Trio in mi minore per pianoforte, violino e violoncello Hob:XV:12


Musica: Franz Joseph Haydn (1732 - 1809)
  1. Allegro moderato
  2. Andante (mi maggiore)
  3. Rondò. Presto (mi maggiore)
Organico: clavicembalo o fortepiano, violino, violoncello
Composizione: Eisenstadt, Eszterhàza, 8 marzo 1789
Edizione: Artaria, Vienna, 1789
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Fa piacere osservare come nei programmi dei concerti vengano riproposti con una certa frequenza, e certamente più di prima, i Trii per pianoforte, violino e violoncello di Haydn, che ammontano a trentuno, senza contare i Divertimenti da camera per violino, violoncello e cembalo obbligato e i pezzi per baryton, un vecchio tipo di viola da gamba, violino e violoncello. Si sa che la musicologia ha riservato maggiore attenzione alla produzione quartettistica (se ne contano 83) del "papà Haydn" per l'importanza che essa riveste per la formazione di un nuovo linguaggio polifonico destinato a pochi strumenti, ma non si può negare che anche i Trii, appartenenti alla piena maturità del musicista e composti fra il 1784 e il 1797, rivelano una immaginazione inventiva e un equilibrio formale degni della genialità di un artista che fu ritenuto a giusta ragione un caposcuola. Probabilmente quest'ultimo appellativo vale maggiormente per i quartetti d'archi che non per i Trii, dove Haydn mostrò di essere meno innovatore di Mozart, il quale cercò di disimpegnare il violoncello dagli schemi del basso continuo, affidandogli alle volte una parte più autonoma nel dialogo concertante con il pianoforte e il violino. Dal canto suo Haydn preferisce muovere all'unisono la voce del violoncello e il basso pianistico, a meno che lo strumento a tastiera non - prevarichi con le sue figurazioni melodiche. Ciò appare evidente nel Trio Hoboken XV n. 12 composto tra gli anni 1788-'89 e caratterizzato da una freschezza di invenzione melodica e da una estroversa e piacevole spontaneità musicale, secondo un gusto molto apprezzato dalla società viennese del tempo. L'Allegro moderato è costruito su due temi brillanti e ben legati in un gioco di eleganti sonorità con il pianoforte in un ruolo piuttosto in evidenza rispetto agli altri due strumenti. L'Andante rivela quella inconfondibile cantabilità e naturalezza armonica tanto apprezzate da Beethoven, il quale, come si sa, nutrì molta ammirazione per Haydn sinfonico e cameristico. Il Rondò conclusivo, definito semplicemente Finale nell'edizione londinese del Trio, si distingue per purezza di scrittura e gioiosità di sentimenti, in un pastoso e avvolgente dialogo a tre voci di immediata comunicativa.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Raramente la maledizione di Apollo si accanì più iniquamente, come sulla sorte dei cosiddetti Trii haydniani per pianoforte, violino e violoncello. Capolavori di livello pari, se non superiore a quello degli ultimi Quartetti e Sinfonie (ed è tutto dire), essi offrono invano al Creatore e alle solitarie gioie dell'inascoltato musicologo la loro inutile bellezza di fiori del deserto, d'ordinario disattesi dai professonisti del concertismo che tutt'al più si degnano di includere, talora, nel loro repertorio il Trio "zingaro" in sol maggiore, il solo sopravvissuto all'ostracismo e, vedi caso, non proprio il più degno di sopravvivervi. La ragione di tal nequizia, che priva la nave haydniana di uno dei suoi alberi maestri, è molto semplice e risiede nella rigorosa divisione del lavoro che irrigidisce l'organizzazione concertistica attuale: dove un Duo di violino e pianoforte è un Duo di violino e pianoforte, un Trio è un Trio, un Quartetto è un Quartetto, eccetera. Difficilmente, entro un siffatto sistema (che comporta, tra l'altro, precisi trattamenti economici e contrattuali) potrebbero rientrare composizioni, come i cosiddetti Trii di Haydn, che Trii non sono né di nome né di fatto, bensì "Sonate per il clavicembalo e fortepiano con un violino e un violoncello"; dove, in altre parole, al pianista spetta il ruolo del protagonista e ai due strumenti ad arco quello dei comprimari: Condizione quest' ultima che richiede ai relativi interpreti l'umiltà e l'entusiasmo che sono di chi ama e comprende la musica, non necessariamente, ahimé, di chi ne ha fatto un esercizio professionale di tipo competitivo e bravuristico.

Destinate originariamente agli eletti "otia" musicali di eccellenti "amateurs", le Sonate in trio riempiono di sé gli anni estremi della creatività haydniana e respirano la rarefatta atmosfera della "musica reservata" pervasa del polline eccitante di uno sperimentalismo inquieto e non di rado provocatorio, insolito persino nell'ambito dei Quartetti per archi, destinati ad esecutori più provetti, ossia viziati dalle deformazioni e dai pregiudizi del "mestiere", ossia meno malleabili delle colte gentildonne e dei loro volenterosi amici con i quali il grande Negromante si permette le confidenze più spericolate. Pubblicata nel 1790, la Sonata in trio in mi minore s'apre con un impetuoso "Allegro" d'inusitata tensione drammatica. Il rigore costruttivo sonatistico persiste anche nell' "Andante", mentre il "Presto" conclusivo sembra mutuare dalla coeva produzione sinfonica il rigoglio dell'elaborazione polifonica e la ricchezza del colore, forzando al limite estremo delle loro capacità le tenui sonorità dell'organico strumentale.

Giovanni Carli Ballola


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 1 marzo 1985
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 28 marzo 1984


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Ultimo aggiornamento 28 settembre 2016