Concerto grosso in re minore, op. 6 n. 10, HWV 328


Musica: Georg Friedrich Händel (1685 - 1759)
  1. Ouverture: Maestoso. Allegro. Lentement (re minore)
  2. Aria: Lento (re minore)
  3. Allegro moderato (re minore)
  4. Allegro con fuoco (re minore)
Organico: 2 violini concertanti, 2 violini, viola, violoncello, basso continuo
Composizione: 22 ottobre 1739
Edizione: J. Walsh, Londra, 1740
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Quest'anno [1985 n. d. r.] si celebra il terzo centenario della nascita di Haendel, di Bach e di Domenico Scarlatti ed è l'occasione per onorare tre altissime personalità della musica che hanno recato un contributo importante e determinante per lo sviluppo e il progresso dell'arte dei suoni. Secondo un criterio più storiografico che estetico-musicale il nome di Haendel viene abitualmente associato a quello di Bach, in quanto ambedue i musicisti sono considerati i più autorevoli esponenti dell'età barocca tedesca e riassumono nella loro molteplice e monumentale opera secoli di esperienze musicali, sia tecniche che linguistiche. Tutti e due affondano le radici della propria cultura nella Germania luterana, ma le loro caratteristiche biografiche e artistiche sono diverse e a volte divergenti. Bach non varcò mai i confini della Germania: la sua formazione umana e musicale, pur con qualche breve puntata verso il nord, si svolse entro i confini della nativa Turingia e della Sassonia, naturalmente non trascurando autori e musiche provenienti della Francia, dall'Italia e dalla Germania meridionale. Haendel, invece, ebbe la possibilità di viaggiare molto sin da giovane e conoscere direttamente musicisti di varia estrazione stilistica, a volte gli stessi di cui Bach aveva soltanto letto e studiato qualche manoscritto. Egli venne in Italia ed ebbe modo di rendersi conto personalmente della struttura e della funzionalità del nostro melodramma, specie per quello che riguardava il ruolo della voce in rapporto allo strumentale. Attraversò in lungo e in largo tutta la Germania, per approdare poi in Inghilterra e in Irlanda, dove alla fine incontrò benessere e gloria.

La fama di Haendel è legata essenzialmente ai suoi trentatrè oratori, dei quali alcuni continuano a resistere all'usura del tempo, in virtù della chiarezza e scorrevolezza melodica e della grandiosità e luminosità del discorso corale. Ma ciò non toglie che egli sia stato un musicista eclettico e abbia lasciato una produzione vastissima in ogni campo: dal melodramma allo strumentale e al cameristico. In particolare, per quello che riguarda la produzione strumentale, una larga popolarità hanno sempre avuto i dodici Concerti grossi dell'op. 6 per orchestra d'archi e basso continuo, scritti tra la fine di settembre e il 20 ottobre 1739, nello stesso periodo in cui apparvero le vigorose architetture oratoriali del Saul e dell'Israel in Aegypt. Questi lavori, insieme ai sei Concerti grossi op. 3 per due oboi, due fagotti, due flauti, archi e basso continuo, un po' meno eseguiti degli altri, ma ricchi ugualmente di straordinaria inventiva melodica e armonica, costituiscono il contributo più significativo di Haendel alla letteratura del concerto grosso di stile barocco che si richiama principalmente all'esempio di Arcangelo Corelli, un musicista conosciuto dall'autore del Messiah nel corso del suo primo viaggio in Italia (1709) e da lui molto stimato. Però lo schema della sonata da chiesa che Corelli trasferisce al concerto, basato sull'orchestra d'archi a quattro voci in contrapposizione ad un piccolo gruppo solistico, assume in Haendel forme più elaborate e robuste, sia nei movimenti di maggiore vivacità armonica e sia nei passaggi più articolati sotto il profilo contrappuntistico. L'austerità pensosa del modello diventa più calda e vigorosa nella linea solenne della ouvertures e nel virile accento ritmico degli allegri, mentre si avverte un lirismo più intenso nei momenti distesi, un'arguta stilizzazione nei tempi di danza e una sottile vena malinconica nelle cullanti siciliane.

Lo strumentale, che si articola in due gruppi - il tutti chiamato anche "ripieno" e il "concertino" - denota una indubbia abilità e sicurezza di orchestratore nel musicista sassone, che ebbe sempre vivo il senso della costruzione architettonica realizzata con ricchezza e varietà di armonie e alternando lo stile chiesastico all'operistico e al madrigalesco. Questa sigla haendeliana è possibile coglierla nel Concerto grosso in re minore op. 6 n. 10 scritto per archi e clavicembalo, in cui spiccano soprattutto i tempi allegri per il loro luminoso splendore strumentale. Tolta l'Aria del secondo movimento tenuta su un tono molto lento e pensoso, il resto del Concerto viene espresso con quello stile vivace e concitato così tipico del linguaggio barocco e proteso a realizzare un clima musicale di solare serenità, come avvertì a suo tempo lo stesso Goethe, quando parlò di Haendel come di un genio mediterraneo, attratto dal fascino della chiarezza e della lucentezza del cielo della nostra penisola.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La «Haendel-Renaissance» di questi ultimi anni verte soprattutto sulla produzione operistica, e in questo senso un sottile filo conduttore lega le intuizioni critiche di Paul Bekker (1926) — che vedeva uno degli aspetti più significativi della civiltà barocca proprio nel «sentire vocale» di Haendel — fino all'ultimo e più aggiornato studio di Winton Dean (1969) sulla sua proteiforme abilità di compositore teatrale. Tutti i problemi concernenti la musica strumentale (composizioni per orchestra, concerti per organo, per clavicembalo, musica da camera) sembrerebbero risolti — tranne quello spinosissimo della datazione, in alcuni casi ancora aperto — qualora si continuasse a contrapporre l'estroverso Haendel all'introverso Bach, come dire l'eclettica capacità di sintetizzare i vari stili nazionali da un Iato e dall'altro uno scavo in profondità, lumeggiato da una sentita coerenza etica. Ma, come vedremo meglio esaminando i due Concerti Grossi in programma, non è tutto cosi facile, il fatto che Haendel abbia dovuto ricorrere di continuo a «prestiti» suoi o altrui, lascia ancora valida l'ipotesi-chiave della musicologa Emilia Zanetti, che il compositore, cioè, consideri la musica «come linguaggio dove, alla stessa guisa del linguaggio verbale, non gli elementi singoli, ma il contesto che li dispone in ordine, decide del valore dell'espressione».

L'op. 6 fu edita a Londra nel 1740 per i tipi di Walsh con la sottoscrizione di influenti mecenati, sistema questo molto in voga nel secolo, ma a cui Haendel ricorse raramente. Il titolo originario era «Twelve grand concertos in seven parts for four violins, a tenor violin, a violoncello, with a through bass for the harpsicord». Il concerto grosso, si sa, consiste in un dialogo fra un gruppo di elementi solisti («Concertino» o «Soli») e l'insieme degli strumenti («Ripieno» o «Tutti») ai quali si aggiunge il clavicembalo. Su questo genere musicale gli studiosi si sono battuti rivendicandone la paternità a Corelli, Stradella, Torelli. Per offrire alcuni dati orientativi utili alla genesi delle composizioni heandeliane ricordiamo che i concerti grossi op. 6 di Corelli erano comparsi nel 1714 ma Georges Muffat, di passaggio a Roma nel 1682, racconta di averne già sentiti, mentre Burney parla di un concerto di 150 esecutori, diretto dallo stesso compositore romano, alla corte di Cristina di Svezia nel 1680. Ai discepoli di Corelli spetterà poi il compito di diffondere questo stile in Europa: Geminiani in Inghilterra, Muffat in Germania. Non ha molta importanza sapere se Haendel, amico di Geminiani, ebbe modo di conoscere questa forma da lui o risalì direttamente alla fonte ovvero a Corelli stesso, durante il suo soggiorno a Roma nel 1708. È certo, comunque, — come i due musicologi Hoffmann e Redlich, curatori della «Hallische Haendel Ausgabe» hanno sottolineato — che proprio in quest'anno (1708) si può già reperire un concerto grosso in miniatura ne «Il Trionfo del tempo e del disinganno».

I concerti grossi op. 6 di Haendel si compongono di elementi vari tratti dalla Suite, dalla Sonata da Chiesa, dall'Ouverture ed è interessante notare che le sezioni sfuggono al numero rigoroso di tre — instaurato da Vivaldi e adottato poi da Bach nei suoi «Concerti Brandeburghesi» — ma oscillano da quattro (n. 2, n. 4) a cinque (n. 1, n. 3, n. 6, n. 7, n. 11, n. 12) fino a sei (n. 5, n. 8, n. 9, n. 10). Formalmente dunque è a Corelli che Haendel guarda; non solo, la stessa tavolozza di colori mai vistosi o squillanti, ma teneri, liricamente sfumati, è indice di un equilibrio e di una economia di mezzi tendenti a riprodurre quello che fu il denominatore comune a molte opere della letteratura e del teatro barocco tedesco: la malinconia. Questa diventa il simbolo della posizione assunta da quegli artisti che, sospesi tra i violenti binomi di cielo-terra, vita-morte, luce-ombra, parlano nei termini di un triste e cosciente disinganno, spesso celato dietro una parvenza umoristica.

Il « Concerto grosso n. 10 » in re minore — compiuto entro il 22 ottobre 1739 — inizia con una Ouverture alla francese, la cui prima sezione è contrassegnata da decisi ritmi puntati; l'«Air» in 3/2 ha invece un andamento maestoso che si arricchisce di alcuni abbellimenti (trilli) dei soli ed è rafforzato negli effetti di eco, da una marcata contrapposizione di piano e forte. Dopo i due «Allegro » l'ultimo movimento lascia al concertino (violino I, II, viola) il compito di introdurre il tema che ritroveremo variato fino al termine della composizione.

Fiamma Nicolodi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 30 marzo 1985
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 10 maggio 1974


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Ultimo aggiornamento 27 novembre 2019