Béla Bartók e Zoltán Kodály sono, com'è noto, le figure più rappresentative della musica ungherese del Novecento: legati da una fraterna amicizia e da una lunga consuetudine di lavoro artistico e scientifico, ebbero tuttavia destini diversi, come diverse erano le loro personalità di uomini; e se la musica del primo è profondamente segnata da una drammatica e pessimistica concezione della vita, quella di Kodály si manifesta quasi sempre in fiduciosi e ottimistici abbandoni. E mentre Bartók si trovò sempre in mezzo alla bufera (le persecuzioni politiche, la tristezza del declino fisico e l'esilio) Kodály fu guardato invece come un simbolo di saggezza, di vitalità e di prestigio; così nel 1942 tutta l'Ungheria salutò solennemente il suo sessantesimo compleanno, e nel 1947 apprese che egli era stato insignito della Gran Croce della Repubblica Popolare Ungherese.
Laureatosi nel 1906 con una tesi su «La struttura strofica del canto popolare ungherese», Kodály sembrò indicare già in questo lavoro quale sarebbe stata la sua missione di musicista: un continuo atto di amore verso la realtà del canto popolare, considerata come un fenomeno autosufficiente, capace di continue sollecitazioni fantastiche. Per questo, agli occhi di recenti sostenitori della musica «impegnata», Kodály appare fuori dell'avanguardia, perché «si limita a rivestire di preziose armonie e di sapienti impasti strumentali i temi del patrimonio contadino» (Gentilucci). Di fatto il Te Deum che il musicista ungherese compose nel 1936, a celebrazione del duecentociriquantesimo anniversario della liberazione di Budapest e che fu eseguito nello stesso anno sotto la direzione di Victor Sugar, si innesta in un vasto filone di riscoperte della «tradizione» che caratterizza quasi tutti i musicisti più aperti sul futuro di tutta la prima metà del Novecento: i termini di rapporto, oltre alla presenza di impronte popolaresche diventate linguaggio e stato d'animo, non possono essere che Stravinsky da un lato e Bartók dall'altro; ma qui in una semplicità e in un candore che è di Kodály e di lui solo, con tutta la forza del suo ottimismo.
Alle sonorità alte e tese dell'inizio e del Pleni sunt coeli, in stile fugato, succede un discorso musicale più serrato e denso, che approda al fortissimo spasmodico di Non confundar in aeternum, per placarsi poi in modo dolcissimo nel Lento finale (In aeternum) per soprano solo, che si conclude come un sospiro.
Leonardo Pinzauti