Metamorfosi sinfoniche su temi di Carl Maria von Weber


Musica: Paul Hindemith (1895 - 1963)
  1. Allegro
  2. Turandot, Scherzo
  3. Andantino
  4. Marsch
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 corni inglesi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, 2 triangoli, 4 campane tubolari, gong, 3 piatti sospesi, piatti, tamburo basco, tom-tom, tamburo militare, tamburo piccolo, grancassa, woodblock, glockenspiel, archi
Composizione: giugno - agosto 1943
Prima esecuzione: New York, Carnegie Hall, 20 gennaio 1944
Edizione: Schott Music, Magonza
Guida all'ascolto (nota 1)

Durante il soggiorno americano iniziatosi nel febbraio del 1940 e protrattosi per tutta la durata della seconda guerra mondiale e oltre, Hindemith visse la vita del compositore di successo costretto all'esilio in un Paese lontano e per molti aspetti estraneo. Non fu il solo artista tedesco a cui toccasse quell'esperienza: e ne uscì, se non rafforzato, almeno non tragicamente distrutto. Oltre al sostentamento assicurato dall'insegnamento all'Università di Yale, Hindemith potè continuare a comporre, riannodando perfino i legami con il suo più recente passato. Dal grande ballerino e coreografo russo ormai naturalizzato statunitense Léonide Massine, con cui aveva già collaborato nel 1938 alla creazione della "leggenda danzata" Nobilissima visione, gli venne subito nel 1940 l'invito a comporre un balletto su temi di Carl Maria von Weber. Il progetto non si realizzò, ma diede ugualmente i suoi frutti tre anni più tardi con la partitura sinfonica per grande orchestra intitolata Sinfonische Metamorphosen (Carl Maria von Weber'scher Themen): ultimata nell'agosto del 1943 ed eseguita per la prima volta il 20 gennaio 1944 dalla New York Philharmonic sotto la direzione di Arthur Rodzinski.

In previsione del balletto (e l'origine coreografica del lavoro rimarrà anche a progetto tramontato, tanto che Balanchine lo utilizzerà nove anni più tardi per un suo spettacolo col New York City Ballet) Hindemith un po' si era richiamato alla memoria indelebili ricordi della musica di Weber, a lui noti dalla pratica domestica e familiare del pianoforte suonato a quattro mani, un po' era andato alla ricerca di spunti più raffinati, di cui la produzione di Weber non era avara. I temi scelti furono per così dire risposte a questi richiami. Tre di essi derivano dalle raccolte pianistiche a quattro mani di Weber rispettivamente il quarto, Allegro all'ongarese, e il settimo Trauermarsch, degli Otto pezzi op. 60 per l'Allegro iniziale e la Marcia conclusiva, il secondo, Romanza, dei Sei piccoli pezzi facili op. 3 per l'Andantino; l'ultimo, che in Hindemith costituisce l'episodio dello Scherzo, riguarda invece una melodia cinese che Weber aveva trovato nel Dictionnaire de la musique di Jean-Jacques Rousseau e utilizzato prima nella Ouvertura Chinesa del 1804 e poi nelle musiche di scena scritte nel 1809 per la versione teatrale tedesca di Schiller della fiaba cinese Turandot di Carlo Gozzi.

Da un punto di vista formale i quattro pezzi si articolano secondo lo schema "neoclassico" della suite, nel significato moderno con cui Hindemith l'aveva più volte riplasmato, ma adombrano anche il modello di una sinfonia in quattro movimenti, con lo Scherzo al secondo posto e il tempo lento al terzo, incorniciati da un Allegro in la minore e dalla pensosa, spettrale Marcia in si bemolle minore. Lo spirito della composizione è però inequivocabilmente precisato dal titolo: Metamorfosi sinfoniche. Esso va inteso in almeno due accezioni. Anzitutto come trasformazione in dimensione sinfonica, cioè estesa alle peculiarità della grande orchestra, di materiali tematici d'altro carattere e provenienza; in secondo luogo come estremo e raffinato compendio dell'arte della variazione. E se nel primo senso assai chiaramente si trattava fin dall'inizio di una parafrasi tematica improntata alla massima libertà, tale da intervenire sui temi arricchendoli già alla loro enunciazione e finalizzata a creare grandi blocchi con effetti coloristici, nel secondo l'arte della variazione costituisce non solo il motore propulsivo ma l'anima stessa della composizione. A queste osservazioni ne va aggiunta un'altra, importante: i temi sono elaborati e variati in modo da alternare periodicamente alla massa compatta e opulenta dell'intera orchestra la presentazione da protagonisti di solisti (soprattutto il flauto) e di gruppi strumentali ristretti, in una sorta di ideale metamorfosi moderna (propriamente sinfonica e quasi pensata nel presente per il fenomenale virtuosismo delle orchestre americane) dell'antico "concerto grosso".

Il passaggio dal divertimento pianistico salottiero al grande formato sinfonico con ciò che esso comporta in fatto di figure, di timbri e di relazioni; il progressivo trapasso dalla semplicità di melodie ariose e di ritmi ingenuamente reiterati dai ritornelli alla imprevedibile deformazione armonica e metrica su cui si proietta ora il sorriso dell'umorismo sincopato ora l'ombra severa di antichi contrappunti; e non da ultimo l'inattesa irruzione nello Scherzo-Turandot di elementi jazzistici spigolosamente profilati su esotismi e cineserie di secoli passati: tutto ciò costituisce non solo un monumento, come si è detto, alle possibilità inesauribili dell'arte della variazione, ma anche un'affermazione di continuità e di universalità nel cammino della storia, oltre ogni barriera di stile e di epoca. Dove l'idea stessa di metamorfosi, eludendo i confini dell'attualità, sembra indicare all'arte la mèta di un più vero, stabile possesso.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 10 marzo 1996


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Ultimo aggiornamento 27 novembre 2013