La musicologia moderna riconosce oggi a Silla, opera in tre atti di Georg Friedrich Händel, una posizione di rilievo nel catalogo del genio di Halle. Solo pochi decenni fa la partitura giaceva, mutila e abbandonata, in una biblioteca inglese e veniva considerata non più che un semplice "canovaccio" della ben più nota partitura Amadigi, rappresentata con trionfale successo il 25 maggio 1715. Si pensava infatti che la partitura del Silla non fosse mai stata allestita, e fosse stata composta e poi abbandonata da Händel che ne aveva ripreso alcune pagine per Amadigi. Nel 1969, la scoperta di un nuovo libretto, la cui dedica farebbe pensare ad una esecuzione, ha destato l'attenzione di eminenti studiosi händeliani, riportando quest'opera al centro di un vivace dibattito e accendendo i riflettori su un'opera prima dimenticata.
Tuttavia la questione storico-musicologica non è ancora stata risolta in maniera soddisfacente. La scoperta, a Londra, di un'altra copia della partitura, inizialmente attribuita a Giovanni Bononcini (dapprima collaboratore e poi rivale di Händel, nonché direttore dell'Opera Italiana negli anni Venti del Settecento), e successivamente del suddetto libretto ci ha fornito i nomi degli interpreti, dell'autore del testo e della musica, ma non ha chiarito appieno la delicata questione relativa alle circostanze e al luogo di rappresentazione dell'opera.
La presenza di un libretto stampato non ci dimostra inconfutabilmente che l'opera sia effettivamente stata eseguita: si potrebbero infatti citare moltissimi casi del genere nel teatro del primo Settecento. Inoltre, a differenza di tutti gli altri libretti londinesi di Händel, questo non presenta la traduzione in inglese e l'intestazione non specifica alcun teatro d'esecuzione. La musicologia continua quindi ad oscillare ancor oggi fra le due tesi più attendibili che ipotizzano come luogo della messa in scena o la casa del conte Burlington (dove Händel dimorò per circa tre anni) o il King's/Queen Theatre of Haymarket di Londra.
Un fatto è certo: Silla, nonostante le sue imprecisioni drammaturgiche, nacque in un contesto estremamente aperto e sensibile, formato da musicisti e poeti di grande spessore, tutti inevitabilmente affascinati dal talento di un Händel al pieno delle sue capacità e reduce da successi quali Rinaldo (1711, con successive riprese nel 1712 e 13) e Teseo (1713).
Anche nel caso del Silla, come in quello di Rinaldo, il libretto è opera di Giacomo Rossi. Il cast vocale riportato sulla copia del libretto è composto da artisti del calibro di Valentino Urbani (Silla), Elisabetta Pilotti Schiavonetti (Metella), Valeriano Pellegrini (Lepido), Margherita De l'Epine (Flavia), Vittoria Albergarti (Celia) e Jane Barbier (Claudio): tutt'altro che una compagnia raccogliticcia messa insieme per il divertimento di un nobile, bensì un cast di stelle della lirica, personaggi abituati a calcare le scene dei teatri più prestigiosi. Nomi come Pilotti, Barbier, De l'Epine erano già stati, nel corso della stagione del 1712, interpreti acclamati di opere händeliane e di Ambleto, pasticcio confezionato dallo stesso Händel con musica del veneziano Gasparini.
La presenza di una tale compagnia avvalorerebbe l'ipotesi di un'esecuzione nel principale teatro londinese piuttosto che nel salone di un aristocratico, tuttavia la data del 2 giugno si rivela problematica per confermare definitivamente questa supposizione: la prima recita di Rinaldo al Theatre of Haymarket, fissata con certezza per il 6 maggio 1713, e le repliche successive nello stesso mese di maggio, sarebbero infatti troppo vicine alla data del Silla. D'altra parte non si trovano, come sarebbe logico aspettarsi, testimonianze coeve di una rappresentazione del Silla a teatro.
Ritorna valida quindi l'ipotesi che alla fine l'opera sia stata definitivamente accantonata forse anche a causa dell'insensata e surreale vicenda del libretto. Una storia inverosimile - fatto non così comune per l'opera seria settecentesca, al contrario di quel che si potrebbe pensare - nella quale il protagonista, Silla appunto, è ritratto come un tiranno così ostinato e intollerante da riuscire insopportabile a qualsiasi dedicatario. Nel nostro caso dedicatario del libretto era un alto dignitario francese, il Duca Louis D'Aumont ambasciatore di Francia, che avrebbe potuto interpretarlo anche come un ritratto poco lusinghiero di Luigi XIV, sovrano assoluto di Francia. È quindi ragionevole ipotizzare che effettivamente il soggetto sia stato giudicato troppo equivoco.
L'eccezionale brevità dell'opera conforta l'ipotesi di una partitura concepita per un'esecuzione privata in casa Burlington. Ciascun Atto conta infatti in media appena otto Arie, mentre le opere coeve dello stesso Händel hanno in media 11 -12 Arie per Atto. Le dimensioni dell'opera, seppur ben accette all'ascoltatore odierno, sarebbero risultate eccessivamente ridotte per le consuetudini dell'epoca, e quindi oggetto di critiche feroci nonché di litigi fra i cantanti, che avrebbero certamente rivaleggiato per assicurarsi il maggior numero possibile di Arie e pezzi di bravura in modo da mettere in risalto le proprie doti canore.
Al di là delle questioni filologiche e storiche, rimane la
musica: la partitura (sarebbe più giusto parlare delle partiture) è
senza dubbio all'altezza dei precedenti lavori di Händel. L'autore
riesce a superare di slancio le incongruenze e le assurdità del
libretto con un'invenzione musicale di felicissima ispirazione ed un
ritmo drammaturgico incalzante.
L'opera si apre con una Sinfonia, assente in ben due delle tre partiture esistenti; ho quindi deciso di sostituirla con una splendida Ouverture, pubblicata da Walsh dopo la morte di Händel, che rappresenta la summa del pensiero post-italiano del compositore (da notare l'Allegro che cita quasi testualmente l'Introduzione della Resurrezione - composta a Roma nel 1708).
Dopo l'Ouverture entriamo nel vivo dell'opera con una scena di trionfo, il trionfo di Silla che, si legge nel libretto, ...passa sotto il sudetto arco al suono di strumenti militari.... Manca la musica, ho quindi inserito una Marche originale del compositore orchestrandola con tromba e oboi.
Delle sette Arie che compongono il Primo Atto ben tre appariranno nel materiale di Amadigi, partitura, come abbiamo detto, costruita sul Silla. Anche in questo caso ho operato degli interventi sull'orchestrazione inserendo i timpani nella Marche iniziale e nell'ultima Aria dell'Atto. Tale scelta è motivata da ragioni di prassi esecutiva: la presenza dei timpani è molto ben documentata all'epoca di Händel. Questi strumenti infatti, soprattutto se abbinati alle trombe, erano considerati un supporto indispensabile per rappresentare i toni eroici delle scene di trionfo.
Nel Secondo Atto il Duetto tra Lepido e Flavia (Scena VI), l'Aria di Silla (Scena XII), il Recitativo accompagnato di Claudio (Scena XTV) e l'Aria finale di Metella, finiranno ancora una volta integralmente in Amadigi. Al tessuto orchestrale vengono aggiunti 2 flauti dolci.
È proprio in questo Atto che compaiono con sempre maggior frequenza le stravaganti esigenze scenografiche che fanno di questo libretto un unicum nel genere dell'insensato. Val la pena citare a questo proposito la didascalia che compare nella scena IX: Mentre Silla vuol abbracciarla [Flavia] di nuovo, calano quattro spettri che girano attorno alla statua di Silla, quale si sprofonda, sorgendo in vece di quella un cipresso, albero funesto.
I fautori dell'ipotesi di una rappresentazione al Theatre of Haymarket immediatamente posteriore al Rinaldo, ricordano la possibilità che siano stati riutilizzati per Silla i complessi macchinari che avevano reso possibili i numerosi e sbalorditivi cambi di scena del Rinaldo.
Nel Terzo Atto il numero di Arie è ancora più esiguo, due delle sette Arie di questo Atto verranno riutilizzate nella partitura di Amadigi (Scena II e Scena V). Bisogna inoltre segnalare la mancanza di accompagnamento musicale per almeno tre numeri descrittivi. Alla Scena XI, per esempio, si legge: Metella si volge a guardare il mare, e vede il vascello agitato da una grande burrasca, essendovi oscurata la luna, in cui vece comparisce una cometa con lampi, tuoni e fulmini; finalmente il vascello fa naufragio, salvandosi Silla a nuoto sopra uno scoglio.
Impossibile fare a meno di un commento musicale per questa Scena, ho quindi inserito la Scena di tempesta che apre l'opera händeliana Riccardo I, re d'Inghilterra (1727), una musica che possiede una straordinaria intensità drammatica. Terminata la Scena citata, il libretto di Rossi ci rimanda bruscamente alla Piazza di Roma dove Claudio e Lepido manifestano il desiderio di un'urbe finalmente "ripulita" dalla tirannia. Per accompagnare questa scena ho ritenuto opportuno tornare al tono trionfale che ha commentato l'inizio dell'opera; viene quindi riproposta la stessa Marche che aveva così pomposamente disegnato i confini di Roma - caput mundi al principio del lavoro.
Ma gli "scherzi" del libretto non sono finiti, subito dopo si legge: Scende una nube che copre il Campidoglio, ed aprendosi poi comparisce Marte nella sua gloria, tutti si mettono in ginocchioni per adorare quel nume.... Anche per questa breve Scena ho deciso di inserire una Marche händeliana, perfettamente appropriata alle esigenze drammaturgiche del testo. L'opera si conclude con il pentimento del protagonista (elemento ricorrente nell'opera seria) ed al felice Coro finale. Händel possiede indubbiamente il genio dell'uomo di teatro. Chi ama la sua musica operistica sa bene che le rigide convenzioni del dramma serio non hanno mai costituito un ostacolo all'espressione della sua creatività. Oltre alle Arie di bravura che servivano a compiacere i cantanti e alle straordinarie macchine sceniche che tanto impressionavano il pubblico, Händel non dimentica di esaltare musicalmente passioni e sentimenti, veri protagonisti delle sue opere.
In questo senso ritengo ingiusto discriminare alcune partiture rispetto ad altre, come potrebbe essere ingiusto per Mozart (il cui catalogo è molto meno esposto a simili rischi).
È difficile individuare nella produzione del"caro Sassone" (come lo chiamavano affettuosamente i veneziani) un momento creativo più felice di altri; la sua tecnica e il suo stile compositivo non mostrano mai segni di stanchezza. Dispiace sentir parlare oggi solo di quei due o tre capolavori (Giulio Cesare, Rinaldo) che sembrano i soli titoli degni di figurare nel cartellone delle stagioni liriche o concertistiche.
Oggi a Roma, in questa occasione - ed evocando personaggi che hanno scritto la storia di questa città, come Silla appunto - vogliamo assumerci la responsabilità di dimostrare che Händel, anche nelle opere meno celebri, resta e resterà sempre grande.
Fabio Biondi