Sonata n. 3 per violino e pianoforte


Musica: Charles Ives (1874 - 1954)
  1. Adagio
  2. Allegro
  3. Adagio
Organico: violino, pianoforte
Composizione: 20 dicembre 1914
Prima esecuzione integrale: New York, Carnegie Chamber Music Hall, 22 aprile 1917
Edizione: New Music, New York, 1951
Guida all'ascolto (nota 1)

La Terza Sonata per violino e pianoforte pubblicata nell'attuale forma nel 1914 (ma Ives le dette il numero quattro finché non decise che un suo primo tentativo dovesse essere cancellato dal novero delle sue opere) fu tra le composizioni meno amate dal suo autore. Ives diceva infatti - e risulta da alcuni scritti autobiografici - che essa era sì tra le più vecchie sue composizioni ma anche la peggiore; una «sorella malata», aggiungeva, rispetto alla sua produzione. E spiegava così questo scarso amore:

«La Sonata è un buon esempio di quello che accade quando permetto alla gente di intervenire nella mia musica. L'ultimo movimento in particolare mostra una specie di regressione; magari i temi sono abbastanza belli in se stessi, ma c'è anche il tentativo di soddisfare i "buoni ascoltatori" e di "essere piacevole"».

Dietro a questo giudizio, un episodio abbastanza indicativo del carattere del musicista americano, anch'esso narrato con abbondanza di particolari in uno scritto autobiografico. Desideroso dunque di ascoltare da un professionista le sue due prime Sonate per violino e pianoforte Ives ricevette nella sua casa di West Redding - anche per insistenza della moglie che voleva che il marito si affermasse come compositore - un concertista tedesco che allora andava per la maggiore ma che viene definito come un «narrow minded» (un uomo dalla mente ristretta) e come una «tipica prima donna» chiedendogli di eseguire per lui quelle musiche. Ma alla fine della prima pagina il virtuoso, dopo avere a più riprese dimostrato di non gradire la scrittura ivesiana, si fermò improvvisamente esclamando: «Questa musica è ineseguibile! Questa non è musica, non ha senso!». Allora fu Ives a prendere il posto dell'esecutore e ad andare avanti nella lettura. «Ma dopo che io ebbi suonato un po' di tempo per lui - continua a narrare Ives - egli lasciò la piccola sala di musica tenendosi le orecchie con le mani ed esclamando: "Quando avete mangiato del cibo indigesto potete curarvi. Ma non c'è olio che possa liberare le mie orecchie da questi terribili suoni"». L'episodio lasciò tracce profonde in Ives, anche perché collegò il giudizio di questo violinista a quelli che raccoglieva quando altri musicisti allora celebri leggevano od ascoltavano la sua musica, giungendo alla conclusione che nelle sue composizioni dovesse esserci qualcosa di sbagliato. «Mi dissi: sono il solo con l'eccezione della signora Ives e di Ralph D. Griggs, al quale piaccia la mia musica, eccetto forse alcune vecchie cose più convenzionali; perché mi piace lavorare in questa direzione anziché in quella che piacerebbe ad altri? Nessuno sembra udire allo stesso modo: sono forse sbagliate le mie orecchie?». Nella crisi intervenne allora la moglie chiedendogli di comporre qualcosa di piacevole, sulla strada che quegli estemporanei ascoltatori gli indicavano concludendo questi discorsi dicendo: «Se tu desideri che altri eseguano la tua musica scrivi qualcosa che tu non desidereresti suonare in prima persona».

Ed è quello che Ives provò a fare con questa Terza Sonata utilizzando anche materiale musicale preesistente: vi si ritrovano, infatti, temi tratti da un suo giovanile lavoro per organo (del 1901) mentre il secondo tempo è la trascrizione di un brano per piccola orchestra scritto ed eseguito al Globus Theater di New York nel dicembre del 1905. Provò ma non fu soddisfatto, come si è visto, riconoscendosi sì nell'invenzione tematica ma non nella scrittura che per l'occasione aveva abbandonato quelle sue «stravaganze» armoniche che hanno fatto di Ives tra i più originali e rivoluzionari musicisti dei nostri tempi. E i temi sono quelli di sempre, quelli dell'America mitica e favolosa, inseriti però in un contesto armonico più ovvio di quello al quale Ives ci ha abituato e per il quale soprattutto si è fatto amare. Sono i temi che ritroviamo nelle quattro stanze ed altrettanti refrain che nella dimensione di un inno caratterizzano il primo Adagio, nella cantabilità dell'Adagio finale (quello che meno piaceva ad Ives, come si è visto) e nell'allegro intermezzo carico degli echi di quell'orchestra da camera che per prima ne eseguì le note a New York.

Gianfilippo De' Rossi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 16 novembre 1973


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Ultimo aggiornamento 7 settembre 2016