Sonata n. 31 in mi maggiore per pianoforte, op. 14 n. 5, Hob:XVI:31


Musica: Franz Joseph Haydn (1732 - 1809)
  1. Moderato
  2. Allegretto (mi minore)
  3. Finale. Presto
Organico: clavicembalo o pianoforte solo
Composizione: 1774 - 1776
Edizione: Hummel, Berlino, 1778
Guida all'ascolto (nota 1)

Le sonate in mi maggiore (n. 31) e in si minore (n. 32), risalgono al 1774-76. Seguono, dunque, di almeno tre anni la svolta verso un pianismo e una concezione sonatistica di tipo moderno attuata da Haydn nella decisiva Sonata in do minore del 1771. Ciò che più conta, anche da un punto di vista cronologico, è tuttavia la loro concomitanza con una svolta ancor più decisiva. Quella rappresentata dalla maturazione dello stile classico, la cui prima realizzazione compiuta è identificata da Charles Rosen nel Concerto per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore (K. 271), composto da Mozart nel 1777.

Sotto tale aspetto, queste due Sonate sembrano appartenere ad anni successivi, forse coincidenti con quelli estremi del biennio cui si suole riferirle. Giacché, se la prima si limita ad anticipare tale svolta stilistica con tipica discontinuità preclassica, la seconda invece la registra con la massima compiutezza consentita al 'genere' della sonata per cembalo/fortepìano (che è, all'epoca, un 'genere' minore, riservato per definizione non a esecutori professionisti ma al vasto pubblico degli 'amatori').

Trattandosi di un fatto squisitamente qualitativo, la loro disparità stilistica non trapela quasi dalla fisionomia esteriore delle due Sonate, che comprendono entrambe tre movimenti di impianto e proporzioni pressocché identici. Nettissimo, invece, è il contrasto a livello microstrutturale; nonché a livello della coesione dei vari movimenti in ciclo unitario, che la tradizione strumentale settecentesca affidava alla ricorrenza di una sigla motivica.

La Sonata n. 31 riprende questa consuetudine in termini che ne confermano la dimensione preclassica. Il riaffiorare del suo motivo iniziale alle misure 3-5 del Minuetto e nel tema del Finale (dov'è arricchito da note ribattute) è infatti conforme all'autosufficienza discorsiva che tale motivo presenta già nel primo movimento. Così l'incisività inventiva di questo - che echeggia l'intensiva esperienza operistica allora compiuta da Haydn a Esterhàz, e rimanda a quella matrice essenziale dello stile classico che è l'opera buffa settecentesca - resta un'indicazione isolata. Lungi dall'evolversi l'uno nell'altro, i suoi vari episodi si limitano a evidenziare le giunture tonali della forma-sonata. Pertanto gli eventi centrali di tale forma (la modulazione alla dominante, su cui si impernia la cosiddetta 'esposizione', e il ritorno alla tonalità fondamentale, che implica lo 'sviluppo' del materiale tematico precedentemente posto in opera) vengono risolti rispettivamente con un'arcaica progressione armonica e con l'innesto di un nuovo elemento tematico, dotato delle possibilità sviluppanti di cui sono privi quelli già esposti.

L'Allegretto è un esempio dello sperimentalismo stilistico comune allo strumentalismo degli anni 1750-75 e così risolutivamente affiorante nello stesso classicismo maturo. Anche qui al dato progressivo di una struttura armonica avanzata, che adombra un'embrionale forma-sonata, se ne oppongono altri arcaicizzanti. La linearità contrappuntistica e l'uniformità ritmica di questo movimento sono infatti due imprestiti delia tradizione barocca, che si risolvono in una tensione espressiva tipicamente monocorde. Lo stesso vale per il Finale, legato al passato dalla schematicità anti-discorsiva della sua forma di rondò variato, ma aperto al futuro dall'insolita evidenziazione dell'episodio in minore: soluzione che ripropone all'interno dell'ultimo movimento il contrasto maggiore-minore che ha opposto i due precedenti.

Claudio Annibaldi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 15 marzo 1974


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Ultimo aggiornamento 9 marzo 2014