Jephtha, HWV 70

Oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra

Musica: Georg Friedrich Händel (1685 - 1759)
Testo: Thomas Morell
Ruoli: Organico: coro misto, flauto traverso, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 violini, viola, basso continuo
Composizione: 21 gennaio - 30 agosto 1751
Prima esecuzione: Londra, Covent Garden, 26 febbraio 1752
Edizione: J. Walsh, Londra, 1752
Guida all'ascolto (nota 1)

Composto da Händel tra la fine del gennaio del 1751 e l'estate dello stesso anno, l'Oratorio o Sacred Drama Jephtha - straordinario capolavoro della piena maturità compositiva - si basa su un episodio dell'Antico Testamento (Giudici, 11).

Narra la Bibbia che il Gaaladita Jephtha, figlio di Gaalad e di una prostituta, è scacciato dai fratellastri e costretto a vivere di scorrerie in un paese vicino. Quando però gli Ammoniti, che opprimono il popolo di Israele da lunghi anni, dichiarano guerra a Gaalad, è deciso che venga richiamato in patria affinché si ponga alla guida degli eserciti. Desideroso di sconfiggere il nemico ponendosi sotto il segno del Dio di Israele, Jephtha pronunzia il voto di sacrificare al Signore la prima persona che gli verrà incontro da casa quanto vi ritornerà vincitore. La vittoria sugli Ammoniti è grandiosa e senza precedenti, ma quando infine Jephtha farà ritorno a casa, sarà la sua unica figlia a farglisi incontro con timpani e danze. La fanciulla dovrà piegarsi all'ineluttabilità del voto paterno ottenendo soltanto di potersi ritirare qualche tempo sui monti a piangere la propria verginità sacrificata. Quando tornerà al cospetto del padre questi la offrirà in olocausto come promesso. [Olocausto: sacrificio che comporta la completa distruzione -attraverso il fuoco - della vittima sacrificale, la cui essenza vitale liberata dalla materia andrà a nutrire la potenza della divinità].

Nel passaggio dal testo sacro al libretto dell'Oratorio - ne era autore il Reverendo Thomas Morell, già collaboratore di Händel da alcuni anni - la narrazione biblica subì alcune rilevanti modifiche. L'azione venne drammatizzata attraverso l'introduzione di una serie di personaggi di invenzione (Zebul e Storgè, rispettivamente il fratello e la moglie di Jephtha; Hamor, l'innamorato della figlia, Iphis) e soprattutto la crudezza dell'epilogo stemperata dall'intervento di un angelo mandato dal Signore ad impedire l'uccisione della figlia di Jephtha. L'episodio veterotestamentario è portatore di un archetipo tragico che accomuna la storia di Jephtha al corpus delle tragedie di Eschilo (Agamennone, dalla trilogia l'Orestea) ed Euripide (Ifigenia in Tauride ed Ifigenia in Aulide) sulle vicende di Agamennone ed Ifigenia, dove ugualmente troviamo una fanciulla sacrificata affinché il padre possa condurre il proprio esercito al combattimento. Nello scrivere il libretto Morell, intellettuale classicista, tenne probabilmente presente il modello tragico greco (e forse anche l'lphigénie en Aulide di Racine), come sembrerebbe confermare il nome dato al personaggio della figlia di Jephtha, Iphis, chiaramente derivato da Iphigenia. E la principale modifica che Morell operò rispetto al racconto biblico riguarda proprio il suo nucleo tragico: nel suo testo il significato del sacrificio della fanciulla subisce uno spostamento di piani. Per volontà divina la figlia di Jephtha uscirà non dalla vita fisica ma dalla vita "temporale" consacrandosi a Dio e la morte della carne assurgerà a simbolo, avvicinandosi in questo modo alla concezione religiosa settecentesca (per la quale voleva dire qualcosa di ben conosciuto ed approvato come l'ingresso in convento, mentre la consacrazione a Dio della verginità è sconosciuta alla tradizione biblica veterotestamentaria).

Questo spostamento di piani tragici spiega anche l'introduzione nell'Oratorio dell'elemento amoroso, completamente assente nella Bibbia (presente però nel'Iphigénie di Racine). Il sogno d'amore infranto di Iphis e Hamor - e anche qui la radice classica del nome non lascia dubbi - serve a caricare di nuova drammaticità il senso del sacrificio, oltre ad introdurre uno spunto nella direzione dell'opera seria (per esempio la scena d'amore del primo Atto).

È possibile che Morell si rifacesse ad una fonte collaterale del 1554, lo Jephthes sive votum di George Buchanan - dove ritroviamo l'intervento finale dell'angelo - o anche ad un altro episodio veterotestamentario, il sacrificio di Isacco, dove un angelo impedisce ad Abramo di immorale l'unico figlio; o ancora alla versione euripidea in cui Ifigenia, salvata da Artemide, si consacra alla dea diventandone la sacerdotessa.

Ma soprattutto lo spostamento del piano tragico diventa comprensibile alla luce del contesto culturale nel quale l'Oratorio nasceva.

L'Inghilterra di metà Settecento era percorsa dalla grande disputa sul deismo che, sviluppatasi negli ambienti filosofici, aveva acquistato ampio spazio e risonanza. Com'è noto la controversia opponeva ai teologi difensori della Chiesa Anglicana, le idee dei liberi pensatori i quali auspicavano una "religione naturale" fondata sulla coscienza razionale nel rifiuto dei dogmi e dei misteri del sovrannaturale. Gli attacchi deisti all'ortodossia cristiana privilegiavano il terreno della storia ebraica dell'Antico Testamento, della quale erano fortemente criticate le violenze e gli orrori, l'immagine di un Dio partigiano e vendicativo, l'irrazionalità che sempre più contrastava con le conquiste positive della nuova scienza. Da parte loro gli Anglicani si sforzavano di replicare mettendo invece in luce la grandezza misericordiosa di Dio ed il sostegno dato al popolo eletto attraverso le apparizioni ed i miracoli.

Gli anni compresi tra il 1735 e il 1752, che sono quelli in cui la Chiesa Anglicana combatteva la massima battaglia antideista, vedono Händel impegnato nella composizione della serie di Oratori che, a cominciare dal Saul (1759) e con la sola eccezione di Teodora, sono tutti tratti dal Vecchio Testamento. Jephtha - ed in questo senso diversi altri Oratori, tra cui il più celebre Messiah - sembra inserirsi nel vivo della polemica deista con un implicito riferimento alle posizioni della Chiesa Anglicana. Nel suo testo Morell compiva un'operazione di trasformazione dell'episodio dell'Antico Testamento che - anche se non ne esiste alcuna prova certa - lo poneva nella direzione di una risposta cristiana alle critiche deiste: principalmente sottolineando l'appoggio dato dal Dio di Israele al suo nobile e valoroso condottiero Jephtha attraverso miracoli come l'apparizione delle migliaia di Cherubini armati sul campo di battaglia (raccontato da Hamor, Scena I, Atto II) e, con l'intervento finale dell'angelo, sostituendo alla figura dello spietato Jehovah veterotestamentario quella di un Dio paterno grande e misericordioso.

Jephtha fu rappresentato per la prima volta il 26 febbraio del 1752, al Royal Theatre di Covent Garden, secondo la consuetudine, voluta dallo stesso Händel, che vedeva le rappresentazioni degli oratori inserite nella stagione operistica. La composizione della partitura, cominciata precisamente il 21 gennaio del 1751, subì diverse interruzioni a causa di un problema di vista che Händel accusò all'occhio sinistro - cosa da lui diligentemente annotata in data 13 febbraio ai margini della partitura, nel mentre della realizzazione del coro di chiusura del secondo Atto - e fu portata a termine soltanto il 30 di agosto. Un fatto insolito dovuto alla malattia, se si tiene conto della grande rapidità di scrittura del musicista (soltanto tre settimane per la composizione del suo maggiore capolavoro, il Messiah).

Molto del materiale musicale utilizzato in Jephtha fu preso in prestito da altre composizioni e diversamente elaborato a seconda dell'occorrenza. La cosa non deve stupire, anzi rappresenta una prassi comunemente usata nel Settecento, epoca in cui erano ancora sconosciuti concetti come l'unicità dell'opera d'arte o più semplicemente il diritto d'autore (lo stesso Morell pare non avesse sdegnato di attingere per il libretto a poeti quali Milton e Pope). In particolare sembra che Händel utilizzasse come fonte di idee tematiche le composizioni sacre di un musicista attivo in Boemia, Franz Webel Habermann (1706-1783) - per l'appunto soprannominato "l'Händel boemo" - ma anche proprie composizioni come le opere Agrippina (dalla quale proviene ad esempio un'intera aria di Zebul, Atto II, Scena II), Ariodante, Lotario, o il Concerto Grosso in la minore (Opera 6, n. 4), ecc.

Diviso in tre atti ed introdotto da una Sinfonia - ancora un prestito, cui Händel aggiunse un nuovo minuetto - l'Oratorio si basa su un ampio impiego di arie solistiche secondo lo stile dell'opera seria, precedute da lunghi recitativi per lo più secchi - nei quali, come di consueto nell'opera settecentesca, viene raccontata l'azione - cui si aggiungono il duetto d'amore tra Iphis e Hamor del Primo Atto («che avrebbe potuto appartenere ad un'opera di Johann Christian Bach o del giovane Mozart»); il quartetto (Zebul, Storgè, Hamor e Jephtha) al centro del Secondo Atto e il quintetto del Terzo Atto (Iphis, Hamor, Jephtha, Storgè, Zebul, aggiunto successivamente), pezzi d'insieme, gli ultimi due, raramente utilizzati nell'opera seria di metà secolo. In questo senso dobbiamo ricordare che Händel - autore di una quarantina di opere serie - si era formato in Italia alla scuola di Corelli e Scarlatti e soprattutto che nel Settecento comporre musica vocale voleva comunque dire guardare alla grande scuola dell'opera italiana, la quale dettava legge in campo internazionale.

Il punto di forza di Jephtha - e caratteristica portante degli Oratori händeliani - è costituito dalla presenza dominante e di grande potenza espressiva dei cori, nell'elaborazione dei quali Händel si riallacciava alla grande tradizione inglese degli anthems, cantate per soli, coro ed orchestra in lingua inglese, nate all'interno della liturgia della chiesa Anglicana, in cui il coro svolgeva una funzione predominante. Assimilabile ai cori delle tragedie greche, la compagine corale di Jephtha svolge la funzione sia di commentare l'azione sia di parteciparvi (come ad esempio il semi-coro delle vergini che, nella scena seconda del secondo atto, accompagna Iphis ad accogliere il ritorno del vincitore Jephtha).

Il grande coro che chiude il Secondo Atto - How dark, O Lord, are thy decrees! [Come sono oscure, Signore, le tue volontà!] - al culmine della tensione emotiva, è indubbiamente una delle più belle pagine mai scritte da Händel. Proprio in questo momento, mentre era immerso nella meditazione compositiva sul'"oscurità" del disegno divino, la vista di Händel perse la luce, si "oscurò". Per esprimere allora la sua completa sottomissione alla volontà di Dio, il musicista decise di accentuare il senso dell'ultima frase del testo di Morell, cambiando l'originale "What God ordains is right" ["Ciò che Dio vuole è cosa giusta"] in "Wathever is, is right" ["Qualunque cosa sia, è cosa giusta"] consegnando così alla bellezza dell'ultimo dei grandi Oratori una sorta di testamento spirituale.

Elisabetta Colangelo


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 28 maggio 1999


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Ultimo aggiornamento 5 marzo 2015