Al contrario di Bach, questo Haendel strumentale appare proteso a quell'immediatezza spettacolare, a quel vibrante plasticismo che sembra vivere del respiro del pubblico e delle sue reazioni emotive e che trova la sua sede specifica nel teatro e nei grandi affreschi oratoriali. Pubblicati nel 1734 al culmine della carriera operistica di Haendel a Londra, i sei Concerti grossi op. 3, come del resto la rimanente produzione haendeliana di genere strumentale, offrono all'analisi morfologica una curiosa commistione di arcaismi corelliani, già scomparsi nella coeva e precedente produzione degl'Italiani (fatta forse eccezione per il serioso e old fashioned Benedetto Marcello) e di civetterie mondane e teatraleggianti. Da ciò quella relativa "durezza" di dettato rilevabile soprattutto negli stacchi polifonici, dove lo straordinario rilievo di un'invenzione motivica improntata ad una comunicatività squisitamente teatrale entra in attrito con procedimenti arcaicizzanti, e dove il segno vigoroso e sommario del grande affrescatore prevale su quello meditato e attento al particolare del pittore da cavalletto.
Ne risulta un procedere compositivo di getto, mirante al colpo d'occhio dell'insieme e all'"effetto" nel senso più squisitamente barocco del termine: con simulati gesti improvvisatori, come il gusto toccatistico e preludiante che caratterizza l'esordio dei violini di concertino, nel "Vivace" di quest'op. 3 n. 2, o la sprezzatura di quelle terzine degli oboi, che, nello stesso movimento, intervengono verso la fine a modificarne bruscamente l'andamento ritmico. Svagatezza preludiante impronta altresì l'intervento dei due violoncelli soli (quanti colori, e bizzarramente distribuiti, offre il quadro sonoro del concerto grosso haendeliano, pur limitato ai soli archi e a una coppia di oboi e a un fagotto!) nel "Largo", dominato dalla sensuale melodia, anzi, cavatina dell'oboe solo. A molcere la spigolosità contrappuntistica dell'"Allegro" (dove evidente è il condizionamento a un tipo di polifonia "all'italiana", dall'andamento rigido e stereotipato), sopravvengono i due movimenti conclusivi non esplicitamente, ma effettivamente ispirati a movimenti di danza, ricchi di fascino melodico e di lusinghe timbriche.
Giovanni Carli Ballola