Country Band March


Musica: Charles Ives (1874 - 1954)
Organico: flauto (anche ottavino, clarinetto, sassofono, cornetta, 2 tromboni, tamburo, grancassa, piatti, pianoforte, archi
Composizione: 1905 (revisione 1910 - 1911)
Prima esecuzione: New Haven, Sprague Memorial Hall, 3 marzo 1974
Edizione: Merion Music, Bryn Mawr, 1974

Incompiuto
Guida all'ascolto (nota 1)

«Abbiate fiducia nell'insondata forza dell'uomo. - diceva Ralph Waldo Emerson (1803 - 1882) a un gruppo di giovani americani - Noi abbiamo ascoltato troppo a lungo le muse cortigiane dell'Europa... Noi cammineremo sui nostri piedi, lavoreremo con le nostre mani, esprimeremo i nostri pensieri. Affondate nell'oggi e avrete il mondo antico e il futuro insieme».

L'America e tutte le forme della sua cultura si sono mosse a seguire la bandiera di Emerson con la creativa spontaneità di una banda da Camp March. Quel che ancora ci distingue, e a noi continua a sfuggire del "loro" pensiero, è qui: l'America vive nell'oggi con una convinzione, una consapevolezza che a noi costa la fatica di un secondo pensiero. Per la cultura europea, l'oggi è un'entità sospesa tra un passato grande, pesante, antico cui non ci si può sottrarre, e per lo più va rimpianto, e un futuro che promette quasi solo inquietudini, incertezza, angoscia. La cultura americana, libera dal macigno di un passato troppo oneroso, si lascia portare dal fiume del presente senza aspettare un'acqua più limpida che forse non verrà; non si siede sulla riva col rischio di passare la vita a sognarla. L'oggi come presenza concreta dell'antico e del futuro: così lo vive il pensiero americano. Come assenza dell'uno e dell'altro, tende a viverlo l'europeo. E tutto segue.

Sperimentare ed esplorare, poi, non è mai stato un atteggiamento rivoluzionario per un americano, scriveva Henry Cowell, cui è attribuito l'onore di aver teorizzato il cluster come mezzo d'espressione comune, accanto alla triade perfetta, all'accordo dissonante, all'ottava, alla serie, e lo diceva nelle prime pagine del suo libro su Charles Ives (Oxford University Press, 1955), perché senza proclami, col solo esempio, tutta la musica americana si è messa dietro la bandiera di Ives come la cultura dietro le parole di Emerson.

Per Charles Ives, sperimentare non fu mai un gesto dimostrativo ma cromosomico; l'aveva nel sangue e gli veniva dal padre George. Nel suo piccolo la Country Band March è un vetrino che, al microscopio, svela già completo il Dna estetico della musica a stelle e strisce.

«Mio padre ebbe una vera passione per i quarti di tono - scriveva Charles -, e non smise mai di fare esperimenti con essi. Attrezzò un congegno che tendeva 24 o più corde di violino... cominciò a costruire un sistema di archetti che scattavano per mezzo di pesi e prolungavano gli accordi... fece esperimenti con bicchieri e campane, e ottenne suoni talora affascinanti, talora divertenti, suoni che solamente i bambini sono abbastanza vecchi per apprezzare», i pianoforti microtonali "saturi" a rulli perforati di Conlon Nancarrow - un altro di quei solitari "inventori di genio" che l'enciclopedietta Garzanti nemmeno sa che esistono - sembrano usciti, cinquantanni dopo, dal laboratorio di George Ives, avanguardista dell'Ottocento.

«Papà ebbe, come si dice, un orecchio assoluto. Ma ciò sembrava disturbarlo - scrive ancora Ives negli Essays before a Sonata -. "Tutto è relativo, diceva, solo gli scemi e le tasse sono assoluti". Un amico che era un musicista perfetto, diplomato al New England Conservatory di Boston, gli chiese perché con il suo orecchio delicato amasse sedersi a percuotere di dissonanze il pianoforte. "Beh, rispose, io posso avere un orecchio assoluto, ma grazie a Dio il pianoforte non ce l'ha" ...Un pomeriggio, durante un temporale scrosciante, lo vedemmo senza cappello e cappotto in giardino: la campana della chiesa stava suonando. Continuava a correre in casa al pianoforte e poi di nuovo fuori. "Ho sentito un accordo che non avevo mai ascoltato prima - ripeteva - ma non riesco a suonarlo". Stette alzato buona parte della notte cercando di riprodurlo al pianoforte».

Con la Danbury Civil War Band, di cui divenne direttore e in cui suonava il tamburo, il piccolo Charles fece gli esperimenti più radicali: «... I suonatori erano disposti in due o tre gruppi attorno alla piazza della città. Il gruppo principale, sul palco dell'orchestra al centro, di norma suonava i temi principali, mentre gli altri, dai tetti e dalle verande suonavano le variazioni, i ritornelli e così via».

I Camp Meetings - in cui si trattava in fondo di celebrare un agreste rito collettivo, tra un apple pie, una preghiera, un coro e un girotondo -, nelle mani di Ives padre e nell'orecchio interno di Ives figlio diventavano un laboratorio di fonologia. Nel meno di quattro minuti e mezzo della Country Band March è condensato un campione genetico di pensiero americano all'apparenza debole, in realtà fortissimo, dal momento che di quello è permeata ancora la colonna sonora dei nostri giorni, a quasi cento anni di distanza. La Country Band March venne abbozzata probabilmente nel 1903 - Ives aveva ventotto-ventinove anni - ripresa e orchestrata in dettaglio più tardi e utilizzata nel 1911 come materiale del Putnam's Camp, secondo movimento del Three Places in New England.

C'è molto Ives padre nella Country Band March, nel suo organizzatissimo disordine, nella geniale programmazione dell'incrocio di temi - motivetti popolari e banali - che marciano l'uno sui piedi dell'altro con virtuosismo e nonchalance irresistibili.

Una bella scordatura apre le danze, poi l'arte scombinatoria di Ives (figlio) guida le assolvenze e le dissolvenze incrociate dei motivetti - c'è anche l'infanzia di London's Bridge is Falling Down - esattamente come i sottogruppi della banda di Danbury convergevano sapientemente scoordinati nei temi e nei ritmi verso la piazza della città.

La Country Band March è un brano tridimensionale che allunga i suoi tiri verso infinite buche del Novecento, fino a raggiungere senz'altro inconsapevolmente il vicino (a lui nel tempo ma non nello spazio) teatro sbilenco di Kurt Weill (che non si sarebbe trovato male sul terreno del musical americano trent'anni dopo) e molto consapevolmente il lontano (nel tempo ma vicino nello spazio) rock cubista di Frank Zappa.

Carlo Mria Cella


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 3 maggio 1998


I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 3 marzo 2016