilenante che riecheggia il paragone tra il fiume e le lacrime - il cui pathos non lascia indifferente Fillide. Ed ecco apparire, inaspettata, la tenerezza nell'Aria "amorosa" (come espressamente indicato in partitura) "Sento sento ch'el Dio bambin".
Da questo punto in poi il gioco delle parti si ribalta; il pastore si rafforza nella sua tenacia (mirabilmente espressa dalla energica e agilissima pagina "Al dispetto di sorte crudele") e la ninfa si lascia avvincere dalla passione ("È un foco quel d'amore" in una intrigante tonalità di sol minore). Il successivo recitativo "a due" anticipa la quasi raggiunta sintonia, ritardata solo dalla riaffermazione dei basilari concetti di costanza (Aminta "Chi ben ama non paventi di trovar un dì pietà") e di rispetto per i sentimenti (Fillide in una danzante "Non si può dar un cor").
L'amore finalmente "conquistato" viene sancito dal festoso Duetto finale "Per abbatter il rigore" in cui Händel (che fra l'altro riutilizzerà alcune Arie della Cantata sia in Agrippina che in Rinaldo) si diverte con straordinaria destrezza a mostrare le molteplici possibilità di incastro (imitazioni, contrappunti, unisoni, raddoppi) delle due linee vocali.
È probabile fra l'altro che questa "libertà" nella scrittura gli provenisse dal fatto di avere a disposizione due voci "d'eccezione": una era forse quella del castrato Pasqualino Tiepoli (che ritroveremo anche ne Il delirio amoroso di poche settimane dopo) e l'altra, quasi sicuramente, aveva il nome della soprano Margherita Durastanti anch'essa entrata al servizio del marchese Ruspoli proprio in quel periodo (una delle voci più amate da Händel, che le affiderà, nel 1709, il ruolo di Agrippina e dal 1720 la renderà protagonista delle scene londinesi).
Aminta e Fillide verrà poi nuovamente eseguita nel luglio del 1708, quasi certamente per il ritrovo dell'Accademia dell'Arcadia nei giardini di Ruspoli adibiti ad uso del "Bosco Parrasio".
Laura Pietrantoni